racconti » Racconti gialli » Il killer d'inverno
Il killer d'inverno
Scesi dall'auto e un vento gelido sembrò prendere le sembianze di una lama intenta a tagliarmi la faccia. Mi strinsi maggiormente nel cappotto e camminai fino a raggiungere Lentini sul luogo del ritrovamento del cadavere.
Potevo rifiutarmi di vedere come era stata conciata la vittima, ma quando valutavo l'idea finivo sempre col pensare di mancargli di rispetto. Erano morti, ed era come se noi fossimo l'ultima occasione che avevano per ottenere giustizia. Avevano solo noi, ed io non potevo tirarmi indietro.
Quella in questione era la terza vittima di una serie sanguinosa. Seguivamo il suo caso da quando la madre era venuta da noi a sporgere denuncia dopo la scomparsa. Dopo due settimane di ricerche potevamo smettere di cercare e affibbiare l'omicidio al serial killer al quale stavamo dando la caccia da mesi. Ritrovata dentro ad una fossa ricoperta di neve nei pressi del Parco Ruffini, Maria poco più che ventenne, presentava tagli su braccia, polsi e gambe.
Stesso modus-operandi: strisce di sangue secco, quasi nero, le delimitavano gli arti inferiori e superiori. Ma quello che faceva maggiormente impressione erano i lividi presenti sul corpo: come le altre vittime, anche lei ne era ricoperta.
Socchiusi gli occhi, e ringraziai di indossare gli occhiali scuri.
"Posso chiederti perché porti gli occhiali da sole anche quando nevica?", mi chiese Lentini.
Sospirai e mi tirai in piedi. "No."
"Come non detto."
Io annuii. Poi mi guardai intorno ed osservai il paesaggio torinese imbiancato.
"Non ho mai visto niente del genere", dissi.
"Ma che dici? È ridotta male, proprio come tutte le vittime del killer d'inverno."
Feci una smorfia e tornai su di lui. "Sto parlando del tempo! Una bufera del genere non l'ho mai vista!", gridai per sovrastare il vento.
Lui annuì. "Gli esperti dicono che si placherà fra due, tre giorni", fece una pausa. "Cosa facciamo ora?"
"Assicurati che la Scientifica abbia la cortezza di controllare eventuali impronte nelle vicinanze. Non si sa mai."
Una volta tornati in centrale, attendemmo i risultati dell'autopsia. Era pomeriggio inoltrato quando Ferro, il collega della polizia scientifica, fece ingresso presso la nostra sede.
A quel punto, ci recammo nell'ufficio di Lorusso.
"Potete attribuire anche questa terza vittima al vostro killer. La morte è avvenuta per assideramento. Era viva quando è entrata nella fossa", cominciò.
"E i lividi?", chiese Lentini.
"Come gli altri. Aveva ematomi su tutto il corpo, ma non è stato il pestaggio la causa della morte."
Chinai il viso e lo rialzai l'istante dopo. "E come mai questa volta c'è di mezzo la violenza carnale?"
Ferro alzò la mano e mostrò il palmo in segno di scuse. "Smentisco la nostra ipotesi azzardata."
"Al telefono mi hai detto che sono state rinvenute tracce di sperma."
"Sì, è vero, l'ho detto."
Aggrottai la fronte. "Non ti seguo. La violenza c'è stata, o no?"
Ferro fissò me, Lentini e Lorusso. Quindi tornò su di me. "Le tracce di sperma sono state trovate all'interno del corpo della ragazza, ma l'esame non ha dato riscontro dell'abuso: non ci sono segni di costrizione."
"No, aspetta un attimo", lo interruppi. "Stai cercando di dirci che hanno avuto un rapporto sessuale consenziente?"
"Precisamente."
"Ma com'è possibile una cosa del genere?", domandò Lentini.
"Con la sindrome di Stoccolma", intervenne Lorusso.
"È quello che pensiamo possa essere accaduto", riprese Ferro. "Però fareste meglio ad interpellare un esperto. Vi posso mandare qualcuno dalla Scientifica."
"Ma se non avete il DNA da confrontare, come possiamo sapere se si tratta del suo assassino?", domandò Lentini. "Potrebbe aver consumato il rapporto sessuale prima di essere stata rapita."
"No", dissi io attirando tutti gli sguardi su di me. "Maria è stata rapita due settimana fa. Il liquido seminale resta nel corpo solo per pochi giorni dopo il rapporto. Il che significa che può essere solo del suo assassino."
