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Spogliarellista davanti la scrivania
E mi chiedevo se sarei mai stata felice. Poi pensavo che la maggior parte delle persone si chiede questo almeno una volta nella vita senza ottenere risposta. Una domanda senza replica mi univa a milioni di persone: ma il legame andava oltre. La mia esistenza umana e tutto quello di buono o di cattivo esiste mi legava agli altri? Gli altri chi... Einstein, Leopardi, Marconi, Flaubert, Giovanni Paolo II, un bambino in Africa, un pastore sardo, un insegnante irlandese, un monaco buddista... chissà se loro erano riusciti a definire la felicità... per lo meno a spiegare a se stessi l'oggetto per il quale faticavano, respiravano, amavano ogni giorno. Io dopo ventitreenni non ci ero ancora riuscita; ma non sapevo neanche se la cercavo, mi impegnavo, faticavo per sfiorare almeno l'idea di lei, della Felicità...
Spesso mi veniva in mente un flash del mio passato... avrò avuto 8-10 anni non ricordo bene ed era festa nel mio paese... una festa che attirava i bambini per via delle giostre. Le mie sorelle vi si recarono ma io mi rifiutai; sentivo solo una grandissima tristezza che mi opprimeva come un macigno. Mi sedetti sul marciapiede raggomitolata a guardare il tramonto e mi sentivo molto triste, davvero. Quasi inconsapevolmente non mi rendevo conto di questo micro-dolore che germogliava in me; sapevo solo che era lì che dovevo stare, era quello il posto giusto e nessun altro al mondo quello che in cui dovevo essere. Dovevo assistere il sole nella sua fase terminale, nel suo morire... ed anche se l'angoscia mi faceva compagnia, non lo vivevo come un problema... vivevo e basta... era il mio modo di vivere.
Guardando questa scena di vita remota con gli occhi di oggi posso concludere che quel giorno di fine estate, quando i bambini sono tutti felici perché non c'è la scuola, possono uscire andare sull'altalena e mangiare zucchero filato, piangere per un capriccio, io mi sono auto esclusa dalla vita, dall'azione, dal condividere il proprio tempo con gli altri. Preferii la meditazione, il crogiolarmi su me stessa, su un atavico ed ad eziologia ignota dolore dell'anima. Non provavo certo piacere, questo no, assolutamente. Però soddisfazione : sentivo di aver fatto un gesto di giustizia, sentivo di aver soldato ad un dovere. Come un giocatore di puzzle che mette il suo ultimo tassello e contempla la sua opera; mi sentivo triste, sola e gratificata di ciò. Sarebbe forse stato lo stesso sentimento che avrei provato anni dopo nello stimolarmi l'ugola per vomitare o nel tagliarmi braccia e gambe con una lametta...
Non ho mai capito quanto di patologico e di fisiologico ci sia in me; se la mia timidezza mi appartiene per natura o sono solo un'inibita, se il fatto che penso sempre che gli altri mi vogliano del male sia perché sono portata per natura a pensarlo o per esperienza o se è tutto frutto di una ideazione paranoide. Rileggendo queste frasi, non mi piaccio. Non mi piaccio perché ritrovo le stesse parole che userebbe una persona affetta da disturbo di personalità per definirsi, ed in effetti il test che ho fatto a marzo durante una lezione universitaria mi porta a questa conclusione... Ma prima del numero che mi classifica in questo scaglione, in quello dei "disturbati", ricordo un pomeriggio in cui piansi perché avevo la consapevolezza che qualcosa in me non andasse, che fossi schizofrenica. Colpa delle mie maledette poesie, delle immagini che chissà da quale discarica il mio inconscio va a prendere. E stasera più di ieri mi rendo conto che scrivere non è per me l'ancora di salvezza ma un modo per attutire i colpi, ammortizzare il peso degli eventi che da sola o per caso mi coinvolgono. E sento che la mia vita non è diversa da quella di altri mille; è la stessa scrittura.. È la lettura che cambia;l'interpretazione ed il critico che è in me ad esser diverso... Troppo severo, superbo, aggressivo perché fondamentalmente un inibito, mal fidato, antipatico. Era tutte queste cose insieme la mia malattia genetica, che mi logorava dal mio primo vagito... O forse no? Forse era una mia convinzione errata ma in me radicata? Una mia immaginazione? Cosa era, questa visione di me eremita, come un lupo che mostra i denti. Senza padrone, senza terra, orfana di se stessa, mi ero scolata questi giorni e mi era rimasto il palato amaro perché anche il fondo, disperata ed ingorda come ero, mi ero bevuta! O tutto o niente... o bianco o nero... o sola o con tutti. L'essenza della mia filosofia di vita. Nessun compromesso, nessun risparmiarsi sul lavoro... il mio umore non godeva mai del clima temperato. Sempre in tempesta o sempre accondiscendente come una calma insenatura che abbraccia il mare; sempre una scoperta per gli altri che mi coglievano in un momento e mi ritrovavano nell'altro completamente opposto... Ti manca la diplomazia, tuona mia sorella. Come dargli torto? Sei troppo egoista e cattiva, scappò in un litigio a mia madre. Come negarlo? Sono necessariamente questo se a ventitre-anni non ho amici, non ho un ragazzo, non ho nessuno tranne la mia famiglia; un nucleo di sei persone più gli animali da compagnia! Come è possibile, nel fiore della giovinezza, avere così pochi contatti sociali? La parola non mi manca, possiedo l'apparato fonatorio. La timidezza mi frena forse... o è pigrizia, menefreghismo, nessun desiderio di mettersi in gioco? Non so... e forse nessuno può a questo mondo rispondermi! Chiederselo è anche vano;bisogna agire, trovare una risposta nelle azioni... CAMBIARE... che parolona! Mi fa pensare a mia madre ed al fatto che con questa parola assolveva mio fratello dai suoi vizi giovanili:è giovane, cambierà!. Lui, ora 35enne non è cambiato affatto ed ora anzi paga i suoi errori e continua a commetterne altri...
Non sono un rettile che cambia pelle;anzi i rettili mi disgustano.
Se non è scritto nel DNA della specie di cui appartengo la possibilità di cambiarsi, mutare... io posso farcela? Ma poi cosa significa cambiare? Cosa dovrei cambiare? Dovrei buttare giù parti di me e ricostruire o partire ex novo o riciclare ciò che ho? Cosa devo fare per sentirmi meglio? Per vivere una vita come quella degli altri?
Questi sofismi sono tipici di un arrampicatore esperto degli specchi;dovrei smettere di scrivere, di fare tutte queste domande e vivere una vita con i piedi per terra, sul concreto: agire, sudare...
E se la crisi tornerà di nuovo a bussare alla mia porta? Mi prenderà per i capelli distogliendomi da quello che di concreto sto facendo, come posso difendermi?
Se scrivere e spogliare a nudo il mio ego mi fa stare meglio, lasciare liberi i miei pensieri, la mia emotività come cavalli allo stato brado. Senza grammatica, rispetto della punteggiatura, darmi al flusso di coscienza di Joyce( se ben ricordo, le cui opere al liceo non leggevo mai) cosa devo fare?
Trattenermi perché in genere le ragazze della mia età il sabato sera si organizzano la serata e non restano sulla scrivania a riflettere le occhiaie post-pianto sullo schermo del computer?
Anche se dico di sì, so che non lo farò e "mi spoglierò" ancora davanti la mia scrivania anche se fa freddo e siamo in pieno inverno. Perché niente si avvicina al gelo che, se fosse anche per un nanosecondo, mi entra per la serratura dell'anima.
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