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Elogio al cinismo
Travolta da un'ondata di passi e corpi senza nome, scendo dal treno. Involucri vuoti camminano veloci, ognuno con il suo peso sull'anima, ognuno col suo bagaglio di cose inutili. Mi guardo attorno. Tossisco. Che schifo. Vorrei sprofondare in un momento, vorrei essere risucchiata dal mondo, Blup, e più niente.
Cerco uno sguardo, invano. Mi butto nella folla come fossi una di loro, cammino per inerzia, sento il cuore svuotarsi come un sacco. Quanta felicità buttata al vento e alle lacrime. Quanta gioia da ricordare piangendo. Vedo la mia vita come ho appena visto il paesaggio allungato dietro al finestrino di un treno, mai fermo, mai deciso, mai disposto a guardarmi. Credo di non avere forze per continuare a camminare...
Mi guardo attorno. Schermi piatti ultratecnologici urlano il loro vuoto, stuprano il silenzio con la loro volgarità. Passi e musiche, musiche sceme, passi straziati. Cammino lenta, la tristezza mi riempie gli occhi, trabocca. Il pensiero fa male, fa male cazzo, brucia l'anima, tagliuzza lentamente ogni parte di quella gioia ingenua che provavo, quando...
Incrocio lo sguardo di un barbone sdraiato su una panchina, che tenta invano di dormire. Mi guarda sofferente, mi chiede aiuto, come se io potessi darglielo il mio aiuto, come se io fossi in grado di rendere un solo momento di questa vita più accettabile, come se la sua vita precaria e infreddolita non fosse peggiore della mia, della mia vita, di questa mia vestaglia consunta che trascino tra la polvere, della mia che una volta era bella luccicante morbida calda, la mia che una volta adoravo, che non vedevo l'ora di mettermi appena svegliata al mattino, la mia che bastava una canzone per sorridere, la mia che adorava i bambini, la mia che aveva fiducia, che voleva essere gettata all'aria... la mia, che non è più mia. Che non mi appartiene più, che è solo accessorio, solo appendice di un'inerzia esistenziale, la mia che ormai non sa che dipingere tristezza ovunque posi lo sguardo.
Malinconia e malumore. Guardo il barbone negli occhi. Non provo compassione per te, gli dico. Non m'importa se hai freddo, fame, se sei senza una casa e senza una famiglia, penso. Io, ho tutto questo, e la notte non riesco a dormire. La notte guardo il soffitto per ore, il desiderio di dormire mi segue come un gatto tra l'immondizia della mia anima, ma mai si fa avvicinare. Il mattino alle prime ore del giorno entro nello squallore del bar sotto casa mia, e osservo tutta questa gente a cui piace la vita, che combatte il sonno per svegliarsi. E io, che vorrei solo dormire. E non posso.
Un brivido di profondo odio mi percorre la schiena, e mi esce dalla bocca come un rantolo. Tossisco. Avrei voglia di vomitare. Ma devo guardare a che ora è il mio treno, devo vedere su che binario arriva, devo vedere di farmene qualcosa di questi fottuti soldi che ho speso per fare il biglietto, devo seguire un percorso, qui cosa faccio? Mi rintano nella solitudine del mio cappotto, mi accendo una sigaretta. Cammino trascinando i piedi verso il tabellone. Il mio treno è alle dieci e quindici. Binario dieci.
Quanta speranza data in pasto alle bestie. Quanto parlare di nulla. Quanto amore violentato. Quanto tempo finito nell'acquario del ricordo ingordo.
Tutte queste persone che mi passano accanto, che nemmeno si rendono conto che io sto morendo di dolore. Tutti questi chiusi nel loro ego, stretti nelle braccia del loro amor proprio, spinti a man forte dalla saccenza della loro volontà. Questi che magari hanno il coraggio di parlare di amore, di gioia, di sentimento. Odio tutto questo, odio la mia solitudine, odio la solitudine degli altri. Questo mondo è fatto col culo. Corpi che si scontrano, mai anime. Anime sole, anime affaticate, anime illuse. Anime che mettono i loro paletti, che giudicano i loro traguardi, anime che si toccano soltanto per passarsi il testimone.
