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Poco tempo
Al mio risveglio la testa ancora mi faceva male. Per quanto tempo ero rimasto privo di sensi? Dove mi trovavo? Avevo ancora tempo a sufficienza per trovarla? Sotterrato da una valanga di interrogativi ai quali non avrei mai avuto risposta, ho fatto appello alle forze che mi rimanevano per cercare di sollevarmi da terra e mettermi in piedi. Solo alzandomi mi sono reso conto che ero a piedi nudi. Una volta assunta la posizione eretta, sempre in preda ad uno stato confusionale totale, ho cercato di capire dove mi trovavo e che cosa ci fosse intorno a me. Non subito sono riuscito in questo secondo intento. I miei occhi, nonostante fossero già in parte abituati all'oscurità, non riuscivano a riconoscere altro che pareti rocciose e alcune sorgenti luminose sparse qua e là, in vesti di fiaccole. Ho impiegato poco a capire che, in effetti, oltre ad un misto di polvere, ragnatele e sporadici cumuli di macerie, non c'era altro intorno a me.
Avevo freddo, come adesso. Il mio corpo debole tremava per la bassa temperatura. Mi sono avvicinato ad una parete, composta da enormi blocchi di pietra umida e gelata. Ne ho toccato uno ma ho subito ritirato la mano perché quel gesto mi aveva provocato un ulteriore brivido in tutto il corpo. Prolungando la panoramica visiva, ho realizzato immediatamente che nessuna finestra era alla portata del mio sguardo. Né chiusa, né tantomeno aperta. Solo oscurità. In mesta conclusione mi sono risvegliato stordito e congelato in un buio e stretto cunicolo dal soffitto alto a dir tanto due metri e mezzo, a piedi nudi e vestito di soli stracci.
Ero in preda al panico. E lo stato d'animo era ancor più giustificato dalla drammatica consapevolezza del fatto che lei aveva bisogno di me. Mi sono sforzato di smorzare la disperazione, riuscendo a stento nel proposito. Soltanto dopo diversi secondi, mentre ancora stavo cercando di mettere a fuoco più elementi possibili all'interno del mio campo visivo, ho deciso di voltarmi. Con mio stupore, una grata ferrata si specchiava nei miei occhi. La porta, ormai arrugginita dall'umidità permeata dalle rocce e dal pavimento, sembrava in disuso da secoli. La catena che la assicurava saldamente al terreno affermava il contrario. Filtrando lo sguardo attraverso le spranghe, ho cercato di riconoscere qualcosa ma tutto ciò che potevo vedere era una stretta scalinata che conduceva in alto, nell'oscurità. Mi sono avvicinato ad una fiaccola inanellata alla parete più vicina per tentare di impossessarmene ma l'iniziativa morì sul posto, dal momento che l'asta metallica era un tutt'uno con l'anello che la sorreggeva, murato nella roccia. Così come tutte le altre.
Ho gettato un ultimo sguardo alla porta. Tutto faceva pensare che mi trovassi sottoterra e che quella che avevo di fronte era stata la mia via di accesso. Ma non sarebbe stata certamente quella di fuga. Dovevo cercare di tornare in superficie ma per il momento non potevo fare altro che cominciare a muovermi ed avanzare nella direzione opposta alla grata, anche per contrastare il gelo che stava avendo la meglio sul mio corpo.
Avanzavo lentamente lungo un corridoio che sembrava non avere mai fine. Per un periodo di tempo indefinito che a me è parso un'eternità, sono stato accompagnato da un assordante e tenebroso silenzio, interrotto soltanto a scatti dall'eco delle gocce che, abbandonando il soffitto, si congiungevano con altre migliaia raccolte in pozze sul terreno sottostante. Potevo, inoltre, percepire il crepitio delle fiamme e altri rumori dei quali non riuscivo ad individuarne la fonte. Trascinavo le gambe, lottando contro la stanchezza, conscio del fatto che il tempo non era dalla mia parte. Ad un tratto, aiutato da una fiamma che fortunatamente si trovava nelle vicinanze, un particolare del terreno ha catturato la mia attenzione. Anzi, due. L'irregolarità del pavimento roccioso cessava di colpo lasciando al suo posto una distesa di oscurità. Un baratro? Inoltre, a contatto con la parete vicino alla fossa, potevo intravedere una sagoma. Solo aiutato da alcuni ulteriori passi ho potuto capire che mi trovavo di fronte ad un cadavere ancora in fase di decomposizione e che non ero giunto ad un capolinea, quanto al cospetto di una voragine profonda chissà quanti metri ma fortunatamente larga non più di due. Difatti, potevo scorgere nuovamente il pavimento dall'altro lato.
