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Cecilia

La punta delle dita sfiora la donna bionda raffigurata nel quadro col filo di perle al collo e davanti a questa serenità, rimango dapprima immobile poi la mia mente si smarrisce nel labirinto delle memorie e con un sospiro mi affloscio sul sofà, dietro di me.
"L'ho adagiata sul pavimento del salone" e pur cogliendo il sudore che mi appiccica la camicia alla pelle, continuo: "Lei sbatteva le palpebre, come a chiedersi: "Cos'è accaduto?" Mentre io, con la stessa delicatezza con cui l'ho distesa, le sussurravo: "Sono qui, amore. Volteggiando, sei scivolata". Poi l'ho udita mormorare: "Non suonano più? Perché? Desidero ancora ballare".
Intanto che aiutavo Cecilia a rialzarsi: "È stato solo un capogiro", ripetevo rassicurante alla gente intorno che l'osservava preoccupata. E rivolgendomi all'orchestra: "Vi prego, seguitate a suonare".
I musici hanno ripreso con un valzer e seguendo quelle dolci note, ce ne andavamo su e giù per il salone ormai vuoto, quasi senza toccare il marmo lustro del pavimento.
Dai piedi sentivo salire un tumulto che dopo avermi sfiorato le membra, arrivava alla testa. Sentivo il corpo che trasformava quello stordimento in emozione. Sentivo quell'emozione diventare pensiero. Quindi ho afferrato il pensiero accompagnato dalla certezza che dalla fusione tra l'anima e il corpo viene fuori la felicità.

Sembra sia passato parecchio tempo, invece è trascorso poco più di un mese da quell'ultimo giorno di carnevale, eppure soltanto adesso mi accorgo che accanto a dove siedo, è rimasto lo scialle di Cecilia. Cecilia l'ha gettato sul divano al suo ritorno e lì è restato quando si è precipitata in camera.
Lo sollevo, vi affondo il viso e aspirando l'inebriante profumo di Cecilia: "Cecilia è tornata. Odo le parole che quella notte mi bisbigliava all'orecchio "Non ti fermare. Se ti fermi i musici smetteranno di suonare, perché siamo rimasti solo noi". Le rispondevo: "Se ne sono andati tutti, dobbiamo andarcene anche noi, la festa è finita".
"No", protestava. "La festa non può finire: ci siamo ancora noi!", sosteneva appoggiando le labbra sulle mie.
Il ricordo delle sue morbide labbra, fa ritornare le immagini dei momenti in cui nel cuore della notte entrava nel salotto per dirmi: "È tardi. Vieni a dormire".
Io ero al pianoforte e sebbene volgessi le spalle all'uscio, dall'odore intenso di violette mi accorgevo che era arrivata. Allora smettevo di comporre e fingendo indifferenza aspettavo che si accostasse. Aspettavo finché mi sovrastava e coi lunghi capelli mi solleticava la nuca e le guance. A quel punto, cinto dal suo abbraccio mi giravo per baciarla. Poi reclamando un po' di posto sullo sgabello si sedeva accanto a me e incominciavamo a inventare melodie.
Che beatitudine!
Mi pareva di fluttuare nell'aria e credo che anche lei provasse la stessa sensazione, giacché non prese in considerazione le parole dettemi due mesi avanti la fine dell'anno: "La settimana prossima vado a trovare mio padre, in Francia prima che la neve renda inaccessibile alle carrozze il valico delle Alpi".

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1 commenti:

  • Michele Rotunno il 26/11/2010 20:28
    Atmosfera da Guerra e Pace, leggendo ho avuto l'impressione che fosse un capitolo stralciato da un romanzo di ambiente ottocentesco.
    Scritto bene, con un certo distacco.

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