Il ronzio violento del citofono li risvegliò dal torpore post coito.
Lei saltò su, come punta da uno spillone. Ben, ancora intorpidito, socchiuse appena gli occhi. Quello che vide in quelli di lei lo svegliò del tutto: vide terrore puro, come mai ne aveva visto.
- Oddio è già qui - squittì Erika con una voce così stridula da essere quasi un cigolio. Un istante dopo era già in piedi, mentre cercava di vestirsi.
- Forse potremmo provare a parlargli, alla fine è da un po' che... -
Erika smise di dibattersi cercando di infilarsi i pantaloni - in preda al panico non si era accorta che erano ancora allacciati - e lo fissò con uno sguardo allucinato: - Ma sei impazzito - quasi gridò - ma hai idea di cosa potrebbe fare? Devi andartene subito.
Ben scese dal letto ed iniziò anche lui a recuperare i propri vestiti. Erika intanto si lanciò al citofono, infilandosi la maglietta sulla soglia.
- Chi è? -
- Finalmente, chi vuoi che sia? - voce resa ancor più ruvida dalla distorsione del citofono.
Lei aprì.
Ben notò, mentre si allacciava le scarpe, che le mani gli tremavano. Cercò di convincersi che non era per niente spaventato, che la voce sentita, che saliva roca da piano terra, non lo aveva turbato.
Cazzo, sarebbe dovuto tornare solo domani. Cazzo, cazzo.
Finì di vestirsi ed uscì dalla stanza. Erika era nello stretto corridoio, vicino alla porta d'ingresso. Si girò di scatto: - Gesù, quanto ci hai messo. Ora non c'è più tempo -
Lui rimase interdetto: - Cosa vuoi dire? -
- Che lui sta salendo - quasi gridò lei in preda ad una mezza crisi isterica - non posso rischiare che ti veda uscire da qui. Devi nasconderti -
Ben rimase interdetto: - Guarda che posso ancora scendere le scale -
- NO, l'ascensore è rotto, anche lui starà salendo le scale. DEVI NASCONDERTI -
Si avventò verso di lui ed iniziò a spingerlo di nuovo verso l'interno della casa, lontano dall'ingresso, da cui stava per entrare lui, ovvero il marito di Erika.
Ben ed Erika si erano conosciuti circa sei mesi prima. O meglio, abitando nello stesso palazzo di vista si conoscevano da sempre, ma solo sei mesi prima si erano parlati più del solito buongiorno e buonasera. Fino ad allora, infatti, lui era semplicemente stato l'inquilino del terzo piano, lei quella del quinto.
La loro storia, se così può chiamarsi, era iniziata quasi per caso, da un problema alla lavatrice che Ben si era offerto di ripararle visto che il marito di lei, camionista - autotrasportatore preferiva farsi chiamare lui - era fuori città, e lo sarebbe stato ancora per un po'.
Avevano iniziato a vedersi regolarmente, aiutati dalle frequenti assenze di Tony, il marito appunto. Ma benché la sintonia e la confidenza tra loro fosse in costante aumento ad ogni incontro, c'era una cosa che Ben non era riuscito a scalfire: il folle terrore che lei aveva nei confronti di Tony.
Fin dall'inizio, quando Ben era entrato in casa sua per aiutarla con la lavatrice, aveva percepito questa cosa: di tutto poteva parlarsi, fuorché di Tony. Ben aveva accennato poche volte all'argomento, all'inizio per caso, poi incuriosito dalla sua reazione, ma vi aveva rinunciato: l'argomento Tony era tabù. L'unica cosa certa che poteva dire era che Erika era letteralmente terrorizzata da lui. Non avendone quasi mai parlato non poteva comprendere le cause di questo terrore, anche se i lividi che aveva trovato spesso su di lei gli davano una buona ragione di quella paura. Aveva anche provato a chiederle di quei segni ma lei, com'era prevedibile, aveva biascicato scuse improbabili per poi cambiare imbarazzata argomento.
Ben era addirittura sorpreso che fosse riuscita a mettere da parte il terrore che le incuteva il marito ed a lasciarsi trascinare in quella che diventava sempre più una relazione stabile.
A Ben Erika piaceva ogni giorno di più. Aveva iniziato senza alcuna pretesa, senza alcuna aspettativa, ma ogni giorno che passava si rendeva conto di desiderarla sempre di più, di volerla solo per sé.
E questo implicava il dover affrontare il terribile Tony. Ben non lo aveva mai visto, se non in qualche foto in casa. Era un uomo massiccio, con una pancia prominente ma che si intuiva solida - muscoli inguainati nel grasso - si era ritrovato a pensare e che non sembrava avere problemi a menare le mani.
Ma il panico che stava vedendo negli occhi di Erika mentre lo spingeva nel corridoio cancellò ogni sua velleità di affrontare il misterioso marito.
- Devi nasconderti, devi nasconderti - continuava a ripetere Erika.
- Sì, ma dove? - provò a farla ragionare lui.
- Non lo so, non lo so - squittì lei sull'orlo delle lacrime.
Ben pur assecondandola cercò di prendere in mano la situazione: - Nell'armadio? Nel ripostiglio? -
- No, no, potrebbe aprirli. Sotto il letto non ci stai... Gesù, quello ci ammazza -
Erano tornati quasi in fondo al corridoio: di fronte a loro la porta della camera da letto, alla loro sinistra quella della cucina. A Ben sembrava quasi di sentire Tony ansimare sulle ultime rampe di scale.
Poi ebbe un'idea: - Mi infilo nello scivolo dell'immondizia -
Lei lo fissò interdetto: - Ma ci passi? -
- Proviamo -
Ben entrò in cucina. Il sistema di scivoli per l'immondizia, che era stato costruito di recente, permetteva a tutti i condomini di buttare i sacchi in un'apertura nel muro in cucina, che attraverso un tubo li portava nelle cantine dove c'erano i cassonetti.
Ben aveva supervisionato incuriosito i lavori fatti, e più volte si era chiesto se una persona ci sarebbe potuta passare. Era uno speleologo dilettante, tante volte si era infilato in grotte e caverne anguste, sfidando la claustrofobia. Ora era giunto il momento di vedere come se la sarebbe cavata in un contesto urbano.
Lo sportello dello scivolo si apriva accanto alla porta del balcone, un quadrato di circa quaranta centimetri di lato.
Erika lo aprì: - Muoviti - gli disse, secca.
Ben rimase allibito: a parte l'iniziale stupore, che in realtà era solo chiedersi se ci sarebbe passato o meno, non si era nemmeno posta il problema se fosse sicuro o meno, se corresse il rischio di rimanere incastrato o peggio. In quel momento voleva solo liberarsi di lui, che percepiva come un peso ed un pericolo per la propria esistenza.
Ben sospirò. Finito tutto ciò avrebbe affrontato seriamente l'argomento Tony con tutti gli annessi e connessi.
- Muoviti per Dio - berciò lei, con lo sguardo che saettava dallo sportello che teneva aperto alla porta della cucina.
Ben si avvicinò. Il buco era oscuro ed emanava un odore di immondizia, ma meno intenso di quando si sarebbe aspettato.
Infilò prima una gamba, poi l'altra. Con cautela si lasciò scivolare. Il bacino passò attraverso l'apertura e lui si girò a pancia in giù. Ora sporgeva con il busto dall'apertura, come un grottesco pupazzo a molla uscito dalla scatola.
- Muoviti, muoviti - sembrava quasi che si stesse trattenendo dallo spingergli giù la testa con entrambe le mani, a costo di soffocarlo.
Soffocare, che brutta parola.
Dimenandosi un poco riuscì a scivolare ancor più all'interno. Il condotto era largo abbastanza, in pendenza verso il basso. Ora spuntavano solo le spalle.
E se rimango incastrato così? Si chiese in un lampo di terrore gelato. Il buon Tony avrebbe voluto sapere cosa ci faceva un uomo incastrato nel suo condotto dell'immondizia.
Scacciò quel pensiero, puntò le mani e si spinse ancor più giù. Questa volta sparì del tutto dentro l'apertura. Un istante dopo che la sua testa aveva passato il bordo sentì il campanello della porta.
Evidentemente Erika non l'aveva aperta. Per fortuna la casa era al quinto piano e tutte quelle rampe di scale a piedi erano lunghe da fare.