Ho concentrato per un attimo le mie attenzioni sulla salma, ipotizzando che potesse trattarsi di uno sventurato gettato in pasto ad un destino non voluto, forse come quello che mi stava attendendo. Mi sono interrogato sui possibili fattori che non avessero permesso all'uomo di tentare quantomeno un salto verso l'altra sponda, dal momento che non si trattava di una buca poi così larga. Magari, ho pensato, aveva delle ferite che gravavano pesantemente sulla sua forma oppure era soltanto impossibilitato a prendere un'adeguata rincorsa a causa di un'andatura claudicante. Fatto sta che l'individuo era morto di stenti, da solo, magari agonizzante e in preda alla disperazione. Ho notato una piccolissima sacca sotto la sua mano. Non ero entusiasta all'idea di depredare un morto ma non mi trovavo nelle condizioni di poter badare all'etica delle mie azioni. Ho tirato a me l'oggetto per la cinghia e, liberandolo dalla polvere, l'ho aperto, avvicinandomi ad una delle torce. Le fiamme mi mostrarono il povero contenuto della sacca: foglie secche, qualcosa che assomigliava a delle radici e una piccola boccetta, non più grande del palmo della mia mano. Non mi veniva in mente alcun beneficio concreto da trarre da quegli oggetti, dato però il modesto volume totale non mi sarebbe costato molto portarmelo appresso. Ho passato la cinghia intorno al collo ed infilato il piccolo borsello nello scollo della veste.
Ho poi pensato al burrone. Non avevo fino ad allora incontrato bivi o altri modi per deviare il mio attuale percorso. Non ho quindi potuto fare altro che fare appello alle mie poche forze per spiccare un salto oltre il precipizio, non prima di avere preso una sufficiente rincorsa e le giuste misure. Dopo il volo nel vuoto, sono atterrato con diversi centimetri di suolo alle mie spalle, rotolando per ammortizzare la caduta. Gli stracci che indossavo si sporcarono e si bagnarono ulteriormente, rendendo il bianco colore della stoffa soltanto un puro ricordo. Mi sono tirato nuovamente in piedi, paradossalmente con una prontezza maggiore della prima volta, aiutato dalla scarica di adrenalina e calore che lo sforzo necessario mi aveva donato, aiutandomi a rigenerare parzialmente la forma fisica. Prima di proseguire dritto, camminando rasente la parete più vicina, mi sono cautamente avvicinato al baratro per fare capolino dal bordo del pavimento. Sentendo che le gambe stavano perdendo il contatto con la realtà alla vista di tutto quel nulla, ho deglutito e mi sono affrettato per portarmi il più possibile lontano da quel vuoto infinito che pochi secondi prima avevo sorvolato. Mentre mi allontanavo, perplesso, ho interrogato me stesso per rendermi conto se, nell'istante in cui mi ero sporto, avevo realmente percepito la visione di qualcosa nella profondità dell'abisso. Come una sorta di scintilla o di riflesso. Come allora, rimango anche adesso con il dubbio. Niente poteva convincermi a tornare indietro per verificare una probabile visione causata dalla stanchezza o dal colpo ricevuto che, ancora, mi duole tremendamente.
