Non era giorno e non era notte. Squarci di buio e lampi di luce sostituivano incessantemente il tetto di casa mia.
Legato al letto, vi rimasi per troppo tempo e non contai più le ore che urlai senza fiato. Ero il prediletto. Le lacrime mi davano fastidio, scendendo salate sulle mie labbra. E respiravo, profumo d’aranciata e feste di compleanno; gola secca, al deserto mi avvicinai e le ginocchia sbucciate sussurravano alle mie spalle. Anche la schiena, trafitta da punteruoli, volle la libertà.
Al suono di clavicembalo, mi ricordai. Che non era chiaro né scuro. Dentro di me, sapore di sangue e battito cardiaco, guardai. E vidi, tutto pieno: esaurito. Gente ad applaudire gesta mai compite. Vidi l’eroe dell’oggi che scalciava e arrossiva, sbuffando. Un treno lanciato verso l’aldilà, anime assopite spostarono binari e stazioni, innumerevoli tragitti.
Tutto solo fui scaraventato contro sillabe da ricomporre; e la storia finì. Quindi ogni cosa si ripeté. Costruzioni megalitiche esplosero al limite del mare.
E cominciai a respirare, aria di salsedine, polvere e sabbia. E guardai, occhi cristallini. Vetri rotti, a piedi nudi affrontai, cicatrici nella mente, tra i ricordi e le corse affannate di un bambino tra i prati: vipere.
Campanelle, suonate con veemenza. Risuonarono tra pareti anguste. Vicino a me. Intorno a me. Dentro me. E la consapevolezza del nulla, avvolse.