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Traffico in città
È ancora notte fonda quando prendo servizio. A quest'ora le strade sono deserte, fredde, silenziose. Paiono quasi lugubri senza il solito caos d'auto, moto e pedoni, ma in compenso si coglie un gran senso di pace. Mi piace, così. Il traffico dell'ora di punta è troppo logorante.
Di mattino presto viaggiano sempre le stesse poche persone. Oggi è venerdì e dopo cinque giorni che gestisco la medesima linea comincio a sentire una certa familiarità con costoro e mi pare quasi di conoscerle.
Osservandole salire a bordo mi viene istintivo pormi delle domande su di loro: dove vanno e da dove vengono, che lavoro svolgono, se sono sposate, fidanzate o single, soddisfatte o deluse della loro esistenza.
Personalmente io non mi sento troppo contento della mia, ma in qualche modo me la sono scelta e devo ammettere che esistono mestieri ben peggiori rispetto a quello di conducente d'autobus. E anche mia moglie non è malvagia, in fondo.
La mia diligenza, come mi piace chiamarla, comincia a prendere vita già mentre attraversa il quartiere collinare. In genere il primo a salire a bordo è un cinquantenne alto, largo di spalle, il cui volto squadrato pare tagliato con l'accetta. Abitualmente indossa sciarpa e cappotto scuri. Si siede sempre in fondo. Dall'aspetto mi ricorda il mostro di Frankenstein, va a sapere perché.
La fermata successiva è il turno di una biondina sempre intabarrata. Ha i capelli che le ricadono sulle spalle e la frangetta che gli copre la fronte, il naso appuntito, l'aria assonnata. Il suo posto fisso è in testa, vicino all'autista, quasi a cercare protezione tra le ali del sottoscritto.
Scendiamo verso il centro ed ecco che anche stamani lo smilzo e occhialuto capellone, in jeans e giaccone, mi fa cenno. Accosto e lo lascio salire. L'osservo guardarsi rapidamente intorno e poi accomodarsi come al solito sul sedile di fronte alla porta d'ingresso.
Deve essere già un po' che i tre viaggiano insieme ogni mattina, perché li ricordo dall'epoca di un mio precedente turno, eppure non li sento mai rivolgersi la parola. Ognuno resta chiuso in se stesso, come in un bozzolo.
Il quarto passeggero, stempiato, basso di statura e snello, monta a bordo nella piazza principale, mentre poco dopo la ragazza scende. Mi piacerebbe fermarmi per scoprire quale sia la sua destinazione.
Gli altri tre proseguono anche oggi fino in periferia. La vita sembra proprio scorrere sempre uguale per tutti, non soltanto per me. Trovo ciò molto consolatorio.
Poco per volta si fa giorno, le strade si affollano e, mentre io passo dal capolinea per poi subito ricominciare il giro, il mio autobus lentamente prende vita. Le otto si avvicinano; la gente si reca sul posto di lavoro e i ragazzi vanno a scuola.
Una alla volta le saracinesche dei negozi vengono sollevate e anche i commercianti iniziano la propria giornata lavorativa.
A quest'ora non si viaggia più così lisci. Il traffico impazza. I pedoni mi attraversano la strada all'improvviso. Le moto sfrecciano in ogni direzione. Le auto invadono la corsia preferenziale e mi rallentano. I furgoni compiono le operazioni di carico e scarico sostando in doppia fila. Che stress.
Attento! Una comitiva di bambini mi attraversa la strada di corsa, con gli zainetti sulla schiena, sciamando disordinatamente anche fuori delle strisce pedonali. Sembrano piccoli, saranno scolaretti delle elementari. Appena si sono allontanati riparto. Certo bisognerebbe che qualcuno gl'insegnasse una maggior prudenza, la città è irta di pericoli.
Ad ogni fermata ci sono gruppetti di persone che salgono e scendono. Mi piace osservarli attraverso lo specchietto retrovisore, quando posso. Tutt'intorno a me è un continuo brusio di frasi smozzicate e spezzoni di discorso. Gioie e dolori, preoccupazioni e soddisfazioni, le tante piccole cose della vita, per lo più banali ma importanti per chi le sta vivendo, che mi attraversano l'esistenza per pochi secondi e di cui non saprò più nulla. Come, ad esempio, la delusione della giovane donna col cappotto rosso, che ha appena prenotato la fermata e, ferma a un passo da me, nell'attesa di scendere si confida con l'amica.
