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Dove ho lasciato le chiavi
La chiave girò, aprendo il portone. Salì i gradini che lo separavano dal suo appartamento lentamente. Nessuno lo aspettava. I suoi orari di lavoro erano insoliti. Turno di notte. Rientrava a casa all'alba. Per le strade non una persona. Si trovò finalmente di fronte alla lastra di legno che lo separava dalla sua tomba letargica. Estraette dal mazzo il suo lasciapassare e fu dentro. Si fece strada fino al letto. Si sdraiò. Chiuse gli occhi e morì. Risorse in tempo per mangiare, quasi come ogni giorno. Non riconosceva più colazione, pranzo, cena. No, pensò, scartando l'ipotesi di un cibo salato. Mangiò una brioche industriale. Mentre intorno a lui negli altri loculi il mondo friggeva, salava, condiva, oliava. Si stese sul divano, aspettando che passassero le ore, o i minuti. Chissà se è questa la mia vita. Vivere quando gli altri dormono, senza conoscerli mai. Ho mai visto uno solo dei miei vicini? Hanno dei figli? Piccoli o grandi? Magari non ho vicini. Per me è come se non esistessero. Questo lavoro mi ha ucciso? Eppure non mi pesa non avere nessuno, e agli altri di me non importa. Non ricevo lettere. Né visite. Se anche venissero non aprirei. Non li voglio.
Gli capitava sempre più spesso di pensare agli altri. Un tempo aveva vissuto in mezzo a loro. Poi Il Lavoro. Tornato a casa non sapeva più dire con esattezza dove lavorasse e in cosa consistesse la sua occupazione. Con la luce non avrebbe trovato la strada. Si sarebbe perso. Non ci provava neanche. Aspettava che la sveglia suonasse per avvertirlo di dover uscire. Aveva tagliato fuori dalla sua vita il tempo. Non c'erano orologi nel suo sepolcro. La sveglia suonava, e lui non ricordava a che ora. Era iniziato tanto tempo fa Il Lavoro.
Accadde: suonò. Si alzò, e uscì. Non si era cambiato prima di dormire. Avrebbe fatto una doccia, poi. La porta si chiuse dietro di lui, imprigionandolo nel pianerottolo con un uomo. Sarà un mio vicino, pensò, speriamo non voglia fare conversazione. Per precauzione abbassò lo sguardo, preparandosi ad una conversazione inopportuna. L'uomo sembrò non vederlo. Aveva un cane al guinzaglio. Se ne andò. Era inorridito. Assurdo, pensò. Come è possibile? Quest'uomo non mi ha mai visto! Non mi dice nulla? Era come se non esistessi. Rientrò in casa, si fece una doccia. Lasciò passare la notte e aspettò che il condominio si risvegliasse.
Per tutta la giornata stette attaccato alle pareti in comune con le altre abitazioni, occhio sullo spioncino, appostato in terrazzo. Non una parola delle tante che sentì lo riguardava. Per il mondo lui non esisteva! Ma che, per il mondo! Per le persone che gli vivevano accanto! Si sentì prosciugare. Per anni, anni, aveva creduto di essere il perno di quell'edificio. Non era una grossa pretesa in fondo pensare di essere l'incognita cui tutti almeno una volta nella propria giornata pensano. Passando di fronte alla sua porta, ritirando la posta nella cassetta adiacente la sua, suonando il campanello del piano di sopra per farsi aprire. Non sono nessuno!, pensò. Non si era mosso da casa per troppo tempo, il telefono squillò.
Ho un telefono?, si chiese. Rispose: Sì?
Allora è a casa! Avverta quando si assenta dal Lavoro. Per questa volta passi, perché non era mai accaduto, ma stia attento. Intesi?
Sì. Sì, conto di venire, certamente. Mi scusi.
Tese un agguato al vicino con il cane. Aspettò di vederlo uscire per la passeggiata notturna per uscire a sua volta. Sbatté la porta, ma lui non si voltò. Né il cane gli fece le feste o gli abbaiò contro. Abbattuto, uscì dal palazzo. Il Lavoro lo aspettava.
Al ritorno non cercò le chiavi nella tasca. Suonò un campanello. Sentì grattare: qualcuno dall'altro capo lo ascoltava!
Scusi, sono...
La porta si aprì.
Il vicino, avrebbe detto, sono il vicino. Quello del primo piano, la porta al centro. Mi potrebbe aprire per favore?
Era presto, certo, molto presto. Ma ancora una volta, lui non esisteva. Gli mancava l'aria. Quelle persone non lo vedevano, non lo sentivano, non si interessavano che vivesse o meno. Percorse i trentotto gradini che lo separavano dal suo appartamento di corsa. Tastò ogni sua tasca. Giacca. Cappotto. Camicia. Pantaloni. Due volte. Le chiavi non c'erano. Finalmente si rassegnò: era rimasto chiuso fuori di casa. Fuori ancora non c'era il sole. Uscì lasciando il portone socchiuso. Corse a cercare nell'era dei cellulari una cabina telefonica. In meno di quindici minuti era riuscito a trovare il numero di un fabbro. Lasciò un messaggio nella segreteria telefonica. Rientrato nel condominio si sedette ad aspettare sui gradini il suo arrivo.
In poco tempo la vita cominciò a brulicare intorno a lui. Piatti, sedie, sciacquoni, alcuni litigi. La prima porta si aprì: dei passi riecheggiarono per l'intero edificio.
