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L'aquila a due teste
"Fa che non sia albanese, fa che non sia albanese!"
Furono queste le prime parole di Erjon, un diciannovenne albanese. Stava per addentare il primo pezzo di pane quando sentì il Tg della sera: "Ventiduenne ubriaco travolge mamma e figlia. Il ragazzo era alla guida di una Bmw nera quando non si accorse dell'attraversamento di Maria, impiegata postale e la figlia di soli otto anni, travolgendole a circa cento chilometri orari".
Erjon sapeva che quel tragico episodio avrebbe dato vita all'ennesima ondata di odio e disprezzo nei confronti degli stranieri, e per quelli della sua zona in particolare.
Ma lui sapeva anche che non avrebbe dovuto sentirsi toccato dalla malevolenza nei confronti degli albanesi. Infondo era in Italia da dieci anni ormai e sapeva leggere e scrivere la nuova lingua, anche meglio di molti suoi compagni di classe, fieri del loro tricolore.
Erjon arrivò in Italia in tenera età. Il suo paese, il paese delle aquile, era all'inizio di una delle crisi politiche, sociali ed economiche più dure e spietate della sua storia. Non vi era più un governo, nessuno più al timone. Le forze armate e quelle dell'ordine avevano abbandonato la loro abituale occupazione, lasciando incustodite caserme piene di armi di ogni genere. Facile per un ragazzino di dodici anni trovare una granata e farsela esplodere davanti gli occhi. O ancor più facile per un criminale trovare un Kalashnikov per rapinare la prima banca che gli capitava a tiro.
Era routine giornaliera il coprifuoco a una certa ora della sera; il paese era in mano a bande criminali. Non vi erano più leggi, a parte quella dell'occhio per occhio e dente per dente, se deve essere considerata legge.
Se, erroneamente, un neopatentato investiva un uomo, la famiglia di quest'ultimo, che aveva dimenticato ormai il buon senso, si vedeva autorizzata a vendicarsi. I ragazzi che giocavano spensierati ai lati della strada dovevano fare i conti con proiettili vaganti e macchine sfreccianti. E la sera potevano divertirsi, affacciati alla finestra sbarrata da grate di ferro, a guardare proiettili sparati in aria dall'ennesimo padre al quale era nato il primo figlio maschio, e che lasciavano a loro passaggio scie verdi, rosse o gialle. Non erano i fuochi d'artificio ai quali erano abituati i ragazzi italiani che festeggiavano il loro ennesimo natale in case confortevoli, tra decine di regali. Questo Erjon lo sapeva bene, lo sapeva perché lo aveva vissuto sulla sua pelle, in un posto che ai suoi genitori sembrava un inferno. Lui però era solo un bambino, ci era nato in quel caos, chiamava casa ciò che i suoi compagni di classe amavano definire "terra di criminali".
Besnik e Mira, i suoi genitori, avrebbero fatto di tutto per non far crescere loro figlio tra le mine. Furono disposti ad affrontare la piccola e dura traversata Durazzo-Bari, a bordo di un peschereccio clandestino governato da un gruppetto di scafisti. Erjon, sentendoli parlare non riusciva a capire il loro accento e chiese al padre chi fossero quegli uomini dall'aspetto così curato, con pistole nei foderi.
Il padre gli disse: "loro ci portano in Italia figliolo, sai, loro sono proprio di li; domani saremo arrivati". Da allora Erjon pensò a quelle persone come gli eroi delle fiabe che la nonna gli raccontava davanti alla vecchia stufa, prima di dormire.
Era un freddo mattino di febbraio, Besnik copriva il suo figlioletto tremante mentre la madre gli preparava un panino. "Erdhme ne Italì", le parole di un loro connazionale (che significa: "siamo arrivati in Italia"), li fecero girare verso prua; potevano notare già i più alti palazzi del porto di Bari, per niente somigliante al porto di partenza, cosparso di vecchie imbarcazioni arrugginite, ormeggiate in banchina, e di piccole officine e cantieri navali qua e là.
