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Il diavolo corre nei campi
A volte la memoria ci inganna. Ricordiamo con esattezza un fatto avvenuto in una giornata di tanti anni fa. Ci sembra quasi di essere ancora li, ogni volta che ci torniamo col pensiero. Sentiamo gli stessi odori. Ricordiamo ogni particolare, ogni colore, ogni parola.
Poi, improvvisamente, alla nostra certezza, si affianca una domanda. Davvero è andata così? Davvero ero lì quel giorno? E quel giorno c'è mai stato? Sembra pazzesco se solo ci pensate. Eppure queste cose accadono in continuazione. E nella selva dei ricordi, talvolta non sappiamo darci una risposta neppure su quello che ci sembrava lampante.
A volte questa piccola consapevolezza ci spaventa. Possibile che dobbiamo perdere per strada pezzi interi della nostra vita? Possibile che un giorno non saremo sicuri neppure di quello che abbiamo fatto? Eppure, in alcune occasioni, sapere che qualcosa andrà perduto ci è di conforto. Perché non tutto è piacevole da ricordare e perché avere un dubbio circa alcune giornate di tanti anni fa ci aiuta a pensare che qualcosa che ricordiamo con chiarezza assoluta, potrebbe non essere mai accaduto.
Per me questa è la spiegazione. E per me è quanto basta per dormire quando mi capita di scavare troppo a fondo nei miei ricordi.
Andavamo alla casa dei miei zii due o tre volte all'anno.
I miei zii paterni, al contrario di tutto il resto della famiglia, avevano scelto di vivere in una casa in campagna a poco più di tre ore dalla città dove abitavo. Anche i miei genitori non dovevano trovare quella visita particolarmente eccitante dal momento che si limitavano a farla, sempre più raramente col trascorrere degli anni, soltanto nei giorni di festa più importanti e che il viaggio di andata, un interminabile discesa attraverso campagne desolate senza segnali di vita per chilometri e chilometri, si faceva nel più totale silenzio.
La loro tenuta (acquistata con una parte dell'eredità avuta alla morte di mio nonno) stava appollaiata su un enorme calanco che scendeva ripido come un burrone fino al letto del ruscello sottostante. Un ruscello che non aveva un nome, tanto era piccolo.
Li, lontani da ogni comunicazione con il mondo esterno, trascorrevano la loro vita di campagna, fatta di giornate che si concludevano la sera presto e di giorni che sembravano ripetersi all'infinito sempre uguali, uno dopo l'altro, senza fine.
Ad ogni modo vivevano in completa solitudine, mamma, padre e due figli, i miei due cugini, un maschio della mia età e una femmina di qualche anno più grande.
La cosa che allo stesso tempo mi stupiva e mi angosciava di più di quel posto era che loro, la famiglia di mio zio, non si allontanavano mai dalla tenuta.
Alla grande casa, sgraziata e mastodontica per via di successive aggiunte fatte nel corso degli anni, si arrivava per una strada sterrata che attraversava un gigantesco campo coltivato a granturco. Chilometri e chilometri di vuoto battuti dal sole. Oltre quella strada che correva ripida e desolata c'era il mondo, con le sue strade, le sue macchine e le sue città piene di persone. Ma loro, a quanto pare, non erano interessati a quello che succedeva al di la della loro collina di granturco. Se ne stavano da soli, completamente da soli, impegnati da mattina a sera nella loro tenuta di campagna.
Mio zio lavorava dalle prime ore dell'alba fino a quando il sole non calava dietro alle colline circostanti.
Durante la mattina stava nella grande stalla che a me faceva veramente paura per via di una storia che mio cugino mi aveva raccontato una volta con una strana luce negli occhi. Sembrava che qualche anno prima, durante la mungitura, un toro fosse riuscito a slegarsi mettendosi a correre come un matto per la navata centrale investendo alla fine un ragazzino che si trovava li per accompagnare il padre e che non era servito a niente trasportarlo all'ospedale poiché era rimasto paralizzato dalla testa ai piedi e ora lo tenevano rinchiuso nel casolare vicino e nessuno lo aveva più visto in faccia da quel momento.
A metà mattinata, dopo aver controllato gli attrezzi e aver mangiato qualcosa da solo nel fondo della rimessa, mio zio andava dritto nei campi a controllare i braccianti che lavoravano. Questi non si avvicinavano mai alla casa. Arrivavano alle prime luci del giorno e lavoravano fino a sera. Poi sparivano senza lasciare traccia per andare a dormire tutti insieme in un cascinale dietro la collina. Non so quante volte mi sono sentito ripetere che a quella cascina non mi dovevo mai avvicinare per nessun motivo. Mio cugino invece ci andava spesso, anche da solo. Andava a trovare i braccianti e restava con loro per intere giornate.
