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Zézette
Da che ormai ci passava ogni sera per pulirla, «Casa di mamma è più linda» pensò Zézette. «Mamma stessa più serena. E quel suo cane bavoso finalmente un pochetto più docile». Ma alfine, lo sapeva, l'avrebbe prima o poi trovata stecchita col suo plaid sdrucito sui ginocchi, la sua vecchia, con quel diavolaccio pulcioso acciambellato ai piedi, che chissà come avrebbe fatto poi a staccarglielo.
Era il solito orario. Si avvicinava rimuginando alla catapecchia di sua madre quando le andò incontro un puzzo inconsueto.
Cosa ancor più strana, quando giunse sulla soglia, incrociò la sua vecchia che usciva trafelata.
Quest'ultima si arrestò un attimo, traballante, la fissò; poi seguitò per il gabinetto esterno dov'era chiaramente diretta senza spiccicare una parola.
«Manco un cesso decente» pensò rammaricata Zézette. «Manco quello ho potuto darle. Potrei portarmela a casa, certo. Ma come farei poi coi clienti? ».
La vecchia era in vestaglia. Con un braccio dalla manica arrotolata portava un secchio colmo di merdume, che le colava s'un piede. Andava per sfrattarlo nel water.
«Roba sua» disse tra sé Zézette. E per discrezione rimase piantata sulla soglia, seguendola soltanto con lo sguardo. Poi attese che tornasse.
Zézette la parigina. Ma mica era il suo vero nome? Gliel'aveva affibbiato un cliente del Vomero, un certo Addati.
Lo chiamava per cognome, come si fa a scuola: un professore di liceo patito per Sartre.
Stavano a farlo in una roulotte quella volta, quando lui le chiese: «Hai presente Sartre? ».
Lei non lo sapeva mica chi fosse. Ma «Sì, sì! » disse lo stesso «Basta che ti muovi». Poi pensò ch'era finita davvero in un cesso di posto, e che adesso le toccava pulirsi alla meglio per non buscarsi la candida.
Addati aveva aggiunto ansimando, mentre palpeggiava e faceva: «C'è un personaggio... in un libro di Sartre che m'è tanto piaciuto... Si chiama Zézette... Ti posso chiamare Zézette? »
«Chiamami come vuoi» aveva risposto lei.
Chissà perché tutto questo le tornava in mente proprio adesso.
Sua madre intanto rientrò più spedita per il braccio alleggerito del secchio lasciato ormai nella latrina.
Zézette la fissò. La vecchia le passò sotto gli occhi arcigni, chinandosi come per abbassarsi sotto un arco, bassina bassina più di quanto già non fosse.
«Ma'!... » redarguì lei.
Sua madre volle subito rassicurarla. Disse: «Non è come pensi, Ninù! ».
L'unica a chiamarla col suo vero nome: Ninuccia, ma quella che in fondo le mentiva più di tutti, a cominciare dall'illusione che le dava di possedere un nome normale come tutti gli altri, diverso da quello affibbiatole di Zézette.
«Li vedi i risultati? Tu devi smetterla di mangiare quella porcheria! » disse.
«E perché? » ribatté la vecchia «Se la mangia lui, posso benissimo mangiarla anch'io! »
«Perché tu non sei un cazzo di cane! » urlò lei.
«E che ne sai? » replicò la madre «Che ne sappiamo? » rincarò. « E poi sai benissimo lui chi è! »
«Già» disse Zézette. «Oddiobuono! » esplose «Ma tu davvero credi che papà si sia reincarnato in questo stronzo di cane?! »
Il cane abbaiò.
«Ma tu davvero fai, ma'!? »
«È lui, ti dico! »
«Tu sei pazza! »
«È lui! »
«Papà non m'avrebbe mai morso! »
«E tu per questo adesso fai la zoccola! Avrebbe dovuto farlo! Fosse stato per me... »
«Fosse stato per te, saremmo morte di fame! »
«Ci sono le scatolette! »
«Ma vaffanculo! »
«Peccatrice! »
«Vaffanculo! »
Ecco. Era in momenti come questo che l'avrebbe davvero lasciata schiattare nella sua accidia, madre e buona. Perché di accidia si trattava. Lei la conosceva bene. Addati non aveva fatto che parlargliene per anni. Specie negli ultimi tempi. E quando si decise a non andare più a trovarla, pure gliene parlò, fino alla nausea, nella lettera che le lasciò insieme a un po' di quattrini:
Cara la mia Zézette,
che accidioso che sono. Incapace anche di chiederti di amarmi. Incapace di chiedere a me stesso di amarti. Negligente come il Belacqua di Dante, confuso e inerte come il Vecchio al ponte di Hemingway. Come loro sotto le proprie chine, io fermo ai piedi della salita del tuo amore.