- NON MUOVERTI da qui finché non torno a prenderti io, che sarò sicura che puoi uscire - gli sibilò con voce resa stridula dal terrore, ma in cui Ben percepì una nota di ordine inappellabile e perentorio.
Erika richiuse lo sportello e si lanciò ad aprire, senza dare nemmeno un ultimo sguardo dentro il condotto.
Ben si ritrovò nell'oscurità più totale.
A quanto aveva visto durante i lavori, i condotti erano costituiti da un tratto in pendenza, lungo circa un metro e mezzo, che collegava l'apertura nella cucina con il condotto principale, più largo, che era verticale e che terminava nelle cantine.
L'idea di Ben era quella di scivolare lungo il condotto in pendenza e giungere fino a quello verticale. Da lì, puntando i piedi si sarebbe potuto calare lentamente, come alcune volte aveva fatto nelle grotte.
Oppure attendere finché Tony se ne fosse andato per uscire da dove era entrato. Ora doveva solo aspettare che gli occhi si abituassero all'oscurità.
Erika andò ad aprire.
Tony era appoggiato allo stipite della porta, ancora ansimante per le scale che aveva dovuto salire. Ma smise di sbuffare appena la vide: - Ce ne hai messo di tempo ad aprire -
Lei ovviamente non gli fece notare che si sarebbe potuto portare le chiavi. Si limitò ad uno scusa a mezza voce.
Lo precedette nel corridoio. Lui abbandonò accanto alla porta la piccola borsa che si portava quando faceva viaggi che duravano più giorni, il che accadeva piuttosto spesso.
Varcò la porta che dal corridoio dava nel piccolo salotto; era una stanza sovraccarica di arredamento e soprammobili di poco prezzo, tutti accuratamente posizionati nei loro centrini di pizzo bianco. Al centro troneggiava un'enorme televisione nera, di fronte alla quale stava una poltrona di pelle, su cui si lasciò cadere Tony, con un sospiro. Alle sue spalle un'altra porta collegava il salotto con la cucina. Pochi metri dietro lo schienale della sua poltrona preferita si nascondeva Ben; e se Tony si fosse girato avrebbe potuto vedere lo sportello dello scivolo dell'immondizia, accanto al frigorifero.
- Come mai già di ritorno? - chiese Erika in un tono che cercò di essere il più possibile casuale, ma risultò solo forzato.
Tony arrestò per un istante la ricerca del telecomando e la fissò socchiudendo gli occhi: - Non hai saputo niente? -
Erika si sentì gelare, senza sapere esattamente perché: - Cosa avrei dovuto sapere? - domandò cautamente, quasi a se stessa oltre che a lui.
Tony sospirò, come uno costretto a spiegare ovvietà ad un ritardato:- La compagnia è fallita - disse semplicemente. Poi ricominciò a cercare il telecomando.
Erika rimase interdetta. Questo proprio non se l'aspettava; così, senza pensarci, chiese: - Che compagnia? Quella di trasporti? -
Tony si fermò di nuovo, guardandola allibito, con un'espressione che assumeva quando lei diceva qualcosa che a suo parere era estremamente stupido; di solito il seguito non era piacevole.
- Esatto, proprio la compagnia di trasporti per la quale lavoravo -
- Ecco perché sei tornato prima -
- Esatto. Avrei dovuto fare altre consegne e tornare domani, ma ho scoperto che non avevano i soldi per pagarci, quei vermi. E col cazzo che lavoriamo gratis. Quindi abbiamo deciso di tornarcene tutti a casa... ora se vuoi lasciarmi in pace... sono piuttosto stanco, come puoi intuire -
Erika raccolse il coraggio a due mani e domandò in un soffio: - Ma troverai un altro lavoro? -
In realtà il significato della domanda era: per quanto ancora rimarrai a casa? La sua mente continuava a correre a Ben nel condotto. Aveva il terrore che decidesse di uscire, o che si facesse sentire in qualche modo o che facesse qualche sciocchezza del genere. La sua vita era nelle mani di quell'idiota nel condotto.
Si aspettava che Tony desse fuori da matto e le urlasse contro, che non erano affari suoi, magari sottolineando il concetto con qualche schiaffo, ma aveva finalmente trovato il telecomando e quindi le rispose con voce assente, mentre faceva scorrere i canali: - Non lo so... Bob mi ha detto che forse conosce qualcuno... vedrò nei prossimi giorni -
Erika si ritenne soddisfatta - e fortunata - di quella risposta e batté in ritirata.
Fece una rapida ispezione della casa, sempre con l'orecchio teso al salotto ed alla cucina, per vedere se c'era qualche traccia in giro della presenza di Ben, ma non ne trovò.
Oramai erano quasi le cinque, ed era abbastanza sicura che prima di cena Tony non si sarebbe scollato dalla tv, la prima cosa che aveva comprato appena aveva avuto abbastanza soldi, pagandola a rate. Lei non poteva nemmeno avvicinarsi a quella tv. Per lei c'era quella in cucina, senza programmi a pagamento ovviamente.
Solo una volta aveva provato ad usarla, ma aveva premuto qualche tasto che aveva fatto saltare la sintonia dei canali. Quando Tony era tornato aveva fatto in modo che le passasse qualsiasi ulteriore velleità di toccare l'elettrodomestico.
Dal suo fetido nascondiglio Ben sentì l'arrivo di Tony. Sentì che parlava con Erika, ma non riuscì a distinguere le parole.
Udì qualche movimento, poi un rumore sommesso e continuo che poteva essere solo quello della tv. Sapeva che quello era l'unico interesse di Tony quando era a casa. Erika gliene aveva accennato la volta in cui aveva incautamente provato ad accenderla. Gli aveva praticamente strappato il telecomando dalle mani, dicendo che solo Tony la usava e che lei non la toccava per paura di romperla. Ben aveva provato ad obiettare all'assurdità di quel timore, e lei aveva provato a giustificarsi, cambiando in realtà discorso narrandogli di come suo marito passasse tutto il suo tempo sulla sua poltrona e di come avesse il più completo pacchetto pay tv disponibile. Pensò quindi che Tony fosse sufficientemente distratto da non fare caso a qualche piccolo rumore che provenisse dallo scivolo in cui era nascosto lui.
Ora che i suoi occhi si erano abituati all'oscurità riusciva a scorgere tre segmenti di luce che delimitavano lo sportello chiuso poco sopra di lui. Volendo avrebbe potuto spingerlo per aprirlo, ma non era il caso. In fondo lo divertiva quasi quella situazione: farla in barba al rozzo Tony, passandogli praticamente sotto il naso, grazie alle sue abilità di speleologo. Ora però era il caso di muoversi. L'aria iniziava a scarseggiare e l'odore non era certo dei migliori.
Con cautela poggiò i palmi sulle pareti del tubo e si sospinse lentamente verso il basso. Dopo che era sceso di circa una trentina di centimetri sentì che i piedi e poi le gambe non poggiavano sui nulla. La parte posteriore del suo corpo era sbucata nel tubo principale.
Quello che successe dopo però non se lo aspettava: i suoi piedi toccarono immediatamente la parete del condotto verticale. Evidentemente quest'ultimo era molto più stretto di quanto si aspettasse, o quanto meno il condotto in cui era lui si congiungeva con quello verticale con un angolo così stretto da impedirgli di passare.
Si impose la calma, ma percepì subito la morsa del panico stringergli la gola. Improvvisamente gli sembrò che l'aria nel condotto si fosse ulteriormente rarefatta e che lo sportello dal quale era entrato, che era solo a circa un metro dai suoi occhi, fosse lontano chilometri.
Fece un paio di profondi respiri di aria fetida e cercò di rallentare le pulsazioni. Gli sembrava quasi che il cuore sbattesse direttamente sul metallo.
Mosse lentamente le gambe, cercando di tastare con i piedi il condotto verticale, per capire quanto largo fosse.
La ricostruzione mentale che ne fece non fu consolante: il condotto era grande appena dal suo ginocchio - che sfiorava il bordo dello scivolo in cui era lui - alla punta della sua scarpa, che toccava la parete verticale del tubo. Era quindi grande più o meno come quello in cui si trovava, con la differenza che per passare in esso lui doveva piegarsi, cosa che non era in grado di fare dalla posizione in cui era.
Altro panico, come qualche volta aveva provato durante una discesa speleologica, o durante un'immersione subacquea in una grotta. Quel panico che ti fa fare pensieri irrazionali come non uscirò mai da qui o mi manca l'aria anche se non è vero o voglio uscire subito da qui anche se farlo sarebbe più pericoloso che rimanere fermi.