Chi è lei? Cosa ci fa qui? Ha passato la notte nelle nostre scale? Se ne vada immediatamente!
No, io abito qui, vede...
Fece per alzarsi, e l'uomo indietreggiò: Non si avvicini! Stia fermo o chiamo la polizia! Paura. La sentiva nell'aria, come un animale. Non era più invisibile, no certo. E soprattutto spaventava. Ne fu felice. Si alzò.
Lei non chiami nessuno, e se ne vada, disse.
Si scostò lasciando libero il passaggio, e ancora minacciando il poveretto si allontanò velocemente. Il rumore che fece il portone nel chiudersi quasi gli procurò un orgasmo. Da qui ognuno di voi deve passare, pensò. Dovete pagarmi un pedaggio, e finalmente per voi conterò qualcosa! Vedremo!
La seconda cella si aprì, un'altra bestia era pronta per essere macellata. Questa volta si appiattì in un angolino. Le mani nelle tasche. Aria spavalda. Una signora. Tic tic tic tic. Tacchi sul pavimento freddo. Tic tic tic. Gli si avvicinava senza saperlo. Tic tic. Gli occhi parlarono per lei, mentre fu costretta a passargli accanto. Non una parola. Quando la mano di lui scattò lei ebbe un sussulto.
Il fabbro venne. Lui entrò. Passò dal bagno. Si cambiò. Uscì. Il pianerottolo era il suo regno. Non poteva più costringersi nella sua angusta prigione. Vivere in cubi e parallelepipedi circondati da oggetti. Da soli. Perché mai? Come ho potuto vivere così per...? Non ha importanza.
Imparò a conoscere le proprie prede. La scolara dell'ultimo piano con il piercing al naso. Riusciva a nasconderlo solo girandolo verso l'interno. Lui lo sapeva. La guardava e rideva. E lei rabbrividiva. Non lo dica ai miei, altrimenti!, diceva. A lui bastava non dir nulla. Lei insisteva, per un po', ma se ne andava ancora più piccola e preoccupata. L'impiegato della porta accanto. Un cane, una moglie, tre figli, un' amante. Mai portare a casa i propri segreti mano nella mano.
Il vecchio che viveva sopra il suo appartamento con una graziosa badante polacca non in regola. Uno spasso salutarla gridando Heil Hitler, braccio teso. Non andava più al Lavoro, la sua vita era potenza e terrore.
Ma un giorno, lui. Nessuno più costretto ad incontrarlo. Vennero in quattro a montarlo. I cavi d'acciaio azionati dalla pressione di un solo insignificante pulsante, le quattro pareti della cabina bastavano a guadare il primo piano. Non riuscì a rendersi subito conto di cosa significasse il suo arrivo. Tutti uscivano a orari differenti. C'è l' ascensore, non perderò tempo con le scale! Gli agguati non funzionavano. Era caos. All'alba del terzo giorno dal suo arrivo premette il pulsante. Era ancora protetto da una sottile pellicola. Strappò quella sua placenta. Erano nemici. Vi entrò. Le porte si chiusero. Si sentì mancare. Annaspò. In pochi secondi fu fuori. Era la sua nemesi. Non se ne sarebbe mai servito. Mai. I giorni passavano. Sentì la fame per la prima vera volta. Non aveva più il potere. Nessuno lo temeva. Era solo un folle che si aggirava per un primo piano qualsiasi. La ragazzina aveva detto del piercing ai suoi genitori. Iniziarono a passere di nuovo per il primo piano. Forse buoni propositi del nuovo anno. Fare movimento dopo il cenone. Si avvicinava Capodanno. L'amante era stata lasciata. Il cane morto. O venduto. O perso. Non era l' ascensore. Era il cambiamento. Non ero io a fare paura. Era l'anomalia. Io ero un' anomalia. Ora sono l'abitudine. Che sciocco. Alzò lo zerbino polveroso. La chiave girò nella toppa, rientrò.
Per la prima volta in — in? Non importa — dormì in un letto. Si svegliò. Lo spioncino lo attirò a sé. Vi si immerse. Un minuto? Un'ora? Poi, la coppia del secondo piano. A metà strada si fermarono. Si voltarono indietro. Proseguirono. Ritornarono sui loro passi. Finalmente salirono. Cosa? Latrati. Il cane e la sua ombra. Si pulirono i piedi prima di entrare in casa. La porta si riaprì. L'uomo si guardò in giro. Si richiuse.
Stava dormendo quando accadde. Il campanello suonò. Aprì.
Sta bene?
Io?
Sì, è da un paio di giorni che non la vediamo.
Come?
Quindi non sta male?
No, io... No.
Ah, beh. Allora. Bene. Arrivederci. Era per sapere. Buona giornata.
Richiuse la porta. Era di nuovo un'anomalia.
Rispettò il suo nuovo ruolo. Tornò al Lavoro. Non si meravigliò della riassunzione. Doveva ritornare tutto come prima. Cambiò turno. Non proprio tutto.
Si sentiva in ordine. Mangiava salato a cena. Dolce al mattino. Il suo sciacquone tuonava assieme agli altri. Gli orologi al loro posto.
Una sera, tornato dal lavoro, infilò — com'era solito — la mano nella tasca dei pantaloni. Tastò la tasca varie volte. Un deja vu. No!, no!, pensò. Passò in rassegna ogni oggetto che aveva con sé. Maledizione! Li dispose ordinatamente su di un gradino. Le chiavi non c'erano.
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