Mentre proseguivo nel mio avanzare, oltre a domandarmi dove potessi trovarmi e se avessi una qualche speranza di cavarmela, non potevo fare a meno di pensare a lei. Ai suoi occhi di cristallo, ai suoi inebrianti capelli color nocciola. Ipnotizzato dall'oscurità macchiata dagli aloni dei focolari, ripercorrevo le nostre ultime ore insieme, ripetevo dentro di me le parole che uscivano sommesse dalle nostre bocche. I nostri progetti, i sogni e il futuro. Poi il buio. I ricordi si interrompono bruscamente per fondersi con il presente in una singola striscia di fotogrammi mentali. Senza neanche rendermene conto, sono giunto ad un bivio. Il corridoio si biforcava ad angolo retto, dando vita a due percorsi che, dal punto in cui mi trovavo, sembravano maledettamente identici. Ho dedicato pochi inutili secondi alla scelta della nuova direzione, non avevo neanche un elemento per giudicare uno di essi migliore dell'altro. Svoltando quindi a sinistra, mi sono rimesso in marcia e, pervaso da una sensazione di impotenza, ho accelerato il passo. Solo dopo poche centinaia di metri, le mie preoccupazioni si manifestarono ai miei occhi con tutta la loro prepotenza. Il percorso si snodava ulteriormente in due diverse direzioni. Ruotando la testa di pochi gradi, ho passato rapidamente lo sguardo da un corridoio all'altro. Mentre cresceva in me lo sgomento e la certezza di trovarmi in un vero e proprio labirinto, un rumore diverso ha allertato i miei sensi. Trattenendo il respiro, potevo percepire in lontananza un rumore cadenzato, un battito ovattato ma regolare, di intensità sempre più forte, provenire dal corridoio alla mia destra. Tenendomi nascosto dietro l'angolo della deviazione, attendevo, certo di scorgere di lì a poco la fonte del suono. E così è stato. Quelli che avevo sentito erano dei passi. E l'uomo stava dirigendosi verso di me con una velocità, per fortuna, contenuta. Ho subito ritirato la testa, rifugiandomi totalmente dietro l'angolo. Ero stato aiutato dall'oscurità e di certo non mi aveva visto. In compenso, quei pochi attimi mi sono bastati per notare uno scintillio prodotto da una torcia sull'arma bianca che l'uomo si portava appresso, assicurata alla cintura. Non sembrava cercare qualcuno. Camminava pigramente verso la mia direzione, forse calpestando quella che doveva essere la sua area di ronda. Ero comunque pietrificato dal terrore. Stavo cercando di obbligare le mie gambe a muoversi per farmi tornare sui miei passi e cercare un riparo, magari imboccando il corridoio che al primo bivio avevo scartato, quando ho sentito il rumore dei passi perdere di intensità. Dopo avere avuto la certezza che l'uomo si stava realmente allontanando, ho preso coraggio per fare capolino e gettargli un'ulteriore occhiata. Ho avuto appena il tempo di vedere la sua schiena, notare le sue vesti di stoffa sgargiante e di nuovo la sua arma, prima di vederlo inghiottito dall'oscurità. Con passi felpati ed in punta di piedi, evitando le pozze di acqua stagnante che si erano create sul pavimento della biforcazione, ho imboccato l'altra strada per allontanarmi il più possibile dalla guardia che se mi avesse sorpreso, sapevo per certo, non mi avrebbe accolto amichevolmente. Mi stavo ancora godendo il sollievo di sapermi sempre più lontano dall'essere catturato quando mi ha pervaso il terrore: il corridoio terminava in una stanza priva di fiaccole. Niente scale, nessun bivio. Una sola grata, aperta, e una stanza di dieci metri quadrati al massimo appena illuminata da una coppia di torce ai lati del corridoio di ingresso. Ma quello che più mi ha sconcertato è stata la visione di quelle centinaia di ossa. Cumuli di crani e casse toraciche ornavano macabramente il pavimento dei quella che doveva essere una cella di detenzione. Nonostante il morso della fame si facesse sentire già dal mio risveglio, la vista mi ha