Il puzzo che saliva dal condotto divenne insopportabile, ed appena gli venne in mente che avrebbe potuto fargli lacrimare gli occhi, puntualmente gli occhi iniziarono a bruciargli. Si passò una mano sulle guance per asciugarsi le lacrime, ma immediatamente si bloccò, pensando che le mani avevano strisciato lungo tutto il condotto in cui normalmente passava la spazzatura.
Spazzatura la parola gli fece venire in mente sacchi fetidi e bagnati, colanti disgustosi viscidi umori, pieni di bucce d'arancia, rimasugli di verdura e frattaglie di pesce.
Si morse il labbro finché non recuperò il controllo, finché non fu sicuro che un istante di più di pressione glielo avrebbe tranciato di netto.
Si impose di analizzare la situazione. Era ovvio che più giù non poteva scendere: non poteva passare nel condotto principale. La sua unica speranza era risalire. Ma cosa lo attendeva di sopra?
Tony.
Non conosceva Tony, non lo aveva mai visto se non in una foto in casa e forse qualche volta al bar del quartiere, ma il terrore puro che aveva visto negli occhi di Erika quando lui aveva suonato - quanto tempo prima? Un minuto, un'ora, non sapeva dirlo con precisione. Gli sembravano fossero passati secoli da quando era nel letto con lei - non lo aveva lasciato indifferente come cercava di convincersi. Era ovvio che lei era terrorizzata da suo marito.
Provò a pensare che il fatto che lei fosse terrorizzata non fosse una buona ragione per esserlo anche lui: in fondo era facile picchiare una donna, ma da pari a pari era tutta un'altra cosa.
Poi pensò meglio ai valori in campo: nell'angolo destro, in calzoncini blu, Ben, lo sfidante. Settanta chili scarsi, insegnante di liceo, appassionato di speleologia e minerali, nessun incontro all'attivo dai tempi delle elementari (ed anche allora non era certo un avversario degno di questo nome).
Nell'angolo opposto, in calzoncini rossi il campione, Tony: centoventi chili abbondanti, camionista con esperienza di meccanico di camion, decine di incontri all'attivo, almeno uno a settimana secondo le voci, quasi tutti vinti per K. O., nessuna remora per i colpi bassi e nell'utilizzo di armi improprie, in particolare la chiave inglese.
Forse lo scivolo per il momento era più sicuro.
In realtà, anche se non aveva mai incontrato Tony, ne aveva spesso sentito parlare.
Il bar del quartiere non era un posto che frequentava volentieri, ma faceva un buon caffè e spesso ci capitava.
Si trovava nella piazza circondata dai palazzi di edilizia popolare periferica, a pochi passi da dove abitavano tutti e tre.
Vi si trovavano i classici avventori del bar di periferia. Oltre agli anziani che discutevano del tempo buttando giù un bianchino dopo l'altro, quelli che discutevano di sport con il giornale aperto sul frigo dei gelati, i due o tre maniaci del videopoker che inconsapevoli di avere un serio problema, o forse proprio perché ne erano consapevoli, non parlavano mai con nessuno, c'era il variegato gruppo dei lavoratori: operai, meccanici, camionisti, il salumiere, il barbiere... tutta gente che la madre di Ben avrebbe definito sinteticamente un branco di poveracci. Ben non era di quel quartiere periferico. Vi si era trasferito perché la cattedra che gli era stata assegnata - la prima della sua carriera - era nell'istituto tecnico locale. Aveva quindi affittato una casa lì.
Tony faceva dunque parte del gruppo dei poveracci. Tutta gente normale, a parte qualche testa calda sempre pronta al menare le mani anche per futili motivi, soprattutto dopo qualche birra di troppo. E Tony faceva parte anche di questo sottoinsieme, anzi Tony era la testa calda.
Più volte aveva sentito raccontare di come aveva sistemato questo o quello, di come aveva minacciato quell'altro al punto che adesso la vittima si scappellava ogni volta che lo vedeva e cose simili. Le prime volte aveva ascoltato quelle conversazioni divertito, come si trattasse di folklore locale poi, da quando aveva iniziato a frequentare Erika, lo aveva fatto perché, seppur indirettamente, lo riguardavano, anche se sperava che il tutto rimanesse indiretto.
A ripensarci la cosa che lo aveva colpito di più era chi raccontava quelle storie. Fosse stato lo stesso Tony a raccontarle, avrebbe potuto liquidarle come sbruffonate, cose dette per farsi grosso davanti a quella platea di poveracci; ma il fatto era che quelle cose non le raccontava lui, le raccontavano i suoi amici, e mai in sua presenza, con un tono non tanto di ammirazione, quanto di malcelato timore. Quello che emergeva era che quando Tony perdeva la testa, cosa alquanto semplice da far accadere, non rispondeva più delle proprie azioni.
Merda. Non voleva diventare protagonista di uno dei racconti del bar della piazzetta.
Se era vera anche solo la metà di quello che era successo ad uno che aveva tamponato in macchina Tony, cosa sarebbe successo a quello che se la faceva con sua moglie?
No, la cosa migliore era aspettare. Prima o poi Tony sarebbe uscito di casa, che diamine. A quel punto sarebbe sgattaiolato fuori, esattamente come avrebbe dovuto fare quella mattina.
Decise quindi di risalire, di riavvicinarsi a quei tre lati di quadrato di luce che indicavano la sua unica via di fuga.
Poggiò i palmi sul condotto, il più vicino al corpo, e provò a spingere.
Non successe nulla, il suo corpo non si mosse.
Era incastrato.
Erika passò il resto del pomeriggio in camera, alternando pianti sommessi a disperazione quasi incontrollabile. Un paio di volte, sopraffatta dal terrore ed incapace di reggere l'angoscia, fu addirittura sul punto di andare di là e confessare tutto a Tony, sperando nella sua clemenza per la sua spontanea rivelazione. Solo all'ultimo istante, pensando alle conseguenze, si era fermata. Aveva anche provato a concepire una storia plausibile per giustificare la presenza di Ben nel condotto, ma nulla le era venuto in mente. Tony non era uno stupido, o almeno non così tanto, e del resto non c'era altra spiegazione accettabile che la realtà a quella situazione grottesca.
Nei loro cinque anni di matrimonio Erika aveva imparato a temere Tony, come aveva temuto suo padre. Ed il timore si era trasformato in sacro terrore, esattamente come per suo padre, prima che un cancro se lo portasse via.
RAPPORTO COL MARITO DAL PUNTO DI VISTA DI LEI
Un'onda di panico gli serrò la gola, solo all'ultimo istante represse l'istinto di gridare. Le mani scivolavano lungo il condotto, incapaci di fare presa a sufficienza da farlo avanzare lungo il tubo di metallo. Il suo bacino era stretto dalla circonferenza del tubo come in una morsa da cui non era in grado di liberarsi. I suoi piedi invece fluttuavano nel condotto principale, troppo lontani da una superficie su cui puntarsi per spingere in avanti.
Tese le mani in avanti, verso quel perimetro di luce che rappresentava la sua unica via di salvezza. Tese le braccia il più possibile, stendendo tutti i muscoli, ma riuscì solo ad arrivare a pochi centimetri dal coperchio del condotto. Non abbastanza per spingerlo o per fare presa sul bordo dell'apertura. Provò di nuovo, si tese ancor di più; ogni fibra del suo corpo spingeva verso quello sportello, i muscoli erano tesi come cavi sul punto di spezzarsi: gli sembrava di sentire ogni singolo filamento vicino alla rottura, le spalle gli facevano male, ma non servì a nulla: i suoi polpastrelli sfiorarono il metallo del coperchio, gli sembrò quasi di sentire il freddo della superficie, ma non era abbastanza per uscire da lì.
Da solo non era in grado di uscire da lì.
Iniziò a respirare profondamente, tentando di controllare i battiti del cuore, tentando di controllare i suoi pensieri che gli evocavano orribili idee di claustrofobia e soffocamento.
Cercò di riflettere. Appurato che da solo non era in grado di risalire, era da vedere chi avrebbe potuto tirarlo fuori.
