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La torta di Maria
Vivevo da impiegato di una grande azienda. La mattina venivo svegliato dal penetrante suono della sveglia e iniziavo ad imprecare. Imprecavo mentre mi alzavo dal letto, imprecavo mentre spegnevo la sveglia, imprecavo mentre mi spogliavo del mio pigiama e imprecavo mentre eseguivo il rituale mattutino della doccia.
Il risveglio è duro durante i giorni lavorativi, ma per fortuna c'è la colazione. Ogni mattina un cornetto caldo, fumante, ripieno di nutella e un cappuccino dalla schiuma bianca e densa, ricoperta di un sottile velo di cacao. Un incoraggiamento e un incentivo per la dura giornata lavorativa che stavo per affrontare: otto ore di lavoro, spezzate da una meritata pausa pranzo.
In condizioni normali la pausa pranzo è un'ora in cui si stacca la spina, si lascia il lavoro alle proprie spalle e si va a mangiare un boccone con i colleghi. Invariabilmente si finisce per parlare di lavoro.
Ogni giorno ci riproponiamo di non farlo. Iniziamo a parlare di calcio, di politica, di donne e di motori, ma alla fine ricadiamo sempre sul lavoro. Proviamo a smettere. Discutiamo del cibo che stiamo mangiando, ricordiamo cene pantagrueliche o sbronze epiche, parliamo dei viaggi, della moglie che vorremmo affogare, del periodo in cui eravamo ancora studenti spensierati. Poi riprendiamo a parlare di lavoro.
Quel giorno le cose andarono diversamente. Eravamo andati a pranzo al solito posto, una trattoria gestita da Maria, un tipo simpatico e con qualche rotella fuori posto. Lei ci vide un po' giu di morale. La giornata era stata molto fiacca. Era un periodo di vacanza e non c'era niente da fare. Inoltre il caldo, l'umidità e la noia ci avevano resi particolarmente apatici. Maria scambiò con noi le solite quattro chiacchiere, ci chiese se ci erano piaciuti i cannelloni e ci offrì il caffè. Ma prima ci chiese se volevamo assaggiare una fetta di dolce. Era un dolce speciale, che aveva preparato con le sue mani.
Maria non vende dolci industriali. Li prepara tutti lei.
- Ma questo - insisteva - è speciale. Ne gradireste una fetta? Ve la offre la casa.
Ci servì una porzione di torta dal color caramello, alta e soffice, con un intenso aroma di cannella.
- Ho usato un'antica ricetta di famiglia, ma in questa ho aggiunto un ingrediente segreto - ci sussurrò con un sorriso malizioso.
- Maria! - disse subito Julia.
Julia era l'unica tra noi che non si era lasciata ingannare dall'aroma di cannella e aveva percepito l'odore della marijuana.
Tornammo in ufficio alle due del pomeriggio.
Verso le tre stavo rileggendo un'email che avevo scritto per un fornitore. Prima di inviarla volevo accertarmi di aver usato i toni giusti e di aver espresso chiaramente le mie richieste.
Infatti già la terza frase non mi convinceva. Meglio cambiarla. Quell'altra era superflua e inoltre era meglio essere più espliciti e precisi nell'ultima richiesta. Ecco. Ora andava bene. Un ultima rilettura, per sicurezza, e poi l'avrei inviata.
Eppure ancora non mi convinceva. Apportai un altro paio di modifiche, ma il testo restava poco incisivo. Anzi alcuni punti erano un po' sibillini.
Rilessi la mail e mi resi conto di non aver capito niente di quello che avevo scritto. Provai a modificarla, ma non riuscivo a organizzare un pensiero coerente.
Giovanni, un mio collega, mi fece una domanda su un'iniziativa che avevo seguito tre mesi prima. Non la capii e gli chiesi di ripetermela, ma anche la seconda volta non capii.
Guardai i colleghi con cui ero andato a pranzo. Julia rideva di nascosto, Alberto picchettava sulla tastiera dando la sensazione di voler sembrare indaffarato. Carlo stava scrivendo qualcosa su un foglio. Fingeva di prendere appunti, ma era evidente che stava solo tracciando scarabocchi. Nessuno di noi stava lavorando. Nessuno di noi avrebbe potuto. La marijuana stava facendo effetto.
Nel corridoio si vedevano due colleghi che discutevano animatamente.
Deja vu. - pensai tra me e me. Avevo già visto quella scena e ascoltato quella conversazione, parola per parola. Mi chiesi perché soltanto io me ne rendessi conto.