procurato ugualmente ripetuti conati di vomito che produssero dalla bocca nient'altro che alcuni rivoli di succhi gastrici. Non ho varcato neanche la soglia della stanza. Sono rimasto per poco tempo ancora a guardare quel lugubre scenario e, determinato a volermi liberare di quella visione, ho fatto per voltarmi quando qualcosa si è mosso: uno scheletro stava lentamente e silenziosamente muovendosi. Ho subito pensato ad un animale, un rettile o magari dei ratti, che avevano fatto della scatola toracica un accogliente nido. Deciso a rimanere nel dubbio, non sono rimasto un ulteriore secondo sotto alla grata. Voltandomi, sono corso via il più veloce possibile. Sempre correndo mi sono avvicinato nuovamente al bivio, dapprima tendendo l'orecchio, poi gettando una fugace occhiata in direzione di provenienza della guardia: la via era libera. Mi sono allora immesso nel corridoio che pochi minuti prima avevo percorso in direzione opposta, cosciente di avere una sola direzione da poter prendere. Il tempo scorreva inesorabile e questo pensiero mi accompagnava senza darmi tregua. La lotta fra la mia quasi impotenza fisica e la consapevolezza di avere una scadenza era alla pari. Avanzavo a scatti, fermandomi ogni volta che sentivo un rumore insolito. Stavo costantemente sull'attenti, preparandomi psicologicamente ad un nuovo possibile incontro. Nessun incontro si è verificato. Piuttosto, giungendo al termine di uno dei tanti corridoi gemelli che avevo percorso fino ad allora, ho realizzato la presenza di una nuova grata. Questa però si affacciava a quello che sembrava essere uno strapiombo ma che invece si rivelò soltanto un dislivello di un paio di metri. Mi trovavo di fronte ad una nuova stanza, ben illuminata e dalla base quadrata. Le sue vie d'accesso erano tre: la grata sopra la mia testa, un'altra identica esattamente di fronte al mio sguardo ad una decina di metri di distanza e una piattaforma sulla mia destra, maggiormente sopraelevata dal pavimento rispetto a dove mi trovavo in quel momento. Ho pensato di essermi imbattuto in una specie di arena, dove due lottatori impotenti erano obbligati a fronteggiarsi per la sopravvivenza. Le carcasse scheletriche accatastate ai piedi delle pareti di tutta la sala confermavano questa mia ipotesi. La pedana, ovviamente inaccessibile ai due combattenti, garantiva agli spettatori la visione sicura del sanguinoso spettacolo. Gettando lo sguardo sull'arena, sono stato catturato da un oggetto dalla forma curiosa. Da sotto un corpo ormai ridotto alle ossa, spuntava un oggetto metallico che rifletteva le fiamme delle lanterne. Mi sono calato dalla piattaforma sulla quale mi trovavo per scoprire di cosa si trattasse. Era una sciabola. Ho allungato la mano sinistra e ho raccolto l'oggetto per l'elsa, per poi impugnarla con l'altra mano. Ho puntato verso il soffitto la lama che, nonostante fosse polverosa e sporca di sangue rappreso vecchio di chissà quanto tempo, riluceva al bagliore delle torce. Ho provato una nuova sensazione di conforto che solo un'arma, in quelle circostanze, poteva darmi. Ho speso pochi altri secondi per guardarmi attorno; poi la consapevolezza di trovarmi al centro di una ricca collezione di ossa ha cominciato a mettermi i brividi. Percepivo decine di orbite oculari puntate contro di me, immerso in un silenzio letteralmente tombale. Assicurando alla buona la sciabola alla cinta, ho impiegato in totale una trentina di secondi per confermare a me stesso che la seconda grata era serrata e che la piattaforma era decisamente fuori della mia portata, anche ipotizzando di costruire una improvvisata duna di resti umani per avere qualche possibilità in più. Alla luce di quelle considerazioni, non ho potuto fare altro che allungare le braccia verso la pedana dalla quale ero sceso poco prima e, con uno sforzo improbabile, sollevarmi sopra di essa.
