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Fame
Il tramonto tingeva ogni cosa di rosso quel pomeriggio.
Infuocato il paese, il viale fiume di lava serpeggiava fra gli inebetiti scheletri degli alberelli, larve rinsecchite dall'arsura fiancheggiavano le strade, ardenti e languide fiamme divoravano le insegne dei negozi, dei ristoranti, dei panifici chiusi. Non un rumore. Solo caldo, rosso tramonto ovunque e i miei piccoli tacchi sul viscido pavimento scottante, sempre più rapidi, più rapidi.
Parole. In quel momento avevo in mente solo parole, mille parole, tutte quelle parole che avrei dovuto raccogliere, consunte e lacerate per parlare alla gente che mi aspettava. Parole dette cento altre volte. Ogni settimana, ogni giorno cercavo di cambiarle in qualche modo, di aggiungere una parola in più, di reciderne un'altra, di impiegare un sinonimo, di esordire con un termine desueto o straniero per sembrare acculturata agli occhi degli altri e diversa agli occhi miei. Cercavo l'originalità, disperata utopia, convinta che fosse tutta rimasta seppellita sotto quei due metri di terra dell'unico romanzo che avevo scritto e che mi aveva dato il successo. Doppio fallimento, triplo quadruplo prendermi il merito di qualcosa che non mi apparteneva, qualcosa che non mi spettava di diritto neanche un po'. Casuale ritrovamento, fugace traduzione, improvviso, inaspettato successo. Non avevo avuto neanche il tempo di rendermene conto e già traduzione nella prima, seconda, terza, ventesima lingua straniera, vetta delle classifiche, conferenze ogni settimana, programmi televisivi, partecipazioni radiofoniche, articoli sui giornali, feste, convegni, gente, tantissima gente. Io ho sempre odiato la gente.
È un quadruplo fallimento.
Primo, perché mi sono appropriata di un romanzo che non avevo scritto io stessa.
Secondo, perché l'ho tradotto senza sapere cosa volesse farne chi l'aveva scritto.
Terzo, perché ne ho ricavato soldi e successo.
Quarto, perché in realtà io non sono mai stata capace di fare niente.
E così la colpa è diventata una specie di ossessione. Sempre lì in gara con me stessa, perché devo essere all'altezza, non posso tradire le aspettative del pubblico, loro credono che io abbia scritto quel romanzo che leggono e rileggono e li fa piangere tutti, mentre io, ignobile, ignobile, non sono assolutamente capace di fare nulla del genere. Io non so scrivere. Non so scrivere. E a tutte le conferenze, ogni sacrosanto incontro, mentre cerco la parola nuova, ricercata, quella parola originale che li desti tutti pieni di meraviglia per la mia arte, vorrei sputarlo fuori, urlarlo nel rimbombo di un burrone che io non ho fatto niente, non ho scritto neanche una parola. Quella firma è un falso. Io sono falsa. Sono solo una ladra.
E poi li guardo. Dal palco sembrano omini così piccoli, così indifesi... mi sembrano fatti di carta velina. Penso che se dicessi una cosa del genere il loro castello di carte si sfalderebbe, neve al sole, come le loro animucce minute e fragili. Non reggerebbero il colpo. Troppo piccoli, ognuno è una piccola solitudine che si scontra con altre piccole solitudini alla ricerca di quella solitudine un po' più sola che ha bisogno di lui. Ecco perché gli piace tanto quel maledetto libro, mia fortuna e rovina, perché parla proprio di questo. Cuori soli, anime sole, infinite voragini in attesa. Sì, c'è sempre questa parola, che si ripete, come il ritornello di una canzone: "attesa". E loro attendono, non si sa cosa. E aspettano che sia io a dir loro cosa attendere, perché io sono diventata la loro Profeta. Io sono l'Autrice. Più di un medico, di un terapista, di un indovino posso riempire le loro voragini con le Risposte che chiedono. Ogni piccola faccia è una Domanda, frivola, fatua, inconcludente, senza destino, come ognuno di loro. Sento il peso della colpa premermi sulle spalle come un martello sull'incudine, ogni colpo è uno stordimento viscerale al quale non riesco a reagire in alcun modo se non con quel sorriso stereotipato e quella frase.