Avevo sete. Molta sete. Andai almeno tre volte a bere un bicchiere d'acqua, senza riuscire a calmare la sete.
Mi recai in bagno per rinfrescarmi le idee. Fu allora che mi guardai allo specchio e vidi che i miei occhi erano rossi e iniettati di sangue.
Tornai in ufficio. Nella mia casella di posta c'era un'email di Julia. Dentro c'era scritto solo CAFFÈ? Alzai lo sguardo verso di lei, un caffè era ciò che mi ci voleva. Inoltre avevo bisogno di parlare con qualcuno con cui non dover fingere che tutto fosse sotto controllo.
Alla macchinetta del caffè c'eravamo proprio tutti: Julia, Alberto, Carlo ed io.
- Come va? - mi chiese Julia.
- Non riesco a scrivere una mail di due righe. - le risposi.
- Per fortuna non è urgente. - Aggiunsi più per rassicurare me stesso che lei - La scriverò domani.
- Io ho una riunione alle quattro. - disse Alberto in preda al panico.
- Non dire niente e se ti chiedono qualcosa rispondi che farai le verifiche del caso e li richiamerai. - disse Julia, che era la più pragmatica del gruppo.
Tornammo in ufficio. Io cercai nuovamente di scrivere quella maledetta mail, anche se non l'avrei mai inviata senza averla riletta a mente lucida. Le dita si muovevano sulla tastiera, ma le vedevo come se lasciassero un alone, una scia luminosa che spariva lentamente qualche secondo dopo. Inoltre continuavo ad avere sete.
Guardavo in continuazione l'orologio, per rassicurarmi. Dovevo aspettare fino alle sei del pomeriggio: il mio unico obbiettivo era arrivare a fine giornata avendo limitato i danni. Alle sei del pomeriggio avrei spento il computer, salutato tutti colleghi e sarei uscito da quell'ufficio. L'importante era mantenere la calma e non fare danni. Mantenere la calma e non fare niente.
No! Troppo rischioso non fare niente. Dovevo fare qualcosa, fingermi indaffarato. Leggere! Potevo leggere qualcosa. Leggere la documentazione, leggere le mail, leggere qualsiasi cosa, ma non scrivere niente e soprattutto non inviare niente.
Sapevamo che i nostri colleghi di ufficio si erano accorti che non eravamo lucidi e sapevamo che ci avrebbero coperti, ma se il nostro capo fosse entrato all'improvviso e avesse chiesto ad uno di noi un documento urgentemente la situazione sarebbe precipitata.
Contrariamente alle mie paure, sicuramente ingigantite dalla marijuana, arrivò il momento di tornare a casa. Persino Alberto era rientrato di buon umore dalla riunione. Non aveva detto una parola. Era una di quelle riunioni a cui sei chiamato solo per fare presenza.
Uscii dall'ufficio e mi diressi verso la mia auto. Percorsi il lungo marciapiede, circa 100 metri. Ricordo chiaramente la sensazione di camminare contromano su un tapi roulant; la sensazione di fare due passi in avanti ed essere trasportato due passi indietro. Non era possibile! Lo sapevo, ma continuavo a guardare la mia auto in fondo alla strada. Sembrava non avvicinarsi mai. Per tranquillizzarmi iniziai a guardare di lato: a guardare le auto parcheggiate al bordo della strada. Loro erano ferme ed io le superavo; una dopo l'altra. Era tutto normale. Non c'era nessun tapi roulant che mi riportasse verso l'ufficio. Infatti, dopo pochi secondi mi trovai di fronte alla mia auto. Entrai, misi in moto e partii. Non chiedetemi come feci, ma riuscii ad arrivare a casa.
Il giorno successivo tornammo nella trattoria di Maria. C'eravamo tutti: Julia, Alberto, Carlo ed io. Le raccontammo tutto. Ognuno la propria esperienza. Contenti di esserne venuti fuori, ma consapevoli che avevamo rischiato dei seri problemi sul lavoro. Quando finimmo Maria ci confessò che si era preoccupata per noi. Aveva capito quanto fosse potente la sua torta quando aveva saputo che due suoi clienti si erano sentiti male ed erano stati trasportati al pronto soccorso in autoambulanza.
E pensare che ci ero stata così attenta. - aggiunse con lo sguardo perplesso - Non l'avevo fatta bollire nel latte. È così che si fa perché faccia effetto.
Ma allora come mai? - chiese Alberto.
Il burro! - intervenne Julia prima che Alberto potesse completare la frase - i cannabinoidi si sciolgono molto bene nel latte, ma anche nel burro.
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