Avanzando, ho fatto un rapido riepilogo mentale: la via di accesso a questa prigione, occlusa dalla prima grata con la quale avevo fatto conoscenza, era inaccessibile. Avrei potuto tentare di forzare con la mia novità la serratura che fissava le due estremità della catena ma già avevo scartato questa opzione, data la reale possibilità di compromettere drasticamente la lama. Scartando il corridoio che stavo percorrendo a ritroso, ero già col pensiero al secondo bivio e già ero consapevole di avere un'ultima possibile strada da imboccare. Ho cominciato a prepararmi mentalmente allo scontro. Al cospetto della prima deviazione avevo già slegato l'arma dalla cintura ed avanzavo serrandola con una forza impressionante, frutto della paura che ad ogni metro cresceva di pari passo con la velocità del battito del mio cuore. Più mi avvicinavo alla biforcazione maggiori attenzioni dedicavo ai rumori circostanti, cercando di accorciare la distanza con la maggiore furtività che mi era possibile. Riproponendo gli stessi identici gesti di poco prima, mi sono affacciato sul corridoio. La strada era libera. Nessun suono. Ho preso coraggio e ho cominciato a muovermi verso l'unica direzione che speravo potesse condurmi in libertà.
Per una manciata abbondante di minuti, sono avanzato pronto alla battaglia e determinato a sfruttare a mio vantaggio l'effetto sorpresa. Quello a cui non ero preparato, era un duplice scontro. Dopo una leggera curva del percorso, si presentava ai miei occhi affaticati un lungo e stretto corridoio dove due guardie di ronda si stavano camminando incontro a passo lento. Non potevo indugiare ulteriormente, ogni secondo perso poteva voler dire morte anziché libertà. Ho corso il più silenziosamente possibile verso l'uomo che mi dava le spalle e ho affondato la lama affilata tra le sue scapole. Non credo che fino ad allora la seconda guardia si fosse accorta di qualcosa. Di certo, l'urlo straziante di dolore della mia vittima non mi lasciava alcun dubbio. Poco prima che il secondo uomo si portasse a tiro con la sua sciabola, sono riuscito a sfilare l'arma dalla mia preda dolorante ma ancora in vita e passarne la lama rosso sangue sulla gola. Appena il tempo di vedere il morto accasciarsi al suolo che subito un fendente puntava dritto verso il mio petto. Sono riuscito a deviare il colpo fatale all'ultimo istante, mossa che ci ha anche permesso di scambiarci di posizione. Avevo alle mie spalle una possibile via di fuga, una scelta che subito ho scartato per un solo valido motivo: non potevo sapere se sarei andato incontro a nuove voragini, vicoli ciechi o altre guardie, allertate dalle urla e dallo scompiglio della lotta. Dovevo prima liberarmi del mio nemico. Pochi attimi e di nuovo focalizzavo l'attenzione sullo scontro. Col volto rappreso in un ghigno sadico, potevo percepire il piacere che quella situazione donava a quell'uomo. Più che svolgere un compito, era palese la goduria che quel mostro dovesse godere nel togliere la vita alle persone. Potevo solo immaginare quante anime si erano arrese ai colpi della sua arma, magari senza neanche avere avuto l'opportunità di difendersi. Sfortunatamente per lui, io questa opportunità l'avevo avuta. Ci siamo fronteggiati con lo sguardo per qualche attimo, poi è partito all'attacco. Una stoccata che ho prontamente parato, indietreggiando di qualche passo. Ho poi preso l'iniziativa replicando il colpo, ma l'esito fu analogo al precedente. Soltanto, la guardia non ha indietreggiato e subito ne ho approfittato per far partire un colpo laterale al quale non era preparato. La lama è affondata di qualche centimetro nel suo braccio sinistro, quello che non stava sorreggendo l'arma. Un soffocato lamento e niente più. Per nulla scoraggiata dalla mia determinazione e dalla sua apparente posizione di svantaggio, la guardia è riuscita a sorprendermi con una sciabolata di taglio che, nonostante stessi