"Ci sono delle domande?"
Stavolta alza la mano un omino della terza fila. Ha la giacca blu. Ultimamente distinguo le persone solo dal colore dei loro abiti. I loro capelli, i loro occhi, i loro tratti somatici non hanno più valore distintivo per me. Sono tanti omini, tutti piccoli, tutti uguali, tutti vestiti in modo diverso.
"Prego, dica".
"Il suo libro per me è stato una rivelazione. Sono stato in terapia per quattro anni, eppure non avevo mai ricevuto uno scossone così incisivo come le sue parole. La volevo ringraziare. Lei mi ha ridato la pace"
Martello sull'incudine.
"Prego, dica"
"Leggo molto e ho scritto anche qualche racconto, ma ho sempre pensato che mancasse qualcosa, un'ispirazione che nel suo romanzo, invece, traspare sensibilmente. Si è ispirata a qualcosa in particolare?"
"Bè, come dico a pagina 32, credo che il nostro cuore sia detentore di emozioni di cui non siamo consapevoli..."
"Non pensa, piuttosto, a un'ispirazione divina?"
Masso sisifeo sull'incudine.
Ecco, davanti ad una domanda del genere, cosa dovrei rispondere? È qualcosa che non si può immaginare. C'è una sterminata distesa di occhietti vacui che mi fissano, fremono, attendono, perché la mia rivelazione potrebbe dar loro la forza di svegliarsi il giorno dopo. Io mi sento stordita e non lo so, non lo so, non lo so! Non so se quando Ersilia ha scritto quelle pagine aveva accanto una angelo che le dettava ogni riga! Non lo so se il suo cuore era infervorato da chissà quale morbo che la conduceva a simili percorsi! Io non so nemmeno se avrebbe mai voluto pubblicarli quei pensieri sparsi e convulsi, non lo so! E mentre quel maglioncino marrone mi fissa, insaziabile e disperato, non posso fare altro che rimuginare sul fatto che in fondo ogni risposta sarebbe una bugia, tranne una, quell'unica che vorrei dire, quell'unica che vorrei confessare al mondo intero. Io non centro niente. Non ho scritto io il libro. Io ve l'ho solo regalato mettendo il mio nome sulla copertina, ho fatto una cosa meschina e vergognosa e non sono degna di alcun merito.
Eppure il maglioncino continua a fissarmi e io mi sento sempre più oppressa. La mia colpa è ancestrale, ma il mio dovere verso quegli occhietti piccoli piccoli è molto più grande e così, incapace di formulare una risposta migliore, declamo quelle parole che dono ai miei fedeli ad ogni conferenza, sempre le stesse, patetiche, rubate da quell'unica pagina che non ho inserito nel manoscritto consegnato al tipografo e di cui impudicamente faccio sfoggio di continuo.
"Le emozioni ci parlano un linguaggio incomprensibile alle nostre orecchie, ma sensibile alla nostra anima. Se la mia anima è stata sensibile a voci non terrene non posso saperlo. Ma tutti noi dobbiamo continuare ad ascoltare in silenzio il nostro cuore e i sussurri che da lì provengono. In noi stessi troveremo le risposte e la pace".
Alla fine della conferenza è sempre tutto un sussulto. Dentro le guardie del corpo, fuori il pubblico, dentro il rinfresco, fuori la tensione. Lontana da quegli occhietti piccoli piccoli passa ogni cosa. Ogni paura, ogni colpevolezza svanisce e compare l'orgoglio di quelle strette di mano, di qui complimenti, dei nuovi inviti a cena, dei saluti con i vecchi conoscenti che hai rincontrato.