Se avesse gridato ora, Tony avrebbe sentito. Se non era in grado di affrontarlo in condizioni normali figuriamoci in quel momento. Non era nemmeno sicuro che Tony lo avrebbe tirato fuori. Se era vero la metà di quello che aveva sentito al bar, sarebbe stato capacissimo di lasciarlo lì mentre escogitava cosa fare di lui; e prima di farla pagare a lui, di sicuro l'avrebbe fatta pagare ad Erika. Fu soprattutto quel pensiero a fermarlo: se avesse gridato, se avesse chiesto aiuto, sarebbe stato costretto ad assistere impotente al massacro di Erika.
No, doveva aspettare. Prima o poi Tony sarebbe uscito di casa. O si sarebbe addormentato davanti alla tv. Allora Erika sarebbe venuta lì, avrebbe aperto lo sportello, lo avrebbe afferrato e lo avrebbe tirato fuori. Poi se ne sarebbe andato finalmente a casa.
Dio, ci sarebbe voluto l'acido muriatico per levarli di dosso quell'odore.
Era solo questione di tempo. Di aspettare e di avere pazienza. In fondo quel condotto non era tanto peggio di grotte in cui era stato, dove anzi c'era molta più umidità ed animali strani che si muovevano nel buio. Dalle fessure dello sportello e da sotto di lui passava senza dubbio abbastanza aria, non era in immediato pericolo di vita. Questo pensiero lo rasserenò e si dispose ad attendere nella sua tana di metallo.
Erika uscì dalla camera solo verso sera, appena prima dell'ora di cena, in modo che Tony non avesse di che lamentarsi. Da tempo aveva imparato a prevenire i suoi desideri che, in fondo, erano piuttosto semplici.
Per le otto e mezza la cena era pronta e Tony trovò il tempo di staccarsi dalla tv e sedersi alla tavola già apparecchiata, a pochi metri dallo sportello dello scivolo dell'immondizia.
Erika non riusciva quasi a guardarlo in faccia. Durante tutto il pomeriggio aveva fatto in modo di non vederlo - cosa quanto mai facile visto che non si era alzato dalla poltrona se non per andare in bagno - ma ora che ce lo aveva di fronte era terrorizzata, quasi che lui potesse leggerle in faccia quello che aveva fatto. Mentre Tony si abbuffava, lei riuscì solo a piluccare un po' di pane, desiderosa solo che lui se ne tornasse davanti alla sua tv e poi andasse a dormire.
Non sapeva quanto tempo fosse passato. Si era accorto che del tempo era trascorso solo perché adesso filtrava molta meno luce dall'apertura. Era sera. Ed anche ora di cena, a giudicare dal vuoto allo stomaco che provava. Sentiva rumore di posate e piatti, evidentemente stavano mangiando. Il famigerato Tony era a pochi metri da lui.
Non sentì una parola durante tutta la cena, solo rumore di stoviglie.
E attese ancora, sperando che Tony si saziasse in fretta e se ne andasse a dormire, così che Erika potesse tirarlo fuori da lì.
Tony se ne tornò davanti al suo televisore appena finì di mangiare, lasciando alla moglie l'incombenza di sparecchiare.
Mentre si occupava della cucina, Erika continuava a lanciare occhiate allo sportello accanto al frigo. Doveva assolutamente tirarlo fuori da lì. Era già un miracolo che non avesse deciso di uscirsene per i fatti suoi, facendosi scoprire da Tony; o che non si fosse messo ad urlare. Appena Tony si fosse addormentato lo avrebbe fatto uscire, e quell'incubo sarebbe finito. Non voleva più vederlo, non voleva più avere a che fare con Ben, che l'aveva messa in quella situazione. Mentre scuoteva la tovaglia lo maledisse silenziosamente, cercando di trattenere le lacrime: maledetto Ben, è tutta colpa tua. Non avrebbe mai dovuto cedere alle sue lusinghe, alle sue storie sul ti meriti di più, non può trattarti così; vi aveva creduto, ed ecco il risultato. Ora non voleva più vederlo. Era quasi tentata di lasciarlo lì, se non fosse che era pericoloso, così avrebbe imparato a coinvolgerla in certe cose.
Sì, lo avrebbe fatto uscire, lo avrebbe accompagnato alla porta e non l'avrebbe più rivisto. Era finita, non voleva più avere a che fare con lui. Se solo avesse deciso tutto questo il giorno prima.
Un altro attacco di pianto, soffocato appena in tempo. Le venne voglia di aprire lo sportello per dire a Ben di starsene buono, che lo avrebbe tirato fuori, e che era tutta colpa sua e che non voleva più vederlo; se non fosse stato pericoloso glielo avrebbe gridato in faccia: è tutta colpa tua. Lanciò uno sguardo alla nuca di Tony, che spuntava dalla poltrona davanti alla tv. Era immobile, forse si era già addormentato. Fece un passo verso lo sportello. Guardò di nuovo la nuca di Tony.
Posò la mano sulla maniglia. Era fredda, gelida quasi. Tony era sempre immobile.
Senza staccare gli occhi dalla poltrona del marito iniziò a tirare lentamente lo sportello, piano piano, millimetro per millimetro.
Ben si ridestò dal suo torpore. In quel condotto iniziava a fare dannatamente caldo. In più non beveva da quella mattina - aveva saltato il pranzo per andare da Erika direttamente da scuola - e solo in quel momento realizzava che la sua gola e la sua bocca erano riarse.
Gli sembrò di vedere la lama di luce intorno allo sportello allargarsi, come se qualcuno lo stesse aprendo. Ma era una cosa così lenta che non ne era sicuro. Strinse gli occhi cercando di vedere meglio.
Erika riuscì a distogliere gli occhi da Tony ed a guardare per un istante lo sportello. Lo aveva aperto di appena un dito, eppure le sembrava di essere lì da ore. Senza osare aprirlo di più - le sembrava cigolasse - cercò di guardare dentro. Era troppo buio. Vide solo nero. Come Ben, strinse anche lei gli occhi cercando di vedere meglio.
Niente.
Improvvisamente sentì lo scricchiolio della poltrona del salotto che gemeva sotto il peso di Tony. Le sembrò il cuore esplodesse. D'istinto chiuse di scatto lo sportello con quello che le sembrò un fragore incredibile e, a testa bassa e senza osare guardare verso il salotto, si girò verso il lavandino, fingendo di sistemare qualcosa.
Sentì i passi di Tony avvicinarsi. In un attimo era accanto a lei. Erika lo guardò sottecchi, continuando a fingere di sciacquare un cucchiaio nel lavandino.
Tony la ignorò e puntò deciso verso lo sportello dello scivolo dell'immondizia. Erika si sentì mancare. Evidentemente l'aveva sentita o vista armeggiare con quel coso, ed adesso stava andando a controllare. Era finita. Poteva solo gettarsi in ginocchio e chiedergli di perdonarla. Si aggrappò al bordo del lavandino perché le gambe molli non la reggevano più.
Tony fece un altro passo verso lo sportello, poi aprì il frigorifero lì accanto.
Erika si sentì invadere da un tale sollievo che le gambe le diventarono ancora più molli. Cercò di ricomporsi; prese uno strofinaccio ed iniziò ad asciugare il cucchiaio, con una cura che mai aveva usato. Tony afferrò una birra, richiuse il frigo, la ignorò e se ne tornò in salotto.
Per quella sera era troppo. Non avrebbe fatto altri tentativi di comunicare con Ben finché non fosse stata più che sicura che Tony dormisse. Se non avesse avuto il timore che Ben uscisse di sua iniziativa o si mettesse ad urlare avrebbe anche atteso finché Tony non se ne fosse uscito di casa per andare al bar o da qualche altra parte.
Appena finito di sparecchiare e pulire la cucina se ne andò a letto. Lo comunicò a Tony, che rispose con un mezzo grugnito senza nemmeno voltarsi. Non era infrequente che si addormentasse davanti alla tv e che solo molto tardi si trascinasse fino al letto, o che addirittura passasse tutta la notte a dormire lì.
Erika non sapeva cosa sperare: se si fosse addormentato davanti alla tv per lei sarebbe stato più facile sgusciare fuori dalla camera da letto, ma poi lui sarebbe stato dannatamente vicino allo scivolo dell'immondizia. Tony aveva il sonno pesante, ma sarebbe stato un rischio enorme.
Se invece fosse venuto a dormire in camera... Erika non sapeva se avrebbe trovato il coraggio di fare un qualunque movimento con lui lì accanto.