Il silenzio calò nella stanza. Io mi voltai a fissare la neve oltre il vetro, anche se quello a cui pensavo non aveva niente a che vedere con il tempo.
"Come ci muoviamo?", domandò il mio partner.
Senza voltarmi, risposi. "Fa venire un profiler."
Mentre Lentini era impegnato ad attendere un esperto di profili psicologici, io mi assentai per andare a recuperare un fascicolo.
Avevo avuto a che fare con tanti casi di omicidio, ma ogni volta era come la prima: faceva sempre male.
Nel tornare indietro, mi fermai ad una finestra che dava sulla parte esterna del commissariato. Guardai all'insù e contemplai i fiocchi di neve scendere dal cielo ormai buio. Pensai al freddo che poteva aver sentito Maria, e alla paura che poteva aver provato nel sapere di star morendo.
Mi cinsi le spalle e sospirai. Poi tornai in ufficio.
Erano le dieci passate quando mi richiusi alle spalle la porta di casa. Chiusi a chiave, ma non accesi la luce. Da qualche parte avevo sentito dire che il buio rendeva le cose vere ed immobili, ed io l'avevo trovata una frase veritiera sin da subito. Restavo al buio quando volevo riflettere, e quello era assolutamente un momento di riflessione. Dovevo riflettere per riuscire a carpire le sue mosse e prendere così il serial killer denominato d'inverno.
Colpiva nei mesi freddi e ammazzava le sue vittime sotterrandole sotto un cumulo di neve.
Cosa poteva portare l'S. I. ad uccidere secondo questa metodica? Forse un trauma avvenuto durante quei mesi? Forse un omicidio consumato sotto la neve l'aveva traumatizzato e portato a comportarsi di conseguenza. Non lo sapevo, e il profiler non aveva ancora tracciato un profilo abbastanza convincente.
Nel buio della stanza, i numeri luminosi della sveglia mi fecero presente che erano trascorse due ore. Fu a quel punto, che tornando con lo sguardo verso il soffitto, chiusi gli occhi e mi addormentai.
Sognai di trovarmi in un corridoio vuoto. Le pareti grige ed ingiallite facevano pensare ad una vecchia struttura.
Anche se non avevo la certezza del dove mi trovassi, in cuor mio era come se lo sapessi fin troppo bene, tanto che presi a tremare.
Continuai a camminare ancora per qualche metro fino a che mi bloccai. A quel punto, oltre il vetro vidi la stanza dell'obitorio. Rimasi a fissare la lettiga d'acciaio e il corpo stesoci sopra. Sfiorai il vetro freddo con la mano e gli occhi si fecero lucidi. Quando papà era morto, non avevo avuto il coraggio di andare a vederlo durante la veglia funebre, né di toccarlo dopo che era stato spogliato di tutto, una volta effettuata l'autopsia.
Volevo ricordarlo com'era in vita, come quando mi abbracciava e sapeva di dopobarba.
In ospedale aveva preso il sopravvento la puzza di disinfettante e medicine, ed io non avrei permesso a niente e nessuno di portarmi via i bei ricordi che mi appartenevano.
In qualche documentario avevo sentito dire che i sogni erano una sorta di porta per entrare in un'altra dimensione, ritrovare i propri cari defunti, addirittura risolvere conti in sospeso e combattere le proprie paure.
Ed io sognavo spesso papà. Sognavo di poterlo riabbracciare e sentire così di nuovo il suo profumo, di toccarlo e di parlargli, di ridere e di piangere.
Con le lacrime agli occhi stavo ancora fissando il suo corpo, quando tutto venne spezzato da un sussurro.
"Scusami."
M svegliai. Spalancai gli occhi e deglutii. Non mi ci volle molto per capire che la voce non era parte del sogno, e che nella stanza insieme a me c'era qualcuno.
Allungai la mano verso il comodino nel tentativo di recuperare l'arma, ma la fondina era vuota.
Mi rotolai dall'altra parte del letto e mi portai in piedi. Nel buio, corsi verso l'uscita, ma la casa che prima conoscevo come le mie tasche, si era d'un tratto trasformata in un labirinto ad ostacoli. Fu così che andai a sbattere violentemente contro qualcosa che si frantumò in mille pezzi.