Finalmente erano giunti nel posto dove speravano di trascorrere una vita migliore, assicurando al figlio un futuro dignitoso.
Con non poche difficoltà trascorsero i loro primi anni nel nuovo paesino di campagna, tra la gente che guardava incuriosita, commentando con espressioni disgustate, e persone che impiegarono parte del loro tempo a procurare il necessario per non far mancare nulla ai nuovi ospiti.
Gli anni passarono, Erjon frequentava il terzo superiore dell'istituto scientifico di una cittadella lì vicino. Aveva il suo ristretto gruppo di amici con i quali passava giornate intere al campetto del suo paese. Tutto sommato aveva un espressione serena.
Certo non sono mai mancati episodi di discriminazione, ma la "piccola aquila" sapeva reggere bene.
Ormai si era abituato. Si era abituato alla supplente che chiedeva le origini del suo "strano" cognome. Si era abituato agli insulti dei "fascistoni" rasati del quinto, e si era abituato ad ascoltare, mentre viaggiava in pullman, i discorsi esplicitamente razzisti di settantenni orgogliosi del loro duce.
Con il tempo nacquero anche i primi amori. Sara, la ragazza per cui aveva preso la sua vera e prima cotta, era una studentessa modello, la classica "figlia di papà". Ogni mattina Erjon era li, davanti al cancello della scuola, che la vedeva arrivare.
Lei aveva una di quelle camminate sensuali che, al solo guardarla, si rimaneva come di pietra. I suoi capelli erano d'un biondo che addosso a lei sembrava ancora più splendente; le sue labbra carnose, rosse come una ciliegia, sembrava parlassero e dicessero: " baciami"! Beh, lui ci provò...
Con un pretesto così banale, le chiese di uscire; era quasi un mese che si conoscevano. Dentro di lui pensava: "dimmi di si, ti prego!". E la risposta che Sara gli diede fu proprio quella che lui desiderava. Approfondirono la loro conoscenza e fu proprio nell'approfondimento che Erjon sentì in cuor suo di dire a Sara la sua nazionalità. A dire il vero lei aveva capito che non era italiano, quel nome particolare glielo aveva rivelato; il giovane albanese aveva mentito a riguardo dicendole di essere finlandese. Quando però sentì che i loro incontri erano preceduti da farfalle allo stomaco, aumento dei battiti cardiaci e tutti i classici sintomi dell'innamoramento, capì che non poteva nasconderle una verità importante e irrilevante allo stesso tempo.
Fu così che, mentre mangiavano il loro Bic Mac, le disse: "Ti ho mentito riguardo la mia nazionalità. Ho i capelli biondi è vero, ma non sono finlandese", e sorrise. Lei rimase muta ma con il suo sguardo gli stava chiedendo: "e di dove cavolo sei allora"?
Un attimo dopo lui le disse di essere albanese. Il quarto d'ora che passò dalla "rivelazione" lo trascorse da solo, fissando il panino che Sara aveva lasciato a metà sul tavolo difronte a lui, alzandosi e andandosene senza dare alcuna spiegazione, o senza neanche un "mi fai schifo"! Quest'ultima parola non c'era la necessità di pronunciarla, Erjon aveva capito benissimo e ne rimase profondamente addolorato. Era rimasto solo, guardava ancora il panino di lei ma la sua mente era altrove; c'erano un sacco di persone, alcune delle quali avevano visto la scena, lui però non riusciva più a sentire nessuno.
Poco dopo prese il suo motorino e tornò a casa, il vento asciugò le sue lacrime, le luci arancioni dei lampioni sembravano dare alla notte quell'aria malinconica che solo lui poteva avvertire. Fu proprio la malinconia che dominò il cuore del giovane Erjon per qualche tempo dopo.
Intanto cresceva e meditava sulla sua situazione, sulla situazione di ogni uomo emigrato dal suo paese natale, costretto a subire le percosse dell'odio di gente che lo vede come un mostro, un animale senza sentimenti.