Il tutto dando per scontato che Ben non facesse idiozie, che se ne stesse buono buono nel condotto, senza cercare di uscire o, ancor peggio gridare. Dio come lo odiava, come lo odiava. Gli sembrava un'eternità da che quella situazione si era creata. Ore infinite con quella spada di Damocle pendente sulla testa; ed il suo destino era nelle mani di quell'idiota.
Questi pensieri, ovviamente, la tennero sveglia.
Era nel letto immobile, con gli occhi spalancati da non sapeva quante ore, quando sentì passi in corridoio e la porta della camera aprirsi. Chiuse gli occhi e pregò che Tony si limitasse a buttarsi sul letto ed addormentarsi immediatamente. Così fu. Sentì il letto gemere sotto il suo peso ed il materasso inclinarsi verso di lui, dopo poco il suo respiro pesante e regolare rotolare nell'oscurità.
Ed Erika attese.
Attese per quanto non lo sapeva, ma attese, cercando di trovare il coraggio, cercando di convincersi che sarebbe stato facile: sarebbe scivolata fuori dal letto, avrebbe aperto lo sportello dello scivolo, avrebbe detto a Ben che poteva uscire, lo avrebbe accompagnato fuori e non lo avrebbe rivisto più. Tutto si sarebbe sistemato. Ma lo doveva fare subito.
Anzi, magari se era fortunata Ben se ne era già uscito fuori. Magari il condotto era già vuoto e lei avrebbe dovuto solo constatare ciò, per poi tornarsene serenamente a dormire.
Poi, silenziosamente, scivolò fuori dal letto. Si muoveva con lentezza studiata, trattenendo il fiato. Appena fu in piedi si girò verso il letto, dove il corpaccione di Tony formava una sagoma indistinta e minacciosa coperta dal lenzuolo che si alzava ed abbassava ritmicamente con il respiro.
Solo sei passi fino alla porta della camera. Sei lunghi passi silenziosi, a piedi nudi. Ogni volta fermandosi per accertarsi che Tony non si fosse mosso, che continuasse a giacere nel suo sonno di pietra.
Oltrepassò la soglia della camera da letto e fece un breve respiro, il primo da quando si era alzata dal letto. Altri cinque passi e fu sulla porta della cucina.
Le sembrò di percepire un rumore, si bloccò gelata e tese l'orecchio, timorosa anche solo di girare la testa verso la porta. Dalla camera da letto proveniva uno scricchiolio. Sentì le gambe farsi molli e si morse il labbro cercando di trattenersi. Non voleva nemmeno appoggiarsi al muro, per paura di fare rumore.
Il cigolio cessò. Era solo Tony che si girava nel letto, in preda a chissà quale sogno.
Il pavimento gelido della cucina le mandò un brivido dalle piante dei piedi nude. Non osò accendere la luce, ovviamente.
Coraggio, quattro passi e ci sei si ritrovò a pensare stupidamente. Mai in vita sua avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tanto difficile attraversare una stanza.
Ma questa è l'ultima che mi combina, quell'idiota; il moto di stizza che seguì a questa affermazione distolse per un secondo la su attenzione da quello che stava facendo e le permise di arrivare allo sportello dello scivolo.
Meglio sbrigarsi. La sua voce interiore era cresciuta molto nelle ultime ore. Non sapeva se rammaricarsi - poteva essere visto come il primo passo verso la follia - od esserne contenta - in fondo era pur sempre una voce amica.
Afferrò il pomello dello sportello. Gelido.
Iniziò a girarlo.
Non successe nulla.
Non sapeva quanto tempo fosse passato. Probabilmente si era assopito, ma non ne era sicuro. Per il torpore la parte del suo corpo dalla vita in giù era terra di nessuno. Non sapeva più nemmeno se aveva le gambe. Per un instante fu addirittura assalito dal timore che per un qualche strano motivo una paralisi potesse averlo colpito. Magari un trombo dovuto alla forzata immobilità gli aveva ostruito un'arteria e lentamente le sue gambe stavano morendo. Nella sua mente assonnata questo scenario gli apparve improvvisamente maledettamente plausibile e terrificante; di nuovo gli si serrò la gola e l'aria, sempre più rancida e rarefatta, gli sembrò all'improvviso venire risucchiata da quell'ultimo strozzato respiro che a stento riuscì a trarre dalla sua gola ridotta ad un pertugio dal panico. Il buio non lo aiutava di certo. Era come essere in un non lugo: poteva essere ovunque, ma anche da nessuna parte. Un nero così non lo aveva mai vissuto. Nemmeno nelle notti senza luna, nemmeno nelle grotte in cui era stato. Un buio così buio da sembrare inconcepibile: siamo così abituati ad avere almeno una fonte di lucecome punto di riferimento, uno spiraglio, per quanto esile, che il buio totale ci è totlamente estraneo. Così abituati a contare sulla vista, l'oscurità vera ci è sconosciuta: ce la lasciamo dietro quando chiudiamo la porta di una stanza, quando usciamo dalla cantina, dal garage, ma non siamo abituati ad esserci dentro. L'occhio vaga in quell'infinito nero alla ricerca di un punto di riferimento senza trovarlo, inutilmente. Non abbiamo idea di cosa ci sia intorno, per quanto ne sappiamo potrebbe esserci qualcun altro, e noi non ce ne accorgeremmo. Magari il suo viso è a pochi centimetri dal nostro e non lo sappiamo.
Per l'ennesima volta si impose di stare calmo, ed in qualche modo riuscì a rallentare i battiti del suo cuore, a respirare di nuovo ed a muovere un poco le caviglie che, intorpidite, ripresero a funzionare come due vecchi ingranaggi arruginiti resi artritici dalla lunga immobilità.
Gli sembrò di sentire un rumore, quasi un soffio. Ma non ci voleva contare. Troppe volte, quella notte, nel suo ossessionato dormiveglia, si era illuso che ci fosse un suono, un rumore, che Erika stesse venendo a tirarlo fuori. In quella fase di equilibrio tra il profondo sonno e la veglia, in cui spesso pensieri e realtà si fondono, più volte era stato sicuro che lo sportello si stesse aprendo; più volte si era convito che lei fosse finalmente venuta tirarlo fuori. Aveva addirittura fatto un mezzo sogno, di quelli che ti lasciano una impressione confusa quando ne esci; aveva sognato che lo liberavano. Ma a tirarlo fuori, assurdamente, non era Erika, ma Tony, che lo fissava con il suo faccione pericolosamente inespressivo ed inintelleggibile, pericolosamente ottuso, incorniciato dagli stipiti dello sportello.
Sì, era per forza un sogno.
La realtà, la sua realtà costituita da quei pochi centimetri di metallo che lo circondavano era solo buio e silenzio.
Per l'ennesima volta il tempo non assunse alcun significato, e dopo secondi, minuti od ore gli sembrò di sentire un rumore. Non sapeva quanto fosse passato da quando si era svegliato, se era rimasto sveglio o se si era assopito di nuovo. Non lo sapeva. Non sapeva più nulla.
Erika si rese conto che non stava tirando la maniglia. La stava solo stringendo spasmodicamente, ma non la stava tirando. Si guardò un'altra volta intorno ed inziò a fare forza.
Lo fece così lentamente che non sapeva dire se lo sportello si stesse aprendo davvero o meno. I suoi occhi si erano abituati all'oscurità, ma non c'era abbastanza luce per vedere se davvero lo stesse aprendo.
Improvvisamente si arrestò, assalita dall'improvviso dubbio che Tony si fosse alzato dal letto. Senza osare staccare la mano dalla maniglia, come se un suo movimento potesse farla scoprire, rimase immobile, con il cuore che le batteva contro le costole, dopo che si era fermato per qualche istante al sentire il rumore.
No, niente, nessun rumore.
Maledetto, maledetto Ben. Era tutta colpa sua. Era colpa sua se era in quella situazione, se era lì terrorizzata, in balia di essere scoperta da Tony. Era tutta colpa sua. Ma l'avrebbe pagata. Oh, se l'avrebbe pagata. Non si mettono le persone in pericolo così. Lui era lì al sicuro nel tubo, ma con Tony era lei a doverci avere a che fare.
In preda alla rabbia tirò con più decisione lo sportello e lo aprì di un apio di dita.
Poi d'improvviso si accese la luce.
No, il rumore c'era davvero, non se lo stava sognando. Alla fine aveva senso: di sicuro era notte. Forse Erika aveva trovato il coraggio di venire a tirarlo fuori finalmente. Tony dormiva in camera sua, lei poteva tirarlo fuori e quell'incubo sarebbe finito. Se ne sarebbe tornato a casa, nel suo letto comodo, morbido e pulito.