Caddi a terra in mezzo ai cocci, e il bruciore causati dai tagli mi invasero la superficie della pelle.
Seppur devastante, lasciai indietro il dolore e mi rialzai. Ringraziai me stessa di aver voluto riflettere e di essermi così addormentata con gli abiti e le scarpe indosso. Calpestando i vetri, proseguii alla ricerca della fuga, ma andai nuovamente ad urtare contro un mobile.
"Cazzo!", gridai.
Cercai di raggiungere l'interruttore, ma ovunque mi girassi, tutto sembrava una trappola pronta a farmi male.
"Mi dispiace averti messo casa sottosopra", udii. "Ma conosco le tue abilità e volevo essere in vantaggio."
Mi voltai di scatto e i capelli mi s'impastarono al viso sudato. Cercai di focalizzare l'uomo in base a dove la voce si faceva più vicina. A quel punto, i miei occhi si abituarono al buio e visualizzai la sagoma.
Col respiro alterato dalla fuga potevo sembrare poco convincente, ma lo avvertii comunque: "Se ti avvicini a me, sei morto."
Chiunque avessi a pochi metri di distanza, si mise a ridere per poi dire: "So che sei una dura, ma non penso che questa volta ti servirà."
Aggrottai la fronte e presi a sbattere le palpebre per restare sveglia, come se ad un tratto mi fosse venuto un sonno irrimandabile.
"Appena qualche minuto fa ho cosparso casa tua con una sorta di sedativo. Forte, no?", raccontò.
Allora capii il perché sentivo bassa la sua voce: doveva portare una maschera per estraniarsi dall'effetto del sonnifero, o qualcosa del genere.
Caddi a terra e strisciando cercai lo stesso la via d'uscita. I movimenti lenti m'impedivano però di muovere gambe e braccia come avrei voluto.
Sentii dei passi rimbombarmi in testa e percepii la vicinanza del killer d'inverno.
Si mise sulle ginocchia e mi accarezzò i capelli. "Ci sono io adesso qua con te. Non lo senti il freddo, commissario?"
Avrei voluto combattere ancora come era mio solito fare dinnanzi ai pericoli, ma il sedativo aveva fatto effetto. Così chiusi gli occhi e svenni.
Dolorante e nauseata, mi svegliai con i polsi legati in un posto a me sconosciuto.
Poco lontano notai una fioca luce che abbinai a quella di un'abat-jour. Lui se ne stava in piedi davanti ad un bancone, e mi dava le spalle. Piano piano capii che dovevo trovarmi all'interno di un garage o qualcosa di simile: il posto era pieno di attrezzi da giardinaggio, e nella poca luce, notai delle pale da neve appoggiate alla parete.
"Pensavo non ti svegliassi più", mi disse senza voltarsi. "Fanno male tagli e lividi?"
Con le dita mi sfiorai le labbra, il viso, le braccia e percepii i tagli che i vetri mi avevano provocato precedentemente. Mi mossi appena, ed il dolore dei colpi presi contro i mobili si fecero sentire.
"Ho preso botte peggiori", dissi tentando di tirarmi spalle al muro.
Lui sogghignò. "Tutti ne abbiamo prese. Chi più, chi meno."
A quel punto l'uomo si voltò, si appoggiò al bancone, intrecciò le dita e prese a fissarmi. "Le botte sono qualcosa che ricordiamo nel tempo, specie se ci vengono inflitte da qualcuno che per noi conta molto."
"Ed è per questo che prima di farci trovare i corpi, li massacravi?"
Sogghignò. E invece di rispondere alla domanda, con un gesto si sfilò gli occhiali e pulì le lenti sulla camicia di flanella. "È strano."
Esitai. "Che cosa?", domandai seguendo ogni suo movimento.
"Come le fratture si ricompongano da sole."
Indossò nuovamente gli occhiali e tornò a fissarmi. "Ti rompi un osso e quello che il dottore ti dice è che deve stare fermo, a riposo. Allora te lo ingessano, te lo steccano. Non sono come le ferite dell'anima. Quelle, nel tempo, non sempre se ne vanno."
Non fiatai, e lui riprese a parlare. "Io ne ho tante, commissario. Non vuole conoscerle?"
Feci spallucce. "Sono qua."