Binario dieci. Ecco il mio treno. Ci salgo, posto centonovantaquattro. Sono in scompartimento con tre uomini. Uno si mette a strusare col cellulare, riceve un messaggio al minuto, con una suoneria sgradevole ed insistente. Sembra sulla trentina, già pelato poveretto. Quello accanto al finestrino porta un paio di occhiali talmente scontati che di sicuro fa il banchiere. Ha l'accento milanese - è uno di quelli a cui piace parlare di niente e attaccare bottone pure coi paracarri. Poi c'è quello di fronte a me, un giovinetto di poco più di vent'anni particolarmente effeminato, tutto jeans e gel nei capelli.
Dopo minuti interminabili di silenzio e occhiate distratte, il treno parte. Ricomincia lo strazio della vita allungata dietro al finestrino. Per fortuna è notte, si vede poco.
Prendo il mio libro, lo sfoglio, lo leggo.
A un certo punto un ragno appeso al suo fedelissimo filo mi appare davanti allo sguardo. È a qualche centimetro dal mio naso. Accenno ad un sorriso. Fortunato lui, penso. Se ne sta lì a giocherellare col suo sputo, è quello il suo ruolo nella vita, e guarda quanto ci gode. Lui sa cosa si deve fare per vivere bene.
La bestia resta appesa qualche secondo, dopodiché decide di ritornare nelle alture. Ritorno al mio libro, ma col pensiero rivolto al ragno. Bella vita la sua, tutta dedita a sputtacchiare quella che poi diventa la sua casa, senza bisogno di soldi, di sogni, di ambizioni. Tutto rigorosamente programmato a priori, dal destino, da dio, da non si sa. Mica c'ha problemi lui. Al massimo muore. Un momento e via, incoscienza. Niente paura della morte niente funerali. Una vita che vale la pena di essere vissuta. Una vita che vive il momento, una vita oltreumana.
Alzo lo sguardo. Il tizio di fronte a me si è accorto del ragno, guarda in alto e pare controllare le sue mosse. Poi si rassicura, torna a guardare fuori dal finestrino - cosa starà mai guardando, lo sa solo lui. Passano pochi minuti e il ragno decide di riscendere a bassa quota, stavolta con lo sguardo del ragazzetto sempre più preoccupato, inquieto. Scende un po' il ragnetto, si diverte a farsi desiderare, è sadismo il suo, se la spassa a terrorizzare la checchetta di fronte a me. Scende un po', poi risale - e di nuovo giù. Il ragazzo è sempre più straziato, manca poco che si mette a piangere. Il tipo di fianco a lui sbotta "Ho una vaga sensazione che lei abbia paura dei ragni.." Il ragazzetto lo guarda sofferente, non dice niente. "E col ragno in carrozza fino a dove deve andare?" "Fino a Lecce" risponde il ragazzetto timidamente, seguito da una lieve manifestazione di divertimento da parte mia e dell'altro pelatone.
Il ragno cammina un po' sul soffitto, si attacca alle pareti come un eroe, "Si crederà un gran figo lui" penso io "che sta umiliando così un essere umano". Che bello spettacolo si starà godendo, questa sì che potrà essere una cosa degna di essere raccontata ai propri figlioletti.
Il ragazzo tenta di far finta di niente, si guarda le mani, tira fuori il cellulare, dà un'occhiata fuori dal finestrino, ma lo sguardo gli fugge poi sempre là, alla bestia. Alla fine decide di rilassarsi, tanto è là, in alto per ora, non mi darà fastidio. Torna al cellulare. Ma il ragno, proprio in quel momento, decide di riscendere, e si piazza proprio davanti al visino pulitino del ragazzetto. Giocherella con la sua inconsapevolezza. Si beffa di lui. Nutre il proprio ego da ragno sfidando il coraggio di un uomo. Ma il ragazzetto alza lo sguardo d'improvviso e tramortito dallo sgomento lancia un urlo così effeminato che nemmeno la Disney è mai stata in grado di produrne uno del genere, saltando d'istinto in groppa al suo vicino.
Il ragno se ne risale, tranquillo. Mi pare di sentirlo ridere. E rido pure io, di gusto. L'altro passeggero mi guarda. Il ragazzetto mi elimina con lo sguardo. Il banchiere non sa se incazzarsi o se scoppiare a ridere. Ma alla fine mi segue, col ragazzetto in braccio che ci odia più che mai.
Che commedia ragazzi.
Mai rinuncerei a tutto questo.
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