Eppure lo sento lì, a un passo, il tracollo della caduta, l'ansimante avvicendamento al baratro devitalizzato, l'inconsistente attaccamento ad una verità cariata che devo necessariamente sradicare. Del resto non potrò nascondermi ancora per molto perché prima o poi i miei lettori si stancheranno e recalcitreranno e sbatteranno i forconi contro l'aria pretendendo un seguito. Altre pubblicazioni. Altri suggerimenti che possano nutrire le loro anime avariate. E allora, quando l'attesa si trasformerà in pretesa, che cosa farò io? Cosa mai potrà fare questa colpevole animuccia piccola piccola davanti a una massa frenetica di assaltatori dalla lettura facile? Mia sorella probabilmente avrebbe saputo cosa fare. Sì, Ersilia avrebbe continuato il suo romanzo, scritto una saga interminabile, avrebbe saputo rimpinzare a dovere i becchi esitanti di quegli uccelletti affamati. Ma Ersilia non c'era più. Aveva lasciato questa terra senza dire una parola, dopo anni di peregrinazioni sospette in giro per il mondo. Aveva lasciato solo quell'ammasso di fogli di carta scritti in inglese e qualche vestito e poi era sparita nel nulla fino a quando non avevo ricevuto una telefonata intercontinentale con cui scoprivo che Ersilia non era più fra i vivi; e allora, tutto quello che avevo saputo fare era stato prendere un aereo, recuperare i suoi effetti dall'ultimo domicilio che aveva occupato e tornarmene a casa. Poi mi ero messa a tradurre il manoscritto. E patatrac.
E così che, accapponata dagli eventi, decido di confessare come stanno le cose. È una manifestazione di media entità, non ci saranno più di cinquecento persone, scappare non sarà un problema. Mi preparo a comunicare la notizia. Devo farlo ne va della mia salute, del mio stato mentale. Io devo farlo, lo devo a me stessa. Invito la folla a fare silenzio; al mio cenno, gli omini si zittiscono e mi fissano con gli occhioni sgranati.
Ecco, ci sono, mi sento pronta. Comincio a sudare, penso che le lambe di fuoco della torrida estate siano riuscite a fendere il salone del rinfresco. Gocce di sudore imperlano la fronte dell'omino in giacca blu giù in prima fila. Avanti, è un piccolo sforzo e mi sarò tolta un macigno dallo stomaco. L'aria tornerà ad evadere libera dai miei polmoni dove finora è rimasta concentrata, come in apnea. Faccio un profondo respiro. Tutti pendono dalle mie labbra. Per Ersilia, fallo per Ersilia...
"Non ho scritto io il romanzo".
Quasi mi stupisco di sentire la mia voce uscire dalla gola. Ha dovuto attraversare la laringe incrostata, le mucose rattrappite, l'ugola tremolante, la lingua secca ha battuto e il fiato ha accompagnato le parole fuori, come un canto di sirena. Mefitico e meraviglioso. Mi accorgo di aver tenuto gli occhi chiusi, come per proteggermi dagli spettatori. Disserro lo sguardo. Lì davanti a me i presenti sono rimasti immobili, in religioso silenzio. Si aspettavano la grande rivelazione e sono rimasti enormemente delusi. Mi sembra di percepire la tensione che cresce e lascio scappare l'occhio verso la porta di servizio: dà direttamente al posteggio dove sostano i taxi, non ci metterò più di dieci secondi a lasciarmi dietro i messianici imbufaliti. La sospensione temporale si arresta. D'improvviso, da metà sala, il maglioncino marrone che mi aveva rivolto quella fatidica domanda improponibile alza in alto le mani ed esclama a gran voce:
"Lo ammette! Non ha scritto lei il romanzo! Ispirazione divina!"
La folla non si tiene più. Sono costretta a scappare verso la porta di servizio per sfuggire alla massa di adoranti che acclamano il mio nome e inneggiano Alleluja. Il maglioncino marrone, autoeletto Robespierre del momento, guida gli astanti verso il loro santone, io, la nuova sibilla della contemporaneità. Scappo per non farmi idolatrare, fuggo dall'estasi devozionale. Il mio sforzo non è servito a nulla. Quando vogliono, le anime, sanno saziarsi solo di bugie.
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1 recensioni:
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- Trovo questo racconto molto ben scritto: il linguaggio è ricco, la forma piacevole e il contenuto interessante.
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