Si avvicinò alla religione, lesse la Bibbia e ciò gli diede una grande forza interiore per andare avanti senza diventare come loro, come chi lo disprezzava. Capì che doveva subire, soffrire e lottare nella nuova terra.
Intanto giorno dopo giorno si parlava di albanesi che uccidevano, stupravano, rapinavano. Ogni sera il Tg doveva mostrare qualche reato che un immigrato aveva commesso, sembrava che erano solo loro a commetterli ed Erjon non riusciva ad accettarlo. Ogni volta rimaneva come una statua davanti al suo piatto, a prestare attenzione al giornalista che pronunciava parole come "albanesi appiccano il fuoco". E il mattino seguente vedeva le facce della gente al suo passare, poteva leggere nei loro volti così come leggeva i suoi libri di storia, e l'unica parola che riusciva a scorgere era razzismo. Poi pensò che forse chi lo chiamava "albanese di merda" si era dimenticato di quando gli altri europei e gli statunitensi attribuivano agli italiani lo stesso aggettivo. L'Italia era vista come una meravigliosa penisola, piena di ricchezze naturali ma abitata da gente spregevole. Lo stesso Charles Dickens era quasi schifato, e paragonava città italiane come Fondi, alla città indiana di Calcutta. Erjon pensò che a quei ragazzi viziati ma non solo, avrebbe fatto bene leggere il libro di Gian Antonio Stella. Lui lo aveva letto ed era venuto quindi a conoscenza di fatti storici evidenti e drammatici: guerriglie tra poveri, irlandesi contro italiani; sfruttamento di bambini, e gli sfruttatori spesso, erano connazionali degli sfruttati. Non era per caso che le carceri australiane, americane ecc, erano piene di italiani. Non erano un caso i frequenti accoltellamenti, le frequenti rapine... e se adesso il bel paese si vanta di essere esportatore di Ferrari, abiti marcati, vino e quant'altro, molti dovrebbero ricordarsi che ha esportato un prodotto di rilevante importanza, non solo in America ma in tutto il mondo: la mafia.
Erjon aveva letto questo ed altro, per ciò non riusciva a capire perché chi una volta era vittima di razzismo adesso deve comportarsi da oppressore e denigratore.
Besnik gli aveva raccontato che gli stessi albanesi che loro ritengono spregevoli e indegni, hanno salvato molti italiani dalla persecuzione che ai loro danni veniva effettuata dai tedeschi in ritirata; ne funge da prova il numero di italiani morti durante l'avanzata americana e la ritirata nazista. Gli italiani venivano uccisi perché considerati traditori.
Ma Erjon ebbe modo di parlare con un professore di storia, i quali parenti avevano vissuto la grande guerra. Da lui seppe che l'esercito italiano, peraltro parecchio inefficiente, era stato il primo a usare il gas come arma, non facendo distinzioni tra civili e militari, quando il gas era vietato anche contro le truppe stesse, e i soldati del duce hanno violentato le donne albanesi e quelle jugoslave nei modi più barbari.
Il giovane albanese desiderava tanto dire ai "nonnetti" che il duce che loro amavano tanto aveva uno degli eserciti più scarsi. Lo provano i numerosi episodi: la perdita del controllo dell'Etiopia, le sconfitte in Nord Africa contro gli inglesi, la ritirata che l'esercito fascista dovette fare contro i greci la perdita del controllo sull'Albania, annessa all'Italia durante il fascismo ecc.. Ogni volta che le truppe italiane erano in difficoltà, e le volte erano tante, l'esercito tedesco interveniva per risolvere il problema; tanto che Hitler, se dapprima stimava Mussolini, in seguito capì che il duce puntava solo sull'apparenza (organizzando parate militari e facendo discorsi emozionanti) ma che in realtà non era in grado di affrontare una guerra di così grande portata.
Per Erjon non c'era bisogno di parole, bastavano i fatti storici, dai quali sembrava che i razzisti tricolore non avessero imparato niente. Poi però, dopo aver ripercorso immaginariamente le battaglie della seconda guerra mondiale, gli episodi di razzismo susseguitisi nel corso degli anni, tornò alla cruda realtà di ogni giorno.
