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La memoria dell'acqua
Acqua.
Ne sento il rumore, anche adesso che sono sveglio.
La luce del sole è un lampo negli occhi. Bianco, splendente, che acceca e riempie di puntini luminosi il buio delle palpebre abbassate. Cerco di spostare con la scapola quel cazzo di remo destro infilato nella schiena da questa notte. La barca dondola al ritmo lento delle onde. E dentro, il mio corpo o, almeno, quel che ne rimane.
Ho sforzato a lungo la mente, alla ricerca di un testo adatto per inseguire quella che la redazione ha intitolato "la memoria dell'acqua", una traccia per un chissà quale concorso letterario.
Ho pensato veramente di tutto per trovare l'idea giusta, per scrivere parole, punti, virgole e parentesi che potessero lasciare un segno. Una lettura che ti faccia premere la schiena contro il sedile del treno e ti faccia sentire il cuore battere all'impazzata nel petto, un fiume di parole che ti scorrono a fianco, in un viaggio destinato a finire, ma immobile in un tempo che pare ancorato nelle sabbie letterarie.
Acqua.
Bere.
Dio solo sa quanta sete ho. Sento la bocca impastata, i denti che si fondono l'un l'altro. La lingua bolle, mentre il palato cola come lava giù per l'esofago. È come se ogni cattiveria sputata contro qualcuno mi stesse tornando indietro. Una caramella amara offerta dall'orgoglio.
Ogni qual volta una nuvola copre per un attimo il sole, sollevo lo sguardo e osservo il mare. Sono circondato da litri d'acqua e non posso berne neppure una goccia, neanche la più piccola. Così lascio che la testa torni ad appoggiarsi alla punta della barca, incapace di ricordare con esattezza da quanto tempo sono qui.
All'inizio, cercare l'idea giusta, con la mente sgombra da ogni pensiero, mi consentiva di variare dalle ipotesi più semplici a quelle più assurde.
Ho cominciato osservando l'acqua attraverso le bottiglie, scuotendole e rovesciandole nella speranza che qualche goccia contenesse la storia che aspettavo. Oppure riempiendo secchi, pentole e bicchieri, lasciando che il liquido cristallino arrivasse fino all'orlo per poi riversarsi. L'ho mischiata con colori, sapori e odori. L'ho osservata nella doccia, per notare come si mischiasse al sapone ridandomi pulizia e profumo. Mentre facevo l'amore, per esplorare le nostre gocce di sudore fondersi, in attesa che altri liquidi esplodessero in noi. Trovavo un nesso con l'acqua in qualsiasi cosa.
Colmo di notizie ed appunti di ogni genere, scelsi di provare un contatto diretto.
Soltanto io e lei.
Presi in prestito la barca di un amico, ovviamente se per prestito si può intendere non averglielo detto, e mi abbandonai alle onde del mare, con la premessa di tornare entro sera, stanco ma con il racconto sottobraccio. Era come se l'acqua stesse cercando di suggerirmi o ricordarmi qualcosa, ma nulla si presentava alla porta della mia mente nemmeno da solo in quella distesa di onde e riflessi, ormai perduto e privo di speranze.
Stupido. Sono stato uno stupido.
Quante volte avevo visto il sole e le stelle alternarsi in questo cielo? Ormai non importava più. Volevo solo sapere quanto mi rimanesse prima di morire. Stavo per riaddormentarmi quando notai qualcosa, un triangolino bianco sbucare dal taschino della camicia, l'ultima ancora pulita ed indossabile, quasi mi aspettasse proprio per questo viaggio. Regalo di almeno dieci anni fa, finì inesorabilmente sul fondo dell'armadio, dopo una gran prova da attore per fingere fosse la mia preferita agli occhi di zia Agnese.
Infilai la mano ed estrassi quella che riconobbi come una foto scomparsa da tempo nei meandri della memoria. Due bambini, Alex e Ross, sacrificavano qualche secondo della loro spensierata esistenza per lasciarsi fotografare. Entrambi di sei anni, si sforzavano in un sorriso; sullo sfondo, la grande casa in riva al mare... un'ondata di brividi m'invase la schiena.
Sfiorai la foto con una carezza a coloro che un tempo erano i miei figli, i bambini nati dal mio amore con Sandra. Lei, che una mattina di luglio li annegò nella vasca da bagno, trattenendo le loro teste sott'acqua, fino a quando il peso della colpa non le cadde addosso più pesante di un macigno.
Non riuscii a starle accanto nemmeno per un attimo. Maledissi lei e tutto ciò che avevamo vissuto insieme, allontanandomi dalla nostra casa e dal dolore che vi aleggiava.
Fino ad oggi.
Ho scelto di scrivere queste righe perché soltanto ora comprendo quello che stavo cercando e mi era invisibile. Ecco cosa voleva dirmi l'acqua, cosa mi sussurrava nel suo fiume di ricordi, cosa mi nascondeva agli occhi. Non trovavo il coraggio di affrontare il dolore e per questo ho lasciato che il mio cuore vi si immergesse, nella speranza che fosse trascinato via dalle onde, portando con sé anche la mia memoria. E, ironia della sorte, il mio cuore torna a battere proprio ora che sto per morire.
Ecco perché lascio queste parole sulla carta. Perchè non esiste ricordo che svanisca del tutto in noi. Siamo come il mare, dove la marea porta con sé immagini e sensazioni passate, per poi ritrarsi e riportarle all'orizzonte, in attesa che tornino a regalarci un sorriso o una lacrima di tanto in tanto. Sfioro un'ultima volta la foto, la piego in una piccola barchetta e la lascio galleggiare sull'acqua. E mentre affonda, torno a stendermi sulla barca, privo di forze e con la testa dolorante.
Ora arrotolo questo foglio, lo infilo nel collo di una bottiglia che affido alle onde, nella speranza che queste parole siano un giorno lette da chi vive ad occhi chiusi, così che non si perda, come me, nella memoria dell'acqua.
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