indietreggiando, mi ha ferito al petto procurandomi un taglio lungo ma fortunatamente poco profondo, anche perché attutito dalla sacca che mi ero messo al collo in precedenza. La stoffa, pian piano, si è tinta di porpora. Anche se la mia ferita era meno grave di quella che io avevo inferto a lui, ero tra i due quello che da quei pochi secondi di scontro era uscito più visibilmente danneggiato. Il calore del sangue si è espanso in tutto il petto e il dolore pulsante mi faceva ansimare pesantemente. L'uomo, con il braccio sinistro privo di forza e zuppo di sangue, pareva quasi stesse divertendosi, dato che la sua faccia persisteva in una maschera sogghignante, come scolpita nella cera. La lotta era palesemente impari a causa della mia forma fisica; ero dal principio consapevole che se la battaglia si fosse protratta a lungo ne sarei uscito certamente perdente. Questo pensiero è riuscito a darmi, negli attimi conclusivi dello scontro, la scintilla decisiva, quell'impeto aggiunto per prevalere sul mio avversario. Tutto doveva accadere in pochi secondi. Con un ultimo scatto figlio della disperazione sempre più crescente sono riuscito ad anticipare di pochi attimi la guardia, sorpresa dalla velocità della mia decisione e di certo impreparata ad una tale veemenza. Ha fatto soltanto in tempo a far scomparire il sorriso dal volto, prima di trovarsi la sciabola del suo avversario nello stomaco. Guardandolo fisso negli occhi, ho assistito in diretta alla sua graduale dipartita, fino al momento in cui, lasciando cadere al suolo la sua spada, ha abbandonato tutto il peso del corpo sull'arma che lo aveva trafitto. Aiutandomi con una estensione della mia gamba, ho sfilato dal cadavere l'oggetto al quale fino ad allora dovevo la mia vita. Il bruciore al petto era insopportabile e avevo già perso molto sangue. L'unica cosa che mi è venuta in mente di fare per darmi qualche piccola possibilità in più di sopravvivere nell'imminente futuro, è stata quella di sfilarmi dal collo la piccola borsa e rovistare di nuovo all'interno. Non conoscevo l'identità di neanche un solo oggetto, ma non avevo tante alternative, soprattutto nell'eventualità che avessi dovuto affrontare nuovi nemici. Ho preso le foglie secche per tamponare alla meglio la ferita e ho bevuto un sorso del liquido contenuto nella piccola bottiglia. Non potevo sapere se l'effetto sarebbe stato quello voluto o se, al contrario, mi sarebbe stato fatale. Ho pensato, comunque, che l'uomo del quale avevo conosciuto soltanto la forma e il colore della sua carcassa in putrefazione, difficilmente si fosse portato con se erbe e soluzioni velenose. Al contrario, forse anche spinto da una insperata folata di ottimismo, ho pensato ad un guaritore che, prima di venire gettato nelle profondità di questo inferno, fosse riuscito a procurarsi l'essenziale per far fronte a imprevisti e lievi ferite. Giusto il tempo di tagliare dalle vesti del nemico caduto dei lembi di stoffa e improvvisarmi una fasciatura di fortuna, che i benefici sperati cominciarono a farsi sentire: il dolore si stava alleviando e la mia muscolatura leggermente rinvigorendo.
Ho ripreso la marcia con atteggiamento frenetico e irrequieto. Le speranze di arrivare in tempo da lei stavano lentamente scemando. Non riuscivo più a capire quanti minuti erano passati dal mio risveglio. Sembravano centinaia ma potevano invece trattarsi di poche decine. Non lo sapevo. Correvo, non badavo più ai rumori, non avanzavo più con circospezione. Ho incontrato poche altre deviazioni sulle cui possibili destinazioni non mi sono neanche interrogato, imboccando ogni volta il percorso che l'istinto sceglieva per me. Rallentavo soltanto quelle poche volte in cui la debole illuminazione non mi permetteva di distinguere con chiarezza la natura del pavimento che dopo pochi metri avrei calpestato, rimembrando la prima voragine che avevo incontrato alle origini della mia reclusione.