"Ormai sono certa che Fabio mi vuole lasciare." Esclama.
"Ma no, cosa dici, ma se ti vuole bene." Sento l'amica rispondere.
"Lui vuole bene solo a se stesso. Io per lui non ero nient'altro che un piacevole passatempo, una tra le tante, ecco la verità."
"Perché dici questo, hai scoperto qualcosa?"
Le due donne balzano giù. Non saprò mai se davvero la ragazza in rosso aveva scoperto qualcosa, ma nuovi scampoli di storie sono già in attesa di sostituire il dialogo precedente e sovrastare per qualche istante il brontolio del motore. Molti di coloro che parlano non faccio neppure in tempo a intravederli, ma occasionalmente riesco a gettare una rapida occhiata su qualcuno.
"Paolo, li hai risolti i problemi di matematica per oggi? Me li passi per piacere? Io ieri..."
"Ho con me il progetto da presentare alla riunione di stamani, prima dell'inizio dacci un'occhiata sommaria e dimmi se ti sembra ok."
"D'accordo, ma scendiamo adesso, che mi voglio fermare in edicola a prendere il giornale."
"Senti, non credi che dovremmo..."
"Il mio capo ha rilevato la clientela dello zio che è andato in pensione, non ha assunto nessun'altro e in studio ci facciamo sempre un culo così, ma quel bastardo continua a pagarmi quattro soldi."
"Ma perché non ti decidi a dimetterti, una buona volta."
"Tanto sono tutti uguali, non mi faccio illusioni, e poi io..."
"Ehi, hai visto che fica che sta passando lì di fronte?"
"L'ho vista sì, pareva una fotomodella."
"La prof d'Inglese interroga, oggi." - Vedo il bel ragazzino col piumino senza maniche, le guance rosse come una mela che spiccano sul volto pallido, passarsi ansiosamente le dita sui lunghi riccioli ribelli. - "Io non so mica se entro..."
"Ehi, ma che modo di guidare è questo. Stia attento, caspita!" Esclama, inferocito ma contenuto, un anziano col cappello a larghe tese, elegante nel suo trench grigio scuro.
Ho dovuto frenare all'improvviso, perché un cretino mi ha tagliato la strada. Lo scossone ha fatto ballare i passeggeri ed ecco saltar subito fuori i soliti rompiscatole pronti a prendersela con me, merda! Purtroppo mi sto già facendo prendere dal nervoso.
Alla fermata successiva sale a bordo il controllore.
"Come va, Ilario. Tutto bene?"
Per la cronaca, Ilario sono io.
"Si tira avanti, come al solito." Gli rispondo.
Prima che lui inizi a controllare i biglietti dei viaggiatori scambiamo due parole. Le solite frasi futili, di circostanza, che si dicono tra conoscenti quando non c'è autentica amicizia.
Infine arrivo nuovamente al capolinea. Cinque minuti di sosta e via, si ricomincia.
A ben pensarci che vita inutile è la mia, dio, mi sento impazzire.
La vecchia signora ha assistito alla messa del mattino, quindi, come fa, più per abitudine che per convinzione, ogni lunedì e venerdì, si è recata al cimitero a far "quattro chiacchiere con mio marito", come dice lei. Si tratta di monologhi, ovviamente, la signora, infatti, è vedova da quindici anni. Fisicamente è ancora in forma, è con la testa, semmai, che comincia a non starci più tanto.
Indossa un antiquato vestito in varie tonalità di grigio e un foulard di pizzo nero, con una sciarpa blu scura come unica nota di colore. Dopo così tanti anni troverebbe assurdo continuare a portare il lutto, ma le sembra male recarsi in chiesa o al cimitero vivacemente colorata.
Durante il viaggio in autobus parlotta da sola per tutto il tempo. Commenta a bassa voce tutto ciò che vede e squadra gli altri passeggeri dalla testa ai piedi. Nella parte conclusiva del percorso concentra la propria attenzione sull'autista. È un tipo sgraziato, con un grosso testone. Quell'uomo le procura un leggero senso di fastidio perché, mentre sta in piedi presso l'uscita, nell'attesa di prender terra alla sua fermata, non può fare a meno di sentirsi osservata e ascoltata da costui.
