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Sigilfredo. Il vero Infame!(Prima Parte)
17 Novembre 1982. Ore 17. 30.
Scuola Interforze di Telecomunicazioni, Slelmilit Chiavari.
Compagnia Comando e Servizi.
Infermeria.
<Signor Catalfamo vada subito in fureria
c'è una telefonata per lei>
<Pino... sono la mamma... papà è all'ospedale,
vieni subito a casa,
stai tranquillo comunque, non è niente di grave>
Sì, certo, papà non può avere nulla di grave,
troppo 'forte' Lui.
Ma come stracazzo faccio a muovermi?
Sono al terzo giorno di c. p. r.
La consegna di rigore è la più fastidiosamente infame.
Si sconta in rigide ristrettezze e si recupera a fine 'ferma'.
Ero disponibile del Corpo di Guardia.
Alle tre passate del mattino sento in lontananza,
<Colasuonno stà male,
dai Catalfamo monti tu,
alzati>
Mi rifiutai.
Addussi dolori alla pianta dei piedi,
rincarai accampando il non reggermi in piedi.
Colasuonno montava di Guardia Diana, azz, infinita.
Mi resi conto della mia coglionaggine guardando le spalle
del sergente che usciva dalla camerata.
Si recava da altro riservista.
Pensai di mettermi al vento.
Spalmai un bel po' di succo d'agave sulla totalità dei piedi.
Tenevo sempre una boccetta nell'armadietto.
L'agave è pianta grassa messicana dalle molteplici proprietà.
Il liquido all'interno delle foglie possiede la più interessante.
Urticante di brutto.
Basta spalmarne un po' e nel giro d'un paio d'ore,
la parte del corpo umettata fiorisce di pruriginose bolle bianche,
il diametro và dal mezzo al centimetro e mezzo, insopportabili!
Difficilmente si può capirne l'origine.
Qualsiasi medico, figuriamoci quelli militari,
si eleggono a Pilato e scrivono quindici giorni di licenza.
Come quelli che un paio di mesi prima scippai
per delle bolle bianche sul torace.
Dimenticavo.
Dopo ventiquattro ore le bolle scompaiono.
Procurarselo uno scherzo.
All'epoca in Corso Italia a Genova era pianta d'abbellimento
per svariati chilometri.
Infatti.
Verso le sette meno venti,
poco prima dell'alzabandiera,
l'ufficiale medico venne a farmi visita.
Non fu per cortesia.
Non potè far altro che diagnosticare nel rapporto
delle vesciche non identificate.
Sentenziò sette giorni di prognosi,
da espiare in osservazione nell'infermeria della caserma.
Il Dottor Palumbo mi salutò quasi sorridendo,
mi apostrofò con affetto 'Figlio di Puttana'.
Nel pomeriggio comunque...
Nella bacheca della Compagnia,
il mio nome figurò accanto a dieci giorni di c. p. r.
Abbandonata la verde cornetta con mia madre.
Sinceramente mi sentivo sereno, al confine del sereno.
La morte a quell'età è degli altri, ed io possedevo la fortuna
di non averla mai 'vissuta' da protagonista.
Poi mio padre.
Figuriamoci!
Il problema semmai, come cagionarlo al tenente Cugini.
Uscii dalla fureria, direzione infermeria.
Vidi Cugini, al trotto, muoveva verso me.
Non ebbi maniera di proferir parola.
<Signor Catalfamo, ecco.
Qui c'è una licenza premio di sette giorni
con decorrenza immediata.
Mi raccomando, esca in divisa.
La saluto>
Mi strinse forte la mano, forte, molto forte,
con un bellissimo sguardo da 'uomo'.
Guardai quel pezzo di carta del cazzo.
Per averlo,
spesso occorreva sfiorare la prostituzione dell'orgoglio.
Mai avrei avuto una licenza premio.
Piansi.
Disperato.
Il primo pianto da uomo.
Nessuna spiegazione poteva esser migliore
sulle condizioni di papà.
Arrivai a Genova alle una della notte.
Le una e mezza del mattino.
Non certo orario consigliato per le visite in ospedale.
Scavalcare il cancello fu un divertimento,
un giovane marinaretto, poi, non desterebbe il minimo sospetto.
Ma per trovare numero di camera e letto,
occorreva sfoggiare l'arte della parola.
La Caposala... un'affascinante Madre,
mi abbracciò con gli occhi,
conosceva già il mio dolore.
<Sei il figlio di Salvatore vero?>
<Sono il figlio>
Mai diedi gargantuesca importanza alla parola 'figlio'
come in quell'istante.
Nel tragitto in treno solo un pensiero.
<Gli voglio dire che lo amo,
che non sono arrabbiato con lui,
che è il mio idolo>
L'ultima volta che lo vidi lo apostrofai
con un poco amorevole 'stronzo'.
Non voleva darmi 5000 lire.
Maledetta adolescenza infame!
Era da poco che papà mi onorava della sua parola.
Da qualche tempo non la concedeva... a me.
Circa tre mesi prima di partire per la leva,
mi venne a prendere.
Da cinque giorni mancavo da casa.
Mi venne a prendere,
con mia madre.
Non disse una parola,
non mi guardò neanche
e lo fece per interminabile epoca.
Dio!
Come avrei preferito, avrei pagato,
per un pugno in faccia
varcando il portone di Marassi.
Non quello dello stadio di Genova.
Quello del carcere.
Entrai in quella stanzetta blu.
Tubi ovunque.
Mi parlò con quegli occhi vivi e cangianti,
<Pino, figlio mio...
Ora tocca a te, piccolo uomo, ce la farai?>
Mi parlò d'amore e dubbio,
gli tolsi ogni dubbio.
Mi dissero che gli occhi aperti era una 'contrazione',
che non poteva capire,
il coma faceva 'profondo' di cognome.
Avrei voluto dissipare dubbi a primari e dottori.
Non avevo nè tempo nè voglia.
Non vidi mai più gli occhi aperti.
Volò via sei giorni dopo,
dandomi la mano.
Della settimana successiva al suo volo,
non ho praticamente memoria.
Conferma che la vita dura un istante.
L'attimo del presente.
Il vissuto muore non lasciando neanche il ricordo.
Quel presente mi elesse 'uomo'
che a quegli occhi 'doveva' rispetto per quella donna,
donna e madre.
Madre, che si trovava nell'indigenza materiale
d'un mutuo da pagare.
Donna, ancor più nel dramma dei sentimenti,
l'unico uomo che vide senza mutande era morto.
Da un mese papà se n'era andato.
Io sapevo che scherzava.
Lo vedevo tutte le notti in corridoio.
Mia madre stava vivendo qualche giorno,
relativamente sereno.
Era venuto a farle visita un vecchio cugino.
Sigilfredo Colonna.
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