Come loro destinato, ora che ti lascio, all'esercizio doloroso della memoria, a dare frequenti udienze ai ricordi reduci dai momenti passati con te. Stagnato in una sfiducia che mi sfianca e m'immalinconisce. Come Oblomov, come l'uomo addormentato di Dürer. Fermo sul punto più accidioso del ricordo.
Ma non è forse vero, mia dolce Zézette, che quando il destino ti si posa polveroso sulle spalle ti accascia più di un macigno? T'ingrigisce? Ti oscura di quello stesso male oscuro di Berto o di Gadda che è dolore intellettuale, che rifiuta il mondo? Dolore universalmente personale, empaticamente impotente? Male metafisico, che è ipocondria senza più alcun desiderio?
Non è forse questo che faccio io con te, adesso, vietandomi di continuare a vederti, arrestando la mia vita in un punto ove non c'è più nulla che possa guadagnare, ma neppure più nulla che possa perdere?
F. A.
La rileggeva spesso, sebbene avesse già da tempo rinunciato a capirla. La teneva conservata in una cassa, insieme alle chiavi della macchina demolita del padre morto, e al braccialetto che le aveva regalato a un compleanno suo fratello, che chissà adesso dov'era.
Le piaceva farlo perché trovava quella lettera ricca di parole di suono buono. Anche se si rammaricava poi, perché non le capiva tutte, come se le fosse stata affibbiata ingiustamente l'ignoranza di un altro.
«Dài che t'aiuto a pulirti» disse a un certo punto alla madre.
«Mi sono già pulita» ribatté aspra la vecchia.
«Sei sicura? »
«Non cominciare! »
«Non comincio. Voglio solo aiutarti»
«Stasera no».
«Sei stanca. Embe' vorrei sapere tu che fai per essere stanca! »
«Ho settant'anni di stanchezze»
«E che vorresti dire, che sono tanti settant'anni? »
«Noo, per carità! » ironizzò la vecchia «m'è spuntato mo il primo dente! »
«Non fare la spiritosa» disse Zézette «Escitene un poco piuttosto. I piedi ce li hai ancora buoni! Usali! Non ti buttare! Trovati un'amica, una messa d'ascoltare, un vecchio con cui fare le vostre cose. Cristo, io odio gli indolenti! Li odio gli accidiosi come te! Siete un branco di vigliacchi tutti quanti! Per evitare i rischi evitate la vita stessa! E poi ve ne venite con le sceneggiate, fate facce pietose, scrivete lettere bellissime, ma senza che si capisca un cavolo, per farci sentire tutti scemi; e noi che vi aspettiamo come imbecilli, come aveste chissà che mistero da rivelarci! Vi odio, cavolo! Vi odio tutti!... Tutti! Tutti! Tutti!... »
La vecchia le afferrò di colpo la testa fra le mani. Se la portò sul seno avvizzito. «Sst... » le fece smuovendole i capelli.
Zézette piangeva a dirotto in preda a una crisi isterica.
«C'è qui mamma, Ninù... » sussurrò la vecchia, che poi aggiunse per rincuorarla: «La tua mamma che oggi è uscita»
Zézette si levò di scatto dai suoi seni per guardarla negli occhi.
«Sì, sono uscita... » confermò sua madre «A comprare delle mimose». E andò subito a prendergliele.
Le aveva chiuse nell'armadio. Tornò e gliele porse.
Zézette non capiva. Le odorò socchiudendo gli occhi.
Profumavano di ciò che non si esprime.
Le si asciugarono le lacrime, e carezzò sua madre, che subito le domandò: «Passato? »
Lei fece cenno di sì colla testa.
«Bene! » realizzò la vecchia. Poi le chiese: «Vuoi una scatoletta? »
Allora rise Zézette. «No, no, no! » disse. «No, no, no! ».
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