Mio zio stava con i braccianti fino alla fine del lavoro e subito dopo ripartiva verso casa. Non lo si vedeva rientrare che alla luce della luna che sui campi era sempre terribilmente luminosa. Posava la sua giacca e saliva al piano di sopra chiudendosi dietro la porta.
Mia zia invece badava alla casa (una casa veramente grande per quattro persone) e sebbene tenesse chiuse a chiave più di dieci stanze (e dio solo sa se ci terrorizzava all'epoca l'idea di sapere cosa diavolo ci tenessero rinchiuso in quelle dannate stanze buie che non riuscivamo a spiare neppure dai buchi delle serrature) non finiva di rassettarla che a tarda sera. Lei era una persona terribilmente silenziosa anche se a volte, di questo mi accorsi un'estate durante la quale i miei genitori decisero di lasciarmi dai miei zii per una quindicina di giorni, parlava da sola. In verità non è che parlasse davvero. Il suo era più una specie di bisbiglìo continuo e sofferto. A tratti si aveva l'impressione che stesse parlando con qualcuno per via di improvvisi sorrisi che le comparivano in viso senza apparente motivo. In verità però, me lo disse lei stessa una volta che le chiesi se parlasse con me, si trattava semplicemente di brevi canzoncine che ripeteva per ingannare il tempo delle quali però ricordava solo le parole e non la melodia.
Quanto a mia cugina era l'ombra di mia zia. Non si staccava mai da sua madre e in tanti anni di visite credo di averla sempre trovata uguale. Sembrava fluttuare in casa simile ad un fantasma bianco e silenzioso che si muoveva senza ragione apparente di stanza in stanza, trascinando i vestiti sempre troppo pesanti per il caldo che faceva. Di lei si parlava sempre a bassa voce e più di una volta, così mi sembra di ricordare, mia zia e mia madre ne parlarono tra le lacrime non appena mio zio e mio padre uscivano per fare il loro giro della tenuta.
Di lei ho sempre pensato che fosse malata... che non stesse bene per qualche motivo. In ogni caso non capii mai cosa avesse veramente quello spettro bianco di mia cugina. Né in seguito chiesi mai chiarimenti sulla faccenda. Ricordo solo che vagava per le stanze di sopra della casa mentre noi eravamo di sotto(e sentivamo i suoi passi trascinarsi lentissimi attraverso il solaio fatto di pochi mattoni e di travi di legno) e che morì che non aveva ancora compiuto quindici anni. Non ricordo neppure la sua voce. Al funerale andarono soltanto i miei genitori e mia nonna. Non vollero che io andassi.
Infine c'era mio cugino. Mentre scrivo non lo vedo da tanti anni ma all'epoca ricordo che era un bambino grassoccio e vivace. Anche troppo per essere sinceri. Sembrava che lo tenessero in catene tutto il giorno come un cane, tanta era la sua foga quando andavo a trovarlo.
Appena arrivati mi prendeva subito la mano e senza dire una parola mi tirava dalla sua parte come se avesse paura che scappassi o che sparissi nel nulla da un momento all'altro. Io invece, senza dire una parola, mi lasciavo trascinare in quel deserto piatto di campi arati col compasso che in tanti anni non avevo mai visto fiorire. In quel deserto in cui la sera calava come per errore.
Mio cugino mi tirava per il braccio fino al limite dei calanchi, nella zona più profonda della tenuta, vicino al letto mezzo gorgogliante del torrente. Lì si aveva l'impressione di essere lontano dal resto del mondo. La collina che avevamo disceso riempiendoci le scarpe di terra era più ripida di quel che sembrava. Così, quando ci guardavamo alle spalle, ci trovavamo il muro di terra arida che ci divideva da quelli che erano rimasti al di sopra, nella zona in pianura della tenuta.
La cosa più strana di quel posto era che non c'era rumore. I suoni erano inghiottiti sul nascere. Come se nascessero morti. Uccisi da qualcosa che si nascondeva sotto le zolle di terra rigirata.
