La tempesta, risaliva dal mare, montando le colline con la sua rozza grisaglia, portando un gelido vento e cascate d'acqua che spazzavano via il cielo e assediavano, con gli odori del fango, il bosco di pini ed il pascolo.
Il tuono, il lampo, le zolle e le pietre, le radici e le chiome degli alberi sfogliati risalivano dal ventre della terra come un vomito; umidi umori che arricchivano la pioggia. Ne moltiplicavano l'ira maligna e il suo nero odio che faceva fuggire impazzite le bestie, dissolvere gli uccelli dal cielo. In questo mondo, dal caldo della placenta, risalivo nuotando, per incontrare occhi che non mi avevano mai visto. Esplose un tuono, mentre con un battito di palpebre scacciavo umori di sangue ed amnios, mentre il cielo s'irrobustiva della sua forza devastante. Il tuono aveva coperto la mia voce, e al terrore di quegli occhi negai la replica, mostrando obbedienza al silenzio del fulmine e al fragore del tuono.
È un maschio disse un donna, abbandonando per un attimo la preghiera, ed altri mormorii come un rifrangersi di marea sui ciottoli della riva, fecero il giro di quelle bocche, l'un l'altro chiedendosi di fermare quell'ansia che, come vento, viaggiava insieme alla tempesta.
Quel corridoio che avevo attraversato per giungere al mondo esteriore, ora sputava la placenta e si richiudeva intorno all'utero, che irrigidendosi mi aveva scacciato. Una donna, ora, nella poca luce danzava da sola, con le mani di un uomo che le cingevano il viso e le spalle, mentre un'altra donna frugava tra le sue cosce con garze e cotone.
Ruotavo tra braccia, mentre la tempesta strappava, intorno al mio corpo lavato dal sangue, abbracci rigidi come convulsioni che mi assalivano improvvisi. Lo sciame di luce di un fulmine attraversò la finestra colpendo, come un pugno, le voci della casa che tacquero d'improvviso.
Era giugno, in piena estate, candido e coerente, ero sdraiato felice su morbide lenzuola. Felice perché udivo ondeggiare su di me l'onda di visi che odoravano d'ansia, ma anche d'amore e accoglienza.
Al sopraggiungere del silenzio che al mondo vero, quello che sostituiva con significati gli asimbolici suoni schermati dalla placenta, restituiva una visione che veniva a soffocare il sogno in cui io ero rimasto, latitante, in un sogno materno vero.
Volavano in schegge i colori dell'arcobaleno sull'ingresso del cielo. Quella donna, anche lei distesa come me, sollevava pesantemente le braccia, girando viso e corpo verso di me. Pronunciava suoni che non riuscivo a ricordare, ma erano gesti di labbra dal tono ritrovato.
Restavo a costruire la memoria dell'ovale del viso della donna, gesti femminili che cadevano come la pioggia che riprendeva, ora sottile, a tagliare il cielo e la luce; il buio si ripose ancora nelle ombre che invasero la stanza. Fui riassalito dalla giallognola luce di una lampada: lasciai svanire quella testa sorridente di donna in un'ombra, incastonata in un anello di luce.
Questo spettacolo, dissolto in un tetto di cielo dominato dalla tempesta e dal buio, sposò il mio entrare nel mondo, lasciando il mio grido trattenuto, precipitare, ora sulle cose tingendole d'un candore che sconfiggeva la sciocca prepotenza d'un temporale. Perché dovevo attendere un sorriso al buio? Spazzai via quell'insensata situazione con il pianto, la mia prima scrittura in una casa imbevuta di magia, sottolineata dall'occhio sgranato e dalla vigorosa tonia dei miei quattro arti mobili.
Vedevo quella donna orlata di luce, puntare, insieme al sorriso, il suo seno verso il mio viso.
Venni fuori, con un movimento vertiginoso, dal sistema del pianto e, rubicondo più che mai, assorbivo il liquido caldo che schizzava nella mia gola. La mia sostanza d'uomo si faceva tenere nella sua ombra. Dall'arco della mammella giungeva, come un ministro gemente il suono dell'aria che strisciava nei suoi polmoni, mentre il cuore sgocciolava un ritmo noto che sollecitò l'unica memoria certa. Il mondo, per me, aveva dondolato su quel ritmo bilanciato per nove mesi. Il dolore, per l'estraneità che m'inchiodava come Cristo; il mio corpo crocifisso a questo mondo, trovava consolazione in una verità naturale: quella donna era mia madre.
Non avrei mai più corso al buio.