E addio Erika. Anche se suona come un trito luogo comune che in certe situazioni in pochi minuti puoi conoscere di una persona molto più di quanto potresti conoscerla in anni di vita di routine, in quelle ultime ore quello che Ben aveva visto di Erika non gli era piaciuto per niente. La sua unica preoccupazione era che Tony la scoprisse, non che lui era intrappolato lì dentro.
All'improvviso una lama di luce penetrò dallo sportello: qualcuno aveva acceso la luce.
- Cosa ci fai in piedi? - la voce di Tony, per quanto impastata di sonno, gli gelò il sangue.
Ora era davvero fottuto
Il terrore puro è qualcosa di indescrivibile. E fu quello che provò Erika in quel momento: un misto di reazioni fisiche e mentali; il cuore che si ferma, le gambe che divengono molli, la mente che si annebbia e non riesce ad afferrare un pensiero completo.
Tony era dietro di lei. Erika non osava girarsi, ma lo poteva ben immaginare: massiccio escarmigliato sulla porta della cucina.
Si è accorto di qualcosa? Forse è meglio confessare e dirgli tutto. Qualsiasi cosa è meglio di questa tortura, di questa incertezza. Magari mi perdonerà.
Ma perché si è alzato? L'ho svegliato? Allora sarà ancor più arrabbiato.
Maledetto Ben, maledetto Ben.
- Cosa stai facendo? - chiese di nuovo Tony, questa volta un po' meno impastato dal sonno.
Erika riuscì a reagire; con una naturalezza che la sorprese fece scivolare la mano dalla maniglia dello sportello del tunnel dell'immondizia a quella del frigorifero: - Prendevo un bicchiere d'acqua - disse senza osare voltarsi, sperando che lo stare di spalle dissimulasse il terrore nella sua voce.
- E lo prendi al buio? -
- Non volevo svegliarti - fu lesta a rispondere mentre afferrava la bottiglia con due mani perché con una sola aveva paura di farla cadere per il tremito che le pervadeva il corpo.
- Versane uno anche a me -
Ovviamente obbediente Erika eseguì. Afferrò due bicchieri dalla credenza, li poggiò con troppo rumore sul tavolo - Tony le lanciò un'occhiataccia - e li riempì.
Tony ingollò il suo in un fiato, lei bevve il suo, o meglio, si rese conto di averlo in mano, solo quando il marito la fissò con aria interrogativa. Si forzò a bere, facendo passare l'acqua che le sembrò gelata e le diede ulteriori brividi lungo la gola serrata.
Tony abbandonò il bicchiere sul tavolo e si avviò verso la camera da letto, senza dire altro. Erika per un riflesso condizionato lo prese e lo spostò nel lavello. Se lo avesse trovato lì il giorno dopo suo marito probabilmente si sarebbe lamentato, ma del resto era a lei che toccava tenere in ordine la casa, ed era un compito che assolveva di buon grado.
Mentre si girava lanciò un ultimo sguardo allo sportello; per un istante pensò di aprirlo di nuovo, ma sapeva di stare solo considerando l'idea, che non lo avrebbe mai fatto. Il suo cuore non aveva ancora rallentato i battiti, le sue nocche erano ancora bianche da quanto aveva stretto il bicchiere per il terrore mentre Tony era lì.
Questa volta era stata fortunata. Ci era mancato poco, molto poco, che Tony la scoprisse. E se fosse successo... non voleva nemmeno pensarci. Era uno scenario troppo orribile, ed al contempo ancor più terrificante perché così vicino al realizzarsi ogni istante.
Maledetto Ben, maledetto Ben, è solo colpa tua. Spero solo non ti salti in mente di metterti ad urlare. In un modo o nell'altro domani ti libererò, anzi, mi libererò di te, e tuto questo finirà. È solo colpa tua.
Per un istante la rabbia le salì tanto che fu quasi tentata di aprire lo sportello e gridarglielo in faccia; gridare in faccia a quel maledetto che era solo colpa sua, che non si meritava tutto questo.
- Cosa fai ancora in cucina? - la voce potente di Tony, non molto smorzata dal sonno, la raggiunse in cucina facendola sobbalzare.
Maledizione, perché non sono andata subito in camera. Maledetto Ben, che tu sia maledetto. Oramai lo ripeteva come un mantra: maledetto, che tu sia maledetto.
La rabbia nei confronti di Ben era l'unico sentimento che si alternava al terrore di essere scoperta.
- Arrivo - corse fuori dalla cucina, obbediente. Spense la luce e a tentoni, più in fretta che potè, rischiando di inciampare in corridoio, tornò in camera da letto.
Senza dire nulla si infilò sotto le coperte e si rannicchiò su un fianco, in posizione fetale.
Dopo qualche secondo - minuto, ora? - il russare regolare di Tony le annunciò che dormiva profondamente.
Erika iniziò a tremare. Un tremito potente ed incontrollato. Il suo corpo, raggomitolato sotto il lenzuolo, era percorso da scosse violente; quasi in preda ad una crisi epilettica, non riusciva a fermarsi; ma nemmeno era sicura di volere.
Silenziose lacrime le colarono dalle guance; appena un tremito le fece spostare la testa sentì il tessuto bagnato del cuscino sotto la pelle.
Maledetto Ben, che tu sia maledetto. È solo colpa tua, solo colpa tua. Ma me la pagherai, o, se me la pagherai. Guarda in che situazione sono, in che situazione mi hai messo. Non potevi lasciarmi in pace? Vivevo così bene prima di incontrarti; andava tutto così bene. Ma quando uscirai da lì, se non sarà Tony a farti qualcosa, ci penserò io. Stai sicuro che non la passerai liscia, non pensare di potertene uscire dal tuo nascondiglio e tornartene a casa tranquillo, oh, scordatelo. Nel dormiveglia, ancora scossa dai tremiti che andavano perdendo di intensità, pensò che forse valeva la pena dire tutto a Tony. Certo, ne avrebbe pagate le conseguenze, e lei sola sapeva quanto queste conseguenze potevano essere gravi e dolorose - probabilmente questa volta la scusa di essere caduta dalle scale o scivolata sul pavimento del bagno non avrebbe convinto i medici del pronto soccorso - ma almeno avrebbe potuto farla pagare come si deve a Ben. Di sicuro Tony gli avrebbe dato il fatto suo, molto più di quanto avrebbe potuto fare lei.
Ancora piangendo, si addormentò.
Dal suo nascondiglio Ben aveva più o meno capito quello che era successo; ed aveva trattenuto il fiato. L'entrata in scena di Tony era qualcosa che gli aveva gelato il sangue. Improvvisamente gli erano tornati in mente tutti i racconti che aveva sentito al bar, la violenza ottusa e senza remore di Tony. Aveva smesso di respirare, tendendo l'orecchio a quello che succedeva nella cucina timoroso che le pulsazioni, che gli rimbombavano nelle orecchie, potessero essere sentite da fuori.
Da un momento all'altro si aspettava di sentire un urlo belluino di Tony - seguito probabilmente dallo schiocco di uno schiaffo ad Erika - per poi assistere allo spalancamento dello sportello e dalla comparizione dell'enorme braccio peloso di Tony che si sarebbe infilato nel tubo come un tentacolo, nel tentativo di afferrarlo. E lui avrebbe potuto fare ben poco.
Poi però non era successo nulla di tutto ciò. Si erano detti qualche parola, poi se ne erano andati, spegnendo la luce e lasciandolo lì.
Ben provò una strana sensazione, come di delusione. Oramai era pronto e rassegnato ad affrontare Tony; se lo aspettava. Almeno sarebbe uscito da lì. Forse non sarebbe stato un vero miglioramento della sua situazione, ma almeno sarebbe stato un cambiamento.
E invece era di nuovo lì, nel buio, e niente era cambiato.
Aveva sete e fame. Un dolore costante allo stomaco ed un perenne bruciore in gola gli ricordavano che non mangiava e non beveva da parecchio, da troppo. Si sentiva terribilmente debole. La forzata immobilità, unita al digiuno, gli facevano sentire i muscoli - quelli che ancora sentiva - deboli e rattrappiti, forse incapaci di reagire prontamente se fosse stato necessario.