Infine, dopo uno stop imprevisto causato da un intasamento, scende, sempre continuando a bofonchiare, e attraversa sicura quel vero e proprio labirinto in cui si è trasformato il camposanto comunale. Dopo tanti anni conosce il percorso a memoria e potrebbe giungervi ad occhi chiusi.
Eccolo qui il suo povero marito. Si sofferma a guardare la fotografia esposta. Era ancora così giovane, accidenti, non fa che ripetersi. Aveva due anni meno di lei, ma è riuscito a godersi la pensione per neanche un anno. Quel maledetto "brutto male" come eufemisticamente preferisce chiamarlo, se lo è portato via in meno di sei mesi e addio sogni di viaggi e divertimenti.
Lei ogni mattina gli racconta com'è andata la settimana. Gli fa l'elenco, ogni volta più lungo, dei suoi presunti acciacchi, gli ripete i pettegolezzi sentiti e che a lui non interessavano neppure da vivo, figurarsi ora che se ne sta lungo disteso sotto un metro di terra. Gli fornisce notizie della figlia, la quale saranno due anni buoni che non si fa vedere davanti alla tomba. Infine gli confida le sue ansie e preoccupazioni.
Trascorre sempre un'ora esatta in compagnia del marito, precisa come un metronomo, poi si reca a fare la spesa nei soliti negozi. Finché la salute glielo permette preferisce rifornirsi in centro, dove rispetto al suo quartiere i prezzi sono in genere più contenuti. Tanto non le pesa doversi trascinare i borsoni della spesa, c'è abituata. Cammina dritta e impettita nel suo metro e settant'otto di statura. Deve essere stata una gran bella donna, da giovane, e ancora adesso porta i segni della sua antica bellezza ormai sfiorita.
Non si fida degli automobilisti. Lei stessa non ha mai preso la patente. Ogni qual volta deve attraversare la strada, sempre rigorosamente sulle strisce pedonali, si guarda bene attorno, prima d'incamminarsi. Se il traffico è troppo intenso e non riesce a individuare una pausa che gli permetta di passare in tranquillità, scende sul bordo della strada, compie un passo o due in avanti e quindi, con un gesto deciso e plateale del braccio destro, invita gli automobilisti a bloccarsi e lasciarla passare.
"Cosa credete di essere, i padroni della strada? Anche noi pedoni abbiamo i nostri diritti, ma mai che ci lasciate attraversare." Commenta sovente ad alta voce mentre cammina sulle zebre con passo lento ma sicuro, la testa voltata verso l'automobilista in attesa, per studiarne le mosse, che non si sa mai. La tecnica funziona sempre.
Adesso si sofferma ad ammirare qualche vetrina, finché non vede due ragazzini uscire da un negozio di dischi e incamminarsi, inconsci della sua presenza, dinanzi a lei. Uno dei due lo riconosce, è il riccioluto figlio della sua vicina di casa, ma non dovrebbe essere a scuola, a quest'ora? Sente il ricciolino ciarlare allegramente.
"Facciamo un salto al dopo lavoro ferroviario?" - Sta chiedendo al compagno. - "Ci sono dei bei videogiochi."
"Buona idea. Sono contento che mi hai convinto a saltare, non ne avevo per le palle, oggi."
"A quest'ora starà giusto cominciando a interrogare d'inglese. Vieni alla cattedra, Opale, sentiamo se hai studiato. Want you came to the desk? Oh no, I don't understand these your foolishness. Sorry, teacher." E giù un'allegra risata.
La signora allunga il passo, gli tocca una spalla e lo richiama.
"E così non sei andato a scuola, signorino." Non è una domanda, ma un'affermazione.
Il ragazzo si volta e la riconosce. Il sorriso gli si spegne sulle labbra e il naturale contrasto tra il rossore delle guance e il pallore del resto del volto si accentua perfino di più di quanto già non lo sia normalmente.
"Cavoli, la vecchia megera! Le venisse un accidenti." Pensa, mentre la saluta con un buongiorno signora che si sforza di far apparire il più gentile possibile.
"Appena vedo tua madre glielo dico. Non ti vergogni?"
"Ma no, signora, cosa ha capito, siamo usciti in anticipo, stamani."
"Non fare il furbo con me, poppante, che lo so bene, io, come siete fatti voi giovinastri."