Non mancavano le volte in cui qualcuno gli diceva" ma davvero sei albanese? Non si direbbe proprio, vabbè ma ormai sei qui da tanto, sei italiano ormai", ed Erjon non sapeva se prendere quelle frasi come una dimostrazione d'affetto o come un'ennesima dimostrazione di convincimento di molti che essere italiano significa essere meglio che albanese.
Il ragazzo pensò molto sull'integrazione e si fece molte domande; si rispose che l'integrazione è un processo che avviene tra due popoli "diversi", e che non significa che il popolo ospitante deve assimilare l'ospitato, annientandone le tradizioni, la cultura, gli usi e i costumi. Significa piuttosto che il popolo ospitante deve condividere la sua cultura e le sue tradizioni con l'altro; significa che l'ospite dovrebbe essere rispettato e accolto con benevolenza, curato e aiutato a rifarsi una vita. Se poi tra le persone per bene che migrano nei paesi terziari ci sono anche mal viventi, è un altro conto.
Com'è possibile che in un paese di circa sessanta milioni di abitanti si sente parlare solo di albanesi, marocchini, rumeni ecc che commettono reati? Loro sono la minoranza. La spiegazione è che i media, così come il governo, sono molto tendenti al razzismo. Se un immigrato commette un omicidio se ne parla in tutti i giornali e telegiornali, se lo commette un italiano non se ne parla per niente. Erjon era ormai arrivato alle sue conclusioni. Non c'era più altro da sapere, sperava solo che tutto finisse il prima possibile. Infondo le persone per bene, quelle stesse persone che lo avevano aiutato e alle quali era grato, c'erano; "solamente che i razzisti fanno più rumore" pensò.
Gli anni passarono e il ragazzo compì il suo diciannovesimo compleanno; uno degli invitati, il genitore di uno dei suoi amici, gli chiese: "Erjon, dai dici la verità, ti piace di più qui o in Albania?"
il ragazzo non era affatto sorpreso dalla domanda, non era la prima volta che gliene facevano una identica, "Sinceramente non saprei"rispose, "io penso e sogno in italiano, questo vuol dire che mi sono integrato bene ma non posso rinnegare la mia cultura, il mio paese, dove ancora ho i miei parenti" e, prendendo in mano il portachiavi con la bandiera albanese aggiunse: "questa bandiera è albanese e vi è raffigurata un aquila a due teste, beh, io mi considero proprio come quest'aquila:sono
scappato dal mio nido, che non era più sicuro, e ne ho costruito uno qui da voi, nonostante molti cercano di distruggerlo. Io però ho sempre volato sopra di loro, non facendomi abbattere dai loro pregiudizi, adesso non potrei scegliere di amare questo nido piuttosto che quello, perché rappresentano entrambi parte della mia storia, piuttosto preferisco avere due teste, proprio come l'aquila sulla bandiera albanese, con una guardo il futuro qui da voi e con l'altra penso con nostalgia al passato che mi ha formato e mi ha fatto diventare quello che sono". Questo discorso commosse alcuni presenti, compresi i genitori di Erjon, e la festa del suo compleanno finì tra gli applausi.
Intanto era da un po' che non si sentiva parlare di albanesi che commettevano reati, forse adesso le cose andavano per il verso giusto...
Erjon si apprestava a cenare dopo una lunga ed estenuante giornata. Fece per addentare il primo pezzo di pane quando si fermò con la fetta tra i denti, ascoltò il Tg della sera: "Ventiduenne ubriaco travolge mamma e figlia. Il ragazzo era alla guida di una Bmw nera quando non si accorse dell'attraversamento di Maria, impiegata postale e la figlia di soli otto anni, travolgendole a circa cento chilometri orari".
L'unica cosa che Erjon pensò in quel momento fu: "Fa che non sia albanese, fa che non sia albanese!"
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