E adesso era di nuovo lì, ad aspettare. Era il suo destino in quella situazione: attendere l'iniziativa altrui. Essere passivo. Era forse questa la cosa più frustrante di tutte: non poter fare nulla da soli, poter solo aspettare le decisioni altrui.
Da tempo aveva rinunciato a provare a raggiungere lo sportello; aveva steso le braccia più che poteva, fino a stirarsi tutti i muscoli ma non ci arrivava; aveva provato a risalire, ma non aveva trovato alcun appiglio. Infine aveva rinunciato la sua libertà non dipendeva da lui.
Nel buio, mentre cercava per l'ennesima volta di controllare la disperazione, prese una decisione: il giorno dopo, se Erika non avesse fatto qualcosa, avrebbe agito lui.
Era oramai chiaro che la ragazza, se non fosse stata più che sicura di poterlo aiutare senza essere scoperta da Tony, non avrebbe fatto nulla, anche a costo di lasciarlo lì a tempo indeterminato. Ma lui non poteva più aspettare. Se il giorno dopo Erika non lo avesse tirato fuori, avrebbe chiamato aiuto. Avrebbe gridato per farsi sentire. Pazienza se Tony lo avrebbe sentito.
Per aiutarlo o per massacrarlo, di sicuro lo avrebbe tirato fuori da lì - almeno sperava. Poi, con un po' di fortuna, sarebbe riuscito ad imbastire qualche scusa di scarsa plausibilità - che era un operaio rimasto incastrato durante un lavoro o qualcosa di simile - che di sicuro non avrebbe convinto Tony ma che magari, con un po' di fortuna - ce ne vorrà molto di fortuna - ok, con molta fortuna, gli avrebbe fatto guadagnare quei trenta secondi necessari a raggiungere la porta e darsela a gambe, muscoli atrofizzati permettendo.
In fondo il trovare un uomo incastrato nel tunnel dell'immondizia dovrebbe essere qualcosa di piuttosto inusuale: Tony avrebbe impiegato un po' di tempo a capire che non era possibile che lui fosse un operaio, e in quel tempo Ben poteva approfittarne per andarsene. In fondo Tony non gli sembrava una cima.
L'unico punto debole - uno dei tanti punti deboli, Ben - era capire se Tony lo conosceva. Ben non ricordava se si erano mai incontrati. Il palazzo era grande e non sapeva con certezza se si fossero mai incrociati sulle scale o da qualche altra parte. In ogni caso era improbabile che lo riconoscesse guardando nel tunnel: lì dentro era parecchio buio. Magari lo avrebbe riconosciuto dopo averlo tirato fuori, ma in quel caso poteva iniziare a parlare inventandosi qualcosa lo stesso, ed intanto allontanarsi verso l'uscita.
Che lo riconoscesse i meno come il vicino, la sorpresa sarebbe comunque stata grossa, e Ben avrebbe potuto approfittarne.
In quel momento, dopo ore di interminabile immobilità, persino l'essere inseguiti da Tony brandente una chiave inglese gli sembrava una situazione migliore di quella in cui si trovava. Non ne poteva più di quel cunicolo, di quella puzza, di quella sete, di quella fame.
Il giorno dopo avrebbe fatto qualcosa.
Un po' confortato da questo pensiero si addormentò. O perse i sensi. Il confine tra sonno ed incoscienza, tra addormentarsi e svenire, era oramai sottile.
Erika si svegliò ansimando, come emergendo d'improvviso dall'acqua dopo aver trattenuto il fiato per lungo tempo. Era confusa, impiegò qualche secondo a ritrovare lucidità. Si sentiva la pelle del viso secca e tirata. Capiì che era colpa delle lacrime. Evidentemente aveva pianto anche nel sonno, ininterrottamente.
Si girò di scatto; Tony non c'era.
Maledizione, sono morta, probabilmente lo ha già scoperto.
Il suo sguardo corse frenetico alla sveglia, che segnava le nove passate. Tony non era un tipo mattiniero, ma dopo anni di lavoro come autotrasportatore oramai il bioritmo impostogli dalla sua attività - poche ore di sonno consecutive, inframmezzate da ore di lavoro, per poi riaddormentarsi appena era di nuovo possibile - lo condizionava anche quando non doveva lavorare.
Ora Tony era di là, e la colazione non era pronta. E magari quel maledetto di Ben avrebbe fatto qualche idiozia che li avrebbe fregati entrambi. Maledizione, maledizione; continuando a ripeterlo - erano anni che Erika non imprecava più - saltò giù dal letto. Inciampò nel lenzuolo che ancora le avviluppava i piedi e cadde per terra, sbattendo entrambe le ginocchia. Due lampi di dolore le salirono lungo le gambe, paralleli, percorrendo tutta la lunghezza degli arti.
Maledizione, ripetè per l'ennesima volta, senza osare niente di più. A Tony non piaceva che le ragazze fossero sboccate, non avevano lo stesso diritto al torpiloquio degli uomini; e negli anni aveva così ben abituato Erika a rispettare questo precetto di buona educazione, che la ragazza oramai non si permetteva di farlo nemmeno quando era da sola; e negli ultimi tempi, non si permetteva nemmeno più di pensarlo. Il massimo che si concedeva era un maledizione a denti stretti
Scalciando si liberò dal lenzuolo e imboccò il corridoio. Accolse il rumore dello scarico del cesso con un sospiro di sollievo: Tony non era ancora andato in cucina.
Passò davanti alla porta del bagno proprio mentre la maniglia si abbassava. Scivolò in cucina e con una mossa rapida posò la tovaglia della colazione sul tavolo, poi aprì il pensile ed afferrò due tazze proprio mentre Tony varcava la soglia.
Ovviamente non la salutò. Lei finì di disporre le cose per la colazione sul tavolo; solo in quel momento si rese conto che non aveva messo su il caffè. Afferrò la moka ed iniziò a caricarla, metre Tony si sedeva pesantemente sulla sua sedia, continuando ad ignorarla.
- Cos'è qusta puzza? -
Le prima parole della giornata di Tony la fecero sobbalzare al punto che la moka le cadde di mano, aprendosi e spargendo il caffè sul pavimento.
Tony la guardò con disprezzo, ma la cosa non sembrava interessarlo più di tanto al momento: - Ti ho chiesto: cos'è questa puzza schifosa? Non la senti? -
Erika cercò di controllarsi e si concentrò su quello che Tony le stava dicendo. In preda alla frenesia di preparare la colazione non aveva notato nulla. Annusò l'aria.
Effettivamente la cucina era pervasa da un odore rancido, pesante, umido.
Merda.
Per la prima volta dopo anni, anche se solo pensandolo, Erika imprecò.
C'era un'unica ed incontestabile spiegazione per quell'odore: era odore di cadavere in decomposizione. Nient'altro poteva puzzare in quel modo in quella cucina.
Quello era l'odore di Ben in decomposizione.
Doveva essere morto ed aveva già inziato a puzzare. Puoi sempre dire che non ne sai nulla, che non capisci come un cadavere sia finito lì, in fondo, come può dire il contrario? Ma sei scema? Non ci crederà mai, e poi è un cadavere, non un gioco. Verrà la polizia, ci saranno indagini...
- ... la spazzatura - il flusso di coscienza di Erika si interruppe sulle ultime parole di Tony.
- La spazzatura - ripetè meccanicamente, non sapendo cosa dire, ancora con metà della moka in mano.
- Ma sei cretina? - Tony iniziò ad alzare la voce - ti ho detto di buttare la spazzatura. Te ne sei dimenticata. Hai lasciato come al solito il sacchetto ad irrancidire. Vedi di muoverti, va' -
Erika si fiondò ad aprire lo sportello sotto il lavello, dove tenevano il bidone dell'immondizia. Appena aprì l'anta una zaffata di rancido la investì. Mai in vita sua averebbe mai pensato di accogliere con tanta gioia un simile odore.
Di buon grado tirò fuori il bidone da sotto il lavello, pur essendo ancora in preda alle immagini di corpi putrefatti e decomposti nel tunnel dell'immondizia e di poliziotti che la interrogavano in merito, mentre Tony aspettava solo che se ne andassero per darle quello che si meritava.
Fece il nodo al sacco nero ricolmo di spazzatura e lo estrasse dal bidone. Tony la fissava, come per assicurarsi che facesse tutto correttamente. Per quanto si disinteressasse totalmente a lei, non gli era sfuggito che quella mattina c'era qualcosa che non andava.