Annuì e prese a raccontare. "Il giorno del mio sesto compleanno, mio padre mi portò a fare una gita. C'era la neve quel giorno. Una montagna di neve, e... pensavo volesse farmi giocare, farmi passare un pomeriggio divertente."
Si grattò lo spazio tra il naso e la bocca e proseguì. "Invece si mise a scavare una fossa nel bosco. Era dicembre e faceva molto freddo. Proprio come adesso", fece una breve pausa indicando la finestra sbarrata. "Non capivo che divertimento potesse esserci a stare in un bosco innevato a scavare una buca. Poi capii. Diceva che si trattava di un gioco, ma in realtà si divertiva solo lui."
Rimase in silenzio per pochi secondi, quasi avesse paura di quello che stava raccontando: "Mi obbligava a scendere nella fossa. Mi diceva che stare al freddo rafforzava il carattere. E quando opponevo resistenza, mi riempiva di calci e pugni."
Non lo interruppi.
"La neve continuava a cadere. Io avevo paura, avevo freddo e non avevo nessuno che potesse aiutarmi."
Un freddo mi invase il corpo e mi fece rabbrividire. Mi tirai in piedi e parlai. "Le ferite dell'anima non sempre guariscono, lo so. Però ci si può provare."
Scosse il capo. "Non si guarisce da certe cose."
"Diventare come tuo padre non ti aiuterà."
"Ah, ma io sono già come mio padre da molto tempo", proseguì emettendo una fragorosa risata. "Avevo solo dieci anni quando ho squarciato il nostro gatto."
Deglutii, riflettendo sul da farsi.
Poi quando riprese a parlare, divenne serio. "A volte ti ritrovi a guardare qualcuno e a pensare che devi spiare dentro di lui. Conoscere la paura negli occhi della tua vittima, sapere che colore ha il suo sangue, sentirsi temuti perché ti chiede pietà e tu non sei disposto a concedergliela."
"È stato così anche per Maria?"
Mi fissò senza capire.
"Lei si era innamorata di te, non è così?", domandai ulteriormente.
"Non riuscivo proprio a capire come potesse amarmi, dopo quello che le facevo. Lei era diversa, certo."
"Ma non abbastanza. Quello non è bastato a salvarle la vita."
"Era una vittima, e come tale doveva morire."
Strinsi gli occhi e chinai il capo. "Che cosa hai intenzione di fare?"
"Parli di te?"
Lo rialzai. "Sì, parlo di me. Che cosa vuoi da me?"
Lui inclinò il capo e mi sorrise. "Ma come? Sei tanto intelligente, e non ci sei ancora arrivata?"
"Vuoi pestare anche me, scavare una fossa e sotterrarmi sotto la neve?"
"Sì, questa è la mia idea. Sarai tra le mie vittime, commissario."
Annuii a denti stretti. "Lusingata."
A quel punto recuperò una pala. Mi si avvicinò, mi afferrò per un braccio premendo sulle ferite, e il bruciore mi fece trasalire.
Eravamo faccia a faccia, quando con una dentatura perfetta mi sorrise dicendo. "Questa volta la tua pistola, le tue mosse di autodifesa, il tuo partner non ti possono aiutare."
"Non ho bisogno di Lentini per difendermi, se è per questo."
Rise divertito, ed annuì. "Hai ragione. Te la cavi benissimo da sola."
Restai a fissarlo fino a che mi puntò un'arma contro e mi fece segno verso l'uscita. "Forza."
Mi mossi verso la porta.
"Cammina avanti a me", mi ordinò.
Seppur titubante, lo feci. "Perché proprio io?"
"Sei la mia ultima vittima, devo uscire in bellezza."
"Come, ultima? Che significa?"
"Che il cerchio si chiude con te. Il primo e l'ultimo omicidio sono sempre i più importanti, non lo sai?"
"Un gatto, nel tuo caso?"
Rise. "Il gatto è stato un esercizio, perché la prima persona che sono andato a cercare una volta cresciuto, è stata mio padre."
Io non dissi più nulla.
Percorremmo il corridoio fino all'uscita. La neve persisteva, ed una volta fuori, cadde anche su di noi.
Cercando di farmi venire un'idea che potesse salvarmi la vita, mi bloccai e mi misi fronte a lui.
"Che stai facendo? Continua a camminare."
"No!"
"Non credo ti convenga, commissario."
"Tanto devo morire, no? Allora che ti cambia se oppongo resistenza?"