Un giorno, me lo ricordo come se fosse ieri, mio cugino mi prese per il braccio come suo solito e mi disse all'orecchio con gli occhi fondi e spiritati:
-Vieni...- gli tremavano le pupille- ti faccio vedere... una cosa-
Io lo seguii senza batter ciglio. Di solito mi portava a vedere le insenature del ruscello dove faceva le gabbie per le rane o a muovere i sassi per vedere se sotto si nascondeva qualche biscia. Ma quella volta fu diverso. Girammo dietro ai campi arati per una strada che non avevo mai fatto e dopo qualche minuto ci trovammo in un punto del ruscello dove si riusciva ad attraversare senza bagnarsi troppo le scarpe. Quattro salti e fummo dall'altra parte. Camminammo ancora senza parlare col sole che ci trafiggeva le spalle superando un campo sterminato che non avevo mai visto prima. Mio cugino mi raccontò che quel campo era della famiglia che abitava vicino a loro (sebbene la casa fosse nascosta da un paio di curve della collina) ma che da qualche anno nessuno lo curava più come si deve dal momento che il capofamiglia era stato trovato appeso per il collo nella stalla e aveva lasciato la famiglia allo sbando. Era malato di depressione. Quelle cose lui le aveva sentite durante una chiacchierata fra i miei zii qualche mese prima. Lui comunque, mio cugino, continuava a passare per quella strada quasi ogni giorno dal momento che c'erano un sacco di cose interessanti da vedere. Al centro del campo, lontanissimo da noi, c'era uno spaventapasseri vestito con una giacca marrone, spessi pantaloni da montagna e un fazzoletto rosso simile a una cravatta. Non aveva né mani né piedi e su tutto troneggiava un cappello pesante che dava al pupazzo l'impressione di essere addormentato da giorni. Io mi fermai a guardarlo riparandomi gli occhi con la mano. Ai corvi non doveva incutere molto timore dato che ne era circondato. Al contrario a me faceva impressione. A vederlo così, piantato nel bel mezzo di quel campo senza fine sembrava una meridiana che scandiva la carriera del sole. Lo si poteva vedere da chilometri di distanza quel pupazzo morto, immobile e spettrale, che doveva lanciare sguardi nerissimi da sotto il cappello e di giorno, col sole alto sulla nostra testa, faceva più paura che a vederlo di notte. Ricordo che sembrava sempre sul punto di alzare la testa e mettersi a correre verso di me. Che avrei fatto allora? Cosa avrei fatto se guardando bene non l'avessi visto più al suo posto? Non sarei mai riuscito a mettermi a correre dall'altra parte per mettermi in salvo. Sarei rimasto pietrificato al centro di quel campo frustato dal sole, incapace di staccare gli occhi da lui.
Preferii non pensare a queste cose e quando staccai gli occhi dallo spaventapasseri mio cugino era lontano poco più di un centinaio di metri. Stava anche lui immobile e mi guardava fisso. Poi lo vidi gesticolare e muovere la bocca. Tuttavia non sentii la sua voce. Di certo mi incitava a seguirlo. Io non mi lasciai pregare e corsi in mezzo al campo più veloce che potevo rischiando di inciampare su qualche zolla più grande del previsto. Non mi girai mai e cercai di convincermi che lo facevo soltanto per correre più veloce.
-da questa parte- mi disse mio cugino.
-ma... dove andiamo?- gli chiesi con un filo di voce a causa della fatica.
- ora ti faccio vedere...-
Mio cugino mi prese la mano e mi invitò a seguirlo oltre un cespuglio di rovi che ci divideva dall'altra estremità del campo. Passò prima lui. Io lo seguii cercando di ricalcare i suoi passi. Mi ferii ad una gamba. Nulla di grave, solo un graffio, ma sentii bruciare la coscia a causa del contatto con delle foglie di ortica.
-ecco... guarda!- mi disse lui con occhi lucenti.
Davanti a noi, separata soltanto da una pozza di acqua stagnante, stava una costruzione grigia e spoglia simile ad uno di quei tempietti che si trovano nelle strade di campagna con dentro un'immagine della madonna o di un santo qualsiasi. Qui però non c'era nessuna statuetta ma solo uno strato marmoreo levigato sul quale doveva essere stata incollata un tempo una foto o un'immagine. Il tempietto stava abbandonato in mezzo ai rovi. Il sole, in quella zona, non aveva barriere e batteva tenace sulla piccola costruzione dalla mattina alla sera arroventandone le pareti. Una di queste era delimitata da un piccolo cancello di ferro completamente arrugginito e serrato da tre catenacci pesantissimi che ne impedivano l'apertura. Uno dei muri era leggermente piegato e presentava una piccola crepa che ne lasciava intravedere appena l'interno. A guardarlo così si aveva proprio l'idea che nessuno venisse a visitarlo da molto tempo. Era l'immagine stessa dell'abbandono.