Dopo una corsa sfrenata, durante la quale per mia fortuna non ho incontrato anima viva, ho azzerato di colpo la mia velocità e, con il cuore in gola dall'emozione e dalla fatica, ho assistito alla visione di una scala. Una scala differente da quella che avevo percorso privo di sensi, trascinato da chissà chi per essere lasciato qua dentro a soccombere. Era diversa, composta da gradini più larghi. Inoltre, il suo accesso non era munito di una vecchia grata rugginosa ma di una vera e propria lastra ornata e decorata ad arte, sollevata da terra per un tre quarti dell'altezza dell'insenatura. Per la prima volta ho provato un leggero senso di conforto e di ottimismo. L'atmosfera era resa ancor più fausta dalla illuminazione che si trovava ai lati del corridoio, fornita da un numero decisamente eccessivo di fuochi ma in quella situazione benvoluto. Si, ne ero convinto ormai: quella scala, dalla quale ancora mi trovavo particolarmente distante, mi avrebbe portato in superficie, mi avrebbe permesso di uscire da questo luogo, rivederla e continuare il nostro sogno.
Avanzo. A passi stranamente lenti. Avrei dovuto accelerare il mio corpo e le mie azioni, cercare di non perdere neanche un ulteriore secondo dato che di secondi, anzi, minuti già ne avevo persi in abbondanza. Eppure camminavo, accorciando la distanza con velocità costante e contenuta. Con la testa ero ormai da un'altra parte, ero già nel futuro, quel futuro che mi vedeva in superficie, fuggiasco da questa prigione. Ma nel profondo, sentivo che qualcosa non andava. Era stato questo qualcosa a non farmi gettare a capofitto con una corsa sfrenata verso gli scalini che ormai si trovavano a circa un ventina di metri da me. Poco dopo, ho capito che questo qualcosa si trattava di una perplessità, di un particolare che non mi tornava. Sentivo questa sensazione sin dal momento in cui avevo scorto la grande porta aperta. Già, aperta. Era quel dettaglio che mi tormentava. Come mai una probabile via di fuga da una prigione era così alla portata di un prigioniero? Senza neanche una guardia a fare da sentinella o per dare l'allarme? Sono bastati solamente altri pochi passi per neutralizzare la mia perplessità e dare spazio ad un ben più tangibile e disperato senso di impotenza e rassegnazione.
Di lato alla porta, poggiata alla parete, una lunga e spessa tavola di legno. Tra me e la fine a questo incubo, una voragine di infinita profondità e di larghezza maggiore di quella che avevo già incontrato, forse anche più del doppio. Pure un uomo allenato, in piena forma e senza commettere errori, sarebbe riuscito con difficoltà a portarsi sull'altro lato. Le speranze, nel mio caso, si riducevano in pratica a zero. Non potevo tornare sui miei passi e cercare un'altra via di uscita: avrei sicuramente trovato una situazione analoga a quella oppure, con molta più probabilità, non avrei trovato assolutamente niente. E poi il tempo era ormai agli sgoccioli. Troppo tardi. Ero arrivato al capolinea.
Sono arrivato al capolinea. La storia che mi sono raccontato e il presente si sono incontrati. Adesso io faccio parte della storia. Io sono il protagonista della narrazione. Mi trovo esattamente di fronte al vuoto. Pronto per l'ultimo disperato tentativo di tornare da lei.
Pochi passi all'indietro, la corsa, il salto. Un'infinità di tempo e di immagini. Il volto della Principessa, il suo profumo, la sua voce. I cadaveri, il sangue, la morte e la speranza di riuscire a sopravvivere. La paura, gli scalini che spariscono dalla mia vista, la disperazione, la caduta verso l'ignoto e l'oscurità. Troppo lunghi gli ultimi secondi della mia vita, troppo tempo a disposizione per pensare che tutto era finito, ormai. Una caduta libera verso la morte ed un unico pensiero: non sarei mai stato il Principe di Persia.
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- Un bel racconto, avvincente e ben scritto, una piccola osservazione però, infastidisce un po' il continuo cambio di tempi verbali, secondo me quello che hai scritto sarebbe molto più scorrevole se non ci fosse. A rileggersi.
Eve
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