Erika sentiva il suo sguardo addosso, benché fosse chinata sul sacco, intenta ad estrarlo dal bidone senza romperlo. Già una volta era successo che un angolo della busta si incastrasse e il sacco si squarciasse mentre tentava di estrarlo. Anche in quell'occasione Tony le aveva fatto capire che non aveva gradito e che non era il caso accadesse di nuovo. Una delle innumerevoli "lezioni di vita", come le chiamava lui, che le aveva dato.
Mentre aveva quasi finito, un pensierò la gelò: dove avrebbe messo il sacco? Nello scivolo dell'immondizia c'era Ben, non poteva buttarlo lì come al solito. Maledizione, maledizione, maledetto Ben, è tutta colpa tua. Cercò di prendere tempo fingendo di fare di nuovo il nodo al sacco, cercando di pensare ad una soluzione. Il problema era che non c'erano soluzioni. Il sacco era lì ed andava buttato. Quanto ti odio, Ben, è solo colpa tua, quanto ti odio. Tony continuava a fissarla; poteva sentire il suo sguardo sulla sua testa china.
Oramai stava temporeggiando troppo, Tony di sicuro voleva la sua colazione, non avrebbe pazientato ancora a lungo. Con un gesto deciso estrasse il sacco dal bidone dell'immondizia.
C'era solo una soluzione. Fece un mezzo respiro, sollevò il sacco e con aria noncurante si avviò verso la porta della cucina.
Ben era ancora privo di sensi, o forse stava ancora dormendo, nel suo angusto rifugio. Iniziò lentamente a riprendere conoscenza. La prima sensazione che provò, riemergendo dalla nebbia che gli ottundeva le percezioni, fu la bocca secca. Ancora ad occhi chiusi - o forse erano aperti? Non sapeva dirlo, era buio - si passò un paio di volte la lingua sulle labbra. Fu come leccare un pezzo di creta secca: riarso e screpolato. Provò a schiarirsi la gola, ma senza risultato se non un forte dolore. I suoi arti erano sempre più intorpiditi, sarebbe stato impossibile muoversi se non dopo lunghi e lenti tentativi. Dalla vita in giù non sentiva più nulla. Girò leggermente la testa e si riaddormentò.
- Cosa - stai -facendo? - Tony sillabò lentamentele parole, fissandola con occhi truci mentre lei gli passava accanto con il sacco.
Erika si bloccò. Era finita, ma non poteva fare altro che continuare a recitare la sua parte. Maledetto Ben, mi hai messo in questa situazione, ed ora te ne stai al sicuro lì dentro, lasciandomi qui. Dannato Ben. Me la pagherai, fosse l'ultima cosa che faccio.
Non potendo fare altro, si girò con aria innocente verso il marito: - Vado a buttare la spazzatura. Torno subito e ti faccio immediatamenteil caffè -
Tony sospirò rumorosamente, come spesso faceva quandole doveva spiegare qualcosa, come se avesse a che fare con una povera ritardata che lui aveva la bontà di sopportare.
- Non ti ricordi che hanno costruito lo scivolo apposta per evitare di dover scendere a buttare l'immondizia? Vedi di usarlo con quello che ci è costato. E cerca di non fare altri danni, che vorrei fare colazione, finalmente - poi, a voce più bassa, ma non troppo: - cretina.
Erika annuì e si girò verso la parete in cui si apriva l'apertura dello scivolo. Maledetto Ben. Fece due lenti passi e si trovò davanti allo sportello. Posò la mano sulla maniglia. Ed improvvisamente seppe cosa era giusto fare.
Non avresti mai dovuto mettermi in questa situazione, Ben. Io non volevo, sei tu che mi hai convinta; prima a vederci, poi a frequentarci, poi ad andare avanti. Io-non-volevo, ma tu hai insistito. E adesso mi hai messo in questasituazione. Hai idea di come ho passato questa notte? Di come sono stata? E di come sono stata ieri? Io-non-intendo-più-soffrire-così. È-solo-colpa-tua, e per colpa tua io non intendo stare così, rischiare tutto per te, che -non-fai-altro-che-nasconderti in quel buco.
Girò la maniglia ed aprì lo sportello, risoluta come mai in vita sua.
Il rumore dello sportello che si apriva e la luce che invadeva il suo buco lo svegliarono di botto. Per qualche istante rimase abbagliato, come investito da una luce divina. Fuori, nel mondo reale, era una bella mattina luminosa. Gli sembravano secoli che non vedeva la luce del sole. Finalmente lo tiravano fuori. Non gli interessava chi. Erika, Tony, chiunque fosse e qualunque cosa gli avrebbe fatto dopo non gli importava. Voleva solo uscire.
Un'ombra comparve nel quadrato di luce delimitato dai bordi dello sportello. Impiegò qualche istante a mettere a fuoco. Era Erika.
Il volto tirato, teso, pallido, incorniciato dai capelli scarmigliati e dalla luce del mattino che creava come un'aoreola intorno alla sua testa. Era evidente che non avesse dormito. La sua bocca era stretta, le labbra ridotte ad un sottile filo esangue.
Nei pochi secondi in cui la vide, Ben percepì anche un'altra cosa: i suoi occhi, divenuti piccoli e freddi, erano animati da una decisione inamovibile. Lo fissava senza vederlo, con quel suo sguardo vacuo e gelido come quello di uno squalo.
Questa fugace visione fu oscurata da un'enorme massa scura, che occupò l'intero vano dello scivolo e gli precipitò addosso. Prima che potesse fare nulla qualcosa di caldo ed umido lo colpì sul viso. Non fece in tempo a muovere le sue braccia intorpidite, che rimasero prigioniere sotto quella massa scura, non fece in tempo a gridare dalla bocca riarsa. L'enorme palla lo investì ed iniziò a premere sulla sua fronte, sui suoi occhi, sul suo naso, sulla sua bocca.
In un secondo non riuscì più a respirare. La sua faccia era completamente premuta contro la plastica, e la pressione aumentava.
Reso debole dalla lunga immobilità, dalla sete e dalla fame, prigioniero nel tunnel, le braccia intorpidite incastrate sotto la massa nera, non poteva sottrarsi a quel peso micidiale.
Svenne di nuovo ed in breve tempo tutto fu definitivamente ed invariabilmente nero.
Erika premette a fondo il sacco dentro il tunnel. Le sembrò di percepire qualche movimento dall'altra parte, ma forse era solo una sua impressione.
Hai avuto quel che ti meritavi, Ben. O me o te, e tu non avevi il diritto di mettermi in questa situazione. La prossima volta ci penserai due volte prima di trascinare le brave persone nelle tue folli idee, per poi nasconderti come un topo.
Quando aveva aperto lo sportello aveva temuto di vedere il volto di Ben, ma per fortuna era buio lì dentro e lei ovviamente non aveva dato tempo agli occhi di abituarsi all'oscurità. Non voleva vedere, voleva fosse tutto rapido ed indolore. Aveva immediatamente ficcato il sacco nel tunnel, schiacciandolo il più dentro possibile, volendo bloccare una qualunque reazione da là sotto. Aveva tenuto le mani lì dentro un po' più del necessario, premendo il più possibile, ben attenta che da fuori Tony non potesse notare niente. In realtà aveva spinto con tutte le sue forze, appoggiandosi con tutto il proprio peso.
Aveva continuato a premere, come in trance, continuando a ripetere come un mantra maledetto Ben, te lo meriti Ben, finché suo marito, con tono scocciato, le aveva detto: - Non dirmi che si è otturato di nuovo - e poi, a mezza voce come suo solito - idea del cazzo questo scivolo, condominio del cazzo e abitanti del cazzo -
- No, non si è otturato - Erika era scattata su, chiudendo lo sportello di botto. Un incubo era finito: quando Tony fosse uscito di casa avrebbe pensato come risolvere il problema. Una soluzione l'avrebbe trovata. Per ora l'importante era esser riusciti a ovviare al problema più immediato, impedendo a Ben di combinare danni. Ora non avrebbe più creato problemi a nessuno, quel maledetto.
Quanto allo svuotare lo scivolo ci avrebbe pensato in un secondo momento; prima era stata una sciocca: ora che ci pensava lo sapeva che i cadaveri impiegano un bel po' prima di iniziare a puzzare. Aveva tutto il tempo per liberarsi anche di quel problema.
Si girò di scatto, sorridendo enormemente sollevata: - Ti preparo la colazione -
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