Mio cugino girò un paio di volte intorno alla piccola costruzione e ne ispezionò i muri e i dintorni per vedere se tutto quanto era al posto giusto. Probabilmente, questo fu il mio primo pensiero, doveva venire a far visita a quel posto molto spesso. Poi, improvvisamente, senza preavviso, mi si avvicinò tendendo le mani grassocce verso la mia faccia e disse sottovoce, quasi sibilando:
- c'è una tomba lì...- e torse gli occhi verso il tempietto.
-proprio li dentro...-
Io lo guardai con sufficienza cercando di restare calmo.
Intorno c'era un silenzio irreale.
-è una tomba piccola- continuò .
poi tornò il silenzio.
Io presi una lunga boccata di fiato e mi feci coraggio.
-chi vuoi prendere in giro? Nessuno mette le tombe in un posto così. Le tombe stanno al cimitero... come quella della nonna.-
Mio cugino mi guardò indispettito e si piantò sui piedi smettendola di girare come una trottola intorno al tempietto. Capii di averlo ferito in qualche modo e per un istante mi sentii più forte di lui. Ma l'illusione durò pochi istanti perché sul suo volto si fece largo un sorriso sinistro che gli sconfinò negli occhi.
-allora non ti va di dare una guardatina vero?- mi incalzò.
-Tanto lo so che non c'è nessuna bara li dentro!- esclamai con sufficienza.
-E allora guarda... guarda da solo se racconto frottole!-.
Lo guardai fisso per un istante. Mi avvicinai al tempietto dopo aver fatto un giro tutto intorno. Anche il soffitto sembrava sul punto di cedere. Possibile che nessuno venisse a visitare una tomba da così tanto tempo da non accorgersi che tutto andava in malora? Ero sempre più convinto che mio cugini voleva soltanto farmi prendere uno spavento ma dovevo farmi coraggio in ogni modo per non cedere ad una paura completamente irrazionale e selvaggia che iniziava ad attanagliarmi il cuore.
Alla fine mi feci coraggio. Mi avvicinai poggiando le mani sul muro bollente e portai l'occhio alla fessura.
Ci vollero alcuni secondi prima di distinguere all'interno qualsiasi forma ma ad un tratto, proprio come uno spettro che esce dall'oscurità la vidi. Era lì, di un bianco appena ingiallito, completamente ricoperta di polvere caduta dal soffitto basso e di qualche pezzo di intonaco. Era piccola come una valigia. Niente di più. Non avevo mai visto una cosa simile prima di allora ma non ebbi nessun dubbio. Quella era una tomba. Piccola e sperduta in mezzo a quel maledetto deserto di sole e ortiche.
Staccai gli occhi da quello spettacolo. Terrorizzato.
-andiamo via da qui... non è bello che stiamo qui- dissi con la voce che tremava terribilmente.
-hai visto che dicevo la verità?- mi incalzò mio cugino.
-andiamo via ho detto!- gli gridai.
-e perché?- disse lui tutto ringalluzzito dal mio terrore-tanto...-, fece una pausa dolente, - tanto qui non ci viene nessuno...-.
Fu allora che, facendo un passo indietro, lo vidi afferrare un grosso bastone e infilarlo nella fessura. Cercò con accanimento di allargare il buco per poterci infilare la mano o dio solo sa cosa e tentò anche di colpire la piccola bara facendo roteare quel maledetto affare.
-perché non ce ne andiamo?- gli chiesi quasi implorante-
-voglio vedere se riesco a rovesciarla!- mi disse fulmineo. I suoi occhi... i suoi occhi erano accesi come due braci e ad un tratto stentai a riconoscerlo. Anche i suoi tratti, stravolti dallo sforzo e dall'eccitazione erano cambiati improvvisamente.
-lasciala in pace- gli dissi fra i denti. Ma lui non fece caso alle mie parole e continuò nelle sue operazioni. Ben presto riuscì ad aprire un buco sufficientemente grande da far passare il braccio e non perse tempo per infilarcelo.
Rimasi impietrito osservando i suoi gesti convulsi. Era avvinghiato come un insetto a quel muro di pietra e scalciava con forza per riuscire a trovare un appiglio che gli permettesse di fare suo qualche centimetro in più.
Cercava in ogni modo di toccare quella bara che qualcuno aveva deciso per chissà quale maledetta ragione di mettere proprio in quel posto e lo sforzo gli contorceva la bocca in una smorfia oscena.
-lasciala in pace!- gli gridai indietreggiando ancora.
-lasciala!!! Lascialaaaa!!!!!-urlai. Sentii la gola grattarmi per lo sforzo.
Lui non mi guardava più. Sembrava non sentire più nulla se non l'impulso irrefrenabile di toccare quella bara.