"Proprio quella vecchia stronza spiona dovevo incontrare con tutta la gente che c'è in giro." - Commenta poco dopo, abbacchiato, rivolgendosi al suo amichetto mentre, con fare abituale quando è agitato, si passa le dita in mezzo ai riccioli. - "Quando mia madre lo saprà mi farà un culo così. Crepasse in questo momento la vecchiaccia, prima di rientrare a casa!"
Ricorda di quella volta che aveva litigato con un negoziante e, offeso per essere stato maltrattato ingiustamente, accusato di un furtarello mai commesso, si era augurato che schiattasse. Sua madre si era detta tanto dispiaciuta per quel pover'uomo, la settimana successiva, quando avevano saputo che era morto d'infarto. Lui sotto sotto ci aveva goduto, invece.
"Ben gli sta." Si era detto. Ma certe fortune, pensa ora, capitano solo una volta nella vita.
Intanto la vecchia signora procede per la sua strada di buona lena. Tira fuori la lista della spesa e la consulta. Un tempo ricordava tutto a memoria, ma se adesso non si segnasse ciò di cui ha bisogno rientrerebbe ogni giorno a casa con la metà del necessario.
Dà quindi un'occhiata all'orologio: si sono già fatte le undici. Medita che farà bene a sbrigarsi con la spesa, in modo da riuscire a prendere l'autobus di mezzogiorno. Non ha mai amato pranzare ad orari ospedalieri come altri suoi coetanei, ma non vorrebbe neppure sedersi a tavola dopo l'una.
È già la settima volta che riparto da questo capolinea. Se dio vuole la giornata è agli sgoccioli.
Il momento peggiore è stato quasi a metà mattinata. Credevo di restare incastrato in quel maledetto ingorgo per sempre. Per almeno un quarto d'ora siamo tutti rimasti immobili, senza poterci spostare di un metro, ovviamente in una zona priva di corsie preferenziali. Le auto strombazzavano, la gente a bordo stava pigiata da non potersi muovere rifiutando di scendere e alle mie spalle uno straniero, che parlava in un passabile italiano con accento americano, chiedeva incredulo ai vicini se tutto ciò in Italia era normale. Per fortuna in qualche maniera poi tutto si è risolto. Io odio gli ingorghi.
Per completare l'opera, dieci minuti fa sul retro si è verificato un tentativo di scippo. Una zingara, a quanto pare, o una ragazza di colore, non ho capito bene. Fattostà che l'incidente ha scatenato una violenta discussione razzista.
Quanto è esecrabile certa gente. Non è certo la tinta della pelle a provocare simili comportamenti delinquenziali, semmai le cause sono la povertà e le difficoltà della vita. Alla fine ho dovuto fermare il mezzo e invitare un tizio, un bianco naturalmente, o dovrei forse dire un senza colore, che stava dando in escandescenze, a scendere.
Qualche istante fa ho scorto Frankenstein passare a piedi. Chissà dove se ne stava andando. Voi mi direte che non me ne dovrebbe importare assolutamente nulla, di dove si stia recando costui. Indubbiamente avete ragione, ma io devo pur riempire in qualche maniera questa mia vita priva di significato e... ma cosa combina quello lì?
"Ehi, testa di cazzo, togliti di mezzo." Urlo ad un ciclista, sporgendo la testa fuori dal finestrino e strombazzandogli col clacson.
Quell'imbecille procedeva zigzagando beatamente a passo d'uomo nel bel mezzo della corsia riservata ai mezzi pubblici.
Attraverso lo specchietto scorgo un paio di passeggeri alle mie spalle guardarmi male. Non avrei dovuto, lo so. Il punto è che si sta avvicinando il mezzogiorno e il traffico è prossimo al parossismo. A quest'ora la stanchezza comincia a farsi sentire ed è comprensibile, credo, che alle volte abbia i nervi a fior di pelle e mi sfugga qualche scatto di rabbia. Già le corsie preferenziali in questa benedetta città sono così poche, e per giunta non le rispetta quasi più nessuno. Beh, pazienza, non stiamo a pensarci.
Immagino che mia moglie a quest'ora starà preparando da mangiare. Speriamo cucini qualcosa di buono, magari una bella amatriciana. Al solo pensiero già mi viene l'acquolina in bocca.
Ooh, dopo pranzo, ora che mi viene in mente, dovrò recarmi a pagare il canone Rai. Che dannata scocciatura. Un giorno o l'altro mi deciderò a non pagarlo più, accidenti, tanto, per quello che serve, e poi... Ehi, quella nonna imprudente scende dal marciapiede, chiaramente intenzionata ad attraversare, sarà meglio frenare!