"Cambia che ho un modus operandi da rispettare, e il tempo è prezioso."
"Perché?"
"La meteo dice che molto presto la tempesta di neve prenderà una pausa. Ho intenzione di andarmene con lei, Fermi. Quindi continua a camminare."
Io esitai. "No."
Inclinò il capo, e caricò il colpo. "Muoviti."
Presi a camminare fino a che arrivammo dinnanzi un albero. Mi diede uno spintone e caddi sulle ginocchia. Poi lanciò la pala a terra, vicino a me. "Comincia a scavare, e non farti venire strane idee in testa."
"Devo scavare con le mani legate?"
"Sono sicuro che te la caverai bene anche così."
Gli lanciai un'occhiataccia e recuperai la pala. Mi misi in piedi ed ubbidii, ma con la coda dell'occhio non smisi di controllarlo.
Dopo poco più di dieci minuti, ne avevo scavata una buona parte, ma non abbastanza profonda come la voleva lui. Faceva freddo e avevo le mani gelate. Facevo fatica, ma rallentavo di proposito il tutto.
"Ci metti troppo, fatti da parte!", mi ordinò tentando di strapparmi la pala di mano. A quel punto però avevo la mia occasione e non me la sarei lasciata scappare. Senza mollare la presa, lo colpii violentemente al viso e la pistola gli scivolò lontana. Una volta a terra, infierii colpendolo alle spalle e alle gambe.
Poi mi misi a correre nella direzione opposta.
Il buio e la neve mi rendevano difficile la fuga, ma la voglia di sopravvivere era maggiore. Era una zona isolata, e non sapevo neanche dove stessi scappando. Avevo praticamente superato la struttura, quando sentii gridare il mio nome nel silenzio totale della notte.
Non so bene perché, ma mi bloccai. Mi voltai verso di lui e vidi che a malapena si reggeva in piedi. "Che tu ne faccia parte o meno, commissario, uscirò lo stesso in bellezza!", urlò.
"Non è troppo tardi per tornare indietro!", gli risposi di rimando.
Scosse il capo, si puntò l'arma alla tempia e fece fuoco. Lo sparo risuonò nel nulla, e coincidenza volle che l'uomo cadde proprio nella fossa: il posto dov'era iniziato tutto, il posto del quale aveva avuto tanta paura da piccolo e che una volta grande, era diventato il luogo prescelto dei propri omicidi.
Mi avvicinai e restai a fissarlo dall'alto, mentre il rivolo di sangue rosso acceso faceva contrasto con la neve candida.
Era finita e non ero riuscita a salvarlo.
Alzai il capo al cielo e la neve cadde soffice sul mio viso. Respirai intensamente l'aria fredda, e una nuvola di vapore mi fuoriuscii dalla bocca come una liberazione.
Due giorni dopo, come previsto dai meteorologi, la tempesta si era placata.
Erano le sei di mattina, ma non ero in piedi per prepararmi e andare a lavoro. Mio malgrado, Lorusso mi aveva imposto una settimana di riposo. E chissà che forse dentro di me non sperassi di stare un po' per i fatti miei. Uscii sul balcone e presi ad ammirare il paesaggio. Qualche raggio di sole illuminava l'orizzonte, ma non scaldava. Restai comunque là a godermi tutto quello.
Gli squilli del telefono interruppero però quel momento di pace e mi costrinsero a rientrare.
"Pronto?"
"Qualcuno morirà", esordì una voce camuffata.
Aggrottai la fronte. "Chi parla?"
"A mezzanotte qualcuno morirà."
"Parla della mezzanotte che verrà? Parla di stanotte?"
"No."
"È forse uno scherzo?"
"No."
"Allora se non si sforza di essere più chiaro non posso aiutarla."
La voce esitò.
"Tic tac, tic tac. Il tempo scorre, commissario. Lo scoprirai presto."
"Ehi, non riattaccare! Aspetta!"
Udii l'agganciarsi della cornetta e la telefonata s'interruppe.
Poteva essere uno scherzo come poteva non esserlo.
Tic tac, pensai.
Al diavolo il riposo. Recuperai le chiavi dell'auto e mi diressi in centrale.
12345678
l'autore Roberta P. ha riportato queste note sull'opera
Ringrazio "Primavera" di Ludovico Einaudi per avermi tenuto compagnia durante la stesura di questo racconto, e per avermi quindi ispirato!
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0