-Ti ho detto di lasciarla in pace!- gridai a squarciagola per l'ultima volta. Sentivo i suoi mugolii.
Quello spettacolo mi contorceva le budella.
Corsi via. Corsi via senza pensarci due volte.
Mi ritrovai per i campi inondati dal sole.
La luce si faceva largo ovunque come se non tollerasse interruzioni. Talmente forte che disfaceva le forme e le ombre, i colori e gli spazi. Sono certo sarà capitato anche a voi di assistere a spettacoli di quel genere... ci sono luoghi, ci sono momenti in quei luoghi in cui tutto è luce. Il sole avvolge le cose in una morsa spietata e mortale e si infrange sugli alberi e li strozza e poi sui muriccioli abbandonati di campagna o in mezzo ai campi senza riparo e senza fine e le ombre sono fatte anch'esse di luce. Una luce così intensa e diretta che le forme si sgretolano e si frantumano al solo sguardo. Quasi si suicidano annegate in quell'oceano innaturale. Gli stessi rumori si spengono inghiottiti e sbigottiti.
In quel momento, vinta da una follia quasi demoniaca, la natura tace impaurita. In quel momento si ha come l'impressione che il diavolo in persona stia attraversando i campi fino ai pozzi remoti e profondi dove si attinge l'acqua per irrigare i campi e a volte, ci penso dopo anni di totale incoscienza a riguardo, si aveva l'impressione che sopra tutto quello spettacolo disfatto vi fosse una divinità disturbata..., malata.
Non tutto il mondo è bello. Di questo ci si accorge col passare degli anni. Tuttavia, in alcuni luoghi, quando i segnali allucinati sono troppi, credi, anche per un solo istante, che proprio lì, in quel posto preciso, la natura abbia il suo punto debole... il suo anello mancante.
Ci si chiede -chi ha concepito tutto questo?-.
Qui la natura sembra atterrita, spaventata da un sole che sembra voler far male ai suoi stessi figli. Qui anche le persone sembrano chiudere le imposte ogni notte col terrore nel cuore che fuori, ad un passo dai loro granai, stia passando qualcosa di terribilmente crudele. Allora, quando in lontananza sentono che i cani abbaiano fino a strozzarsi, restano nel letto, in silenzio, consapevoli come le bestie che il buio è una cosa che li può nascondere da occhi che li cercano mentre la luce li rivela in ogni momento.
Io corsi veloce come un fulmine e costeggiai il ruscello mezzo morto e i campi disseminati di spaventapasseri e calpestai le zolle senza curarmi del dolore che sentivo ai piedi. Sentivo il petto gonfiarsi per lo sforzo. Corsi più veloce che potevo, terrorizzato da una paura folle e irrazionale che sentivo nascere dallo stomaco e paralizzarmi i pensieri, impigliati nel gomitolo delle budella.
Dietro di me c'era il silenzio. Un silenzio che mi inseguiva galoppando in quella tetra prateria. Sapevo che mio cugino gridava. Gridava qualcosa che non potevo e non volevo sentire.
Arrivai alla grande casa senza fiato e trovai mia madre ferma davanti alla macchina. Mi fissò con uno sguardo inquietante non mi chiese nulla. Non mi chiese dove fossi stato né dove fosse mio cugino. Mio padre aveva già il motore acceso. Gli altri erano svaniti nel nulla. Di loro nessuna traccia. Mi girai un istante.
Dalla campagna desolata non veniva nessuno.
Diedi un ultimo sguardo alla casa. Era vecchia e brutta. Sembrava non avere un centro, tanto era sgraziata. Le finestre erano chiuse e sopra di loro, pesanti, anche le imposte erano serrate.
In seguito, diventato prima adolescente e poi adulto, mi sono imbattuto in ogni genere di stranezza ma vi assicuro che nessuna di esse si è mai radicata nella mia mente vivida e malvagia come l'immagine di quella mano protesa nel buio bramosa di toccare qualcosa di morto. Quella mano, a volte, la sogno ancora.
Perciò, quando mi chiedono se credo in Dio, io finisco sempre col rispondere di si dal momento che almeno una volta nella mia vita, credo di aver visto il Diavolo. A quel punto tutti fanno la stessa domanda. "E che cosa faceva il Diavolo quando l'hai visto?".
E io rispondo che correva nei campi.
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- è scritto benissimo, anche l'introduzione, tutta la parte sui ricordi... sembra scritto da un professionista, seriamente... complimenti davvero!!!

- Davvero bravo, scritto veramente bene! Mi è piaciuto un sacco: sei molto abile nel creare atmosfere inquietanti e scene di paura crescente.

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