Alla vecchia signora non resta che effettuare un'ultima commissione dal pollivendolo, sul lato opposto della strada, quindi potrà finalmente tornarsene a casa. Osserva per qualche istante il traffico troppo intenso e scende dal marciapiede, per eseguire la tecnica di cui si considera specialista. Atteggia il volto con la sua più convincente espressione arcigna. Compie un passo in avanti e contemporaneamente allunga con decisione il braccio destro, con la mano sollevata, per imporre all'autista capoccione della corriera in arrivo a tutta velocità di fermarsi. I conducenti di pullman non le sono mai piaciuti. Ritiene che approfittino del loro mezzo tanto colossale per circolare infischiandosene di tutti, come fossero i padroni della città.
"La precedenza ai noi poveri pedoni." Esclama, mentre effettua un ulteriore passo innanzi.
L'autobus sembra accennare a fermarsi, invece poi accelera all'improvviso deviando proprio nella sua direzione. la signora lo guarda ad occhi sgranati, immobile. Con gesto istintivo allunga entrambe le mani, come a voler tenere lontana la minaccia e non riesce a spostarsi di un millimetro. È questione di un attimo, poi il colossale mezzo arancione la travolge, uccidendola sul colpo.
Alcuni passanti urlano, sconvolti.
Dio, dio, dio! Non so cosa mi abbia preso. Giuro che non volevo. Stavo già rallentando, per fermarmi e permettere alla vecchietta di attraversare. Sono rispettoso dei pedoni, io.
Poi ho visto che mi ordinava di arrestare il bus, con quel fottuto braccio tirato, manco si trattasse d'un vigile urbano. Dava un ordine a me, con quell'aria arrogante, e ha detto qualcosa, per giunta, un insulto che non ho decifrato, come fossi una qualsiasi nullità.
In quel momento ho visto rosso. È successo tutto in qualche centesimo di secondo, non di più:
"Cazzo," - ho pensato, - "non vedi che mi sto già fermando? Lo conosco il codice della strada, cosa credi, vecchia troia." E poi, oddio, ho accelerato e le ho puntato contro, non so perché. È stato l'impulso di un momento. Mi aveva talmente irritato il suo comportamento che per un istante ho desiderato investirla.
E l'ho fatto, accidenti. L'ho fatto davvero. Ho subito estinto il maledetto input che mi aveva spinto ad agire follemente e ho frenato, ma era troppo tardi, quella donna era già sparita in un sussulto sotto il corpo del mio autobus.
Adesso la gente urla e sbraita intorno a me. Un tizio m'insulta e dice che sono un maledetto pazzo e un criminale. Io sto zitto e incasso, mestamente. Cosa potrei dire a mia discolpa?
L'ambulanza ha già accostato e gl'infermieri accorrono in soccorso, ma io so che oramai è troppo tardi.
Tutto intorno si è formato un capannello. I soliti curiosi si accalcano per impicciarsi e pongono domande a chi era presente. Io non mi sento di muovermi, forse è lo shock. I passeggeri scendono uno ad uno e mi lasciano solo. Solo con me stesso e col mio rimorso.
Vorrei tanto che la cosa non mi riguardasse, che fossi passato di qui per caso a fatti avvenuti, come tutti loro, e invece sono proprio io il protagonista. Ma perché quella cretina ha dovuto ordinare di fermarmi? Perché?
E adesso la sventurata è distesa sull'asfalto, mezzo spiaccicata, esanime. Davvero una gran brutta maniera di finire i propri giorni. Certo un po' se l'è anche voluta, eh, ma ha ricevuto una punizione non commisurata alle sue colpe, ammettiamolo.
Sento un'altra sirena approssimarsi. Una volante della polizia che accorre a verificare quanto è accaduto. Mi arresteranno? Perderò il lavoro? Ma è stato un incidente, dopo tutto, soltanto un disgraziato incidente. Devo farmi animo, non potrà certamente risultare nulla di diverso, vero? Ho inavvertitamente pigiato l'acceleratore anziché il freno e nella concitazione del momento la mia mano è scivolata dal volante, che altro può essere se non uno sfortunato incidente?
Un incidente, sì, ma io so di essere un assassino...
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