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Rubik Hotel

Il mio sguardo, per motivi della mia vita che non sto qui a specificare, si è di molto ridotto, rivolto ogni santo giorno, ripetutamente, monotonamente, soprattutto ai volti e non al paesaggio. Per cui fatico ormai a risalire con gli occhi dalle mie traversie, dalla mia stessa scrivania, che ha assunto, da tempo ormai, l'aspetto di una parete.
Aveva esordito così, Tom Hornby, nella sua "lettera di giustificazione". Chiamavano così la richiesta di alloggio da presentarsi debitamente firmata alla Commissione Esaminatrice incaricata delle accettazioni, e chiamavano Rubik Hotel il posto presso il quale la sua era stata, dopo lungo esame, finalmente accettata.
In realtà si trattava più che di un albergo, di un nosocomio con 27 camere singole di forma cubica fatte ruotare alla bisogna attorno a un nucleo sferico e, per questo, affaccianti a periodi su scenari e paesaggi artificiali.
Nel loro insieme le 27 camere cubiche formavano un cubo più grande. Dunque l'albergo era un cubo costituito di cubi, insomma un cubo di Rubik ingigantito (da cui il nome della struttura) nel quale si potevano vedere, in conclusione, per chi osservasse il palazzone in questione dalla strada, i 9 quadrati corrispondenti a ciascuna delle 27 camere, per ognuna della quattro facciate.
Ogni stanza era fornita di un terrazzino e di una finestra.
Sento la necessità, aveva continuato Hornby nella sua lettera, di chiudere, di spegnere la mia anima e riaccenderla altrove.
Giunse al Rubik di notte. L'accolse un inserviente vestito con una casacca gialla che senza neanche rivolgergli la parola, figuriamoci aiutarlo, gli piazzò in mano la chiave della sua stanza e gl'indicò col pollice l'ingresso dell'ascensore alle sue spalle.
Salito in camera, Hornby trovò l'accesso al terrazzo chiuso da una tapparella e la finestra spalancata.
Poggiato il suo pesante borsone sul letto, andò ad affacciarsi alla finestra per curiosare e, subito, una voce registrata cominciò a sussurrargli sensazioni ricavabili dalla vista dello scenario notturno presentatoglisi allo sguardo.
"La notte dell'eccidio" gli sibilò la voce "la luna piena, grassa e sudata, se n'è stata appollaiata per ore sulla schiena di quelle montagne. Pochi fili di nubi fanno l'effetto di capelli scomposti. Se n'è stata così la luna, a bersi l'orizzonte frastagliato come un guscio d'uovo spaccato in due, pigra di una pigrizia quasi morte, quasi fosse al primo sonno. Finché a un certo punto - guardala Tom - a un certo punto si è sollevata indolente, alitando contro la terra. Una luna antica, che arcuata la schiena per sgranchirsi nel silenzio e cominciare con ritardo il suo turno, si è spalancata allo sguardo degli insonni, al tuo sguardo Tom, e poi ha iniziato a scialbare la campagna - guardala - solleticando il pelo fosforescente delle bestie, e facendo scintillare le foglie come rasoi".
Non si turbò Hornby. Per niente. Perché gli sembrò, tanto era immerso nei propri pensieri, d'averli pensati lui quei sussurri. Arretrò lentamente e chiuse la finestra. Non aprì la tapparella per uscire sul terrazzino, non ci pensò nemmeno, sentì di colpo d'esser troppo stanco, stanco morto, e non ci mise molto, una volta indietreggiato, a spogliarsi, lavarsi, mettersi in pigiama, coricarsi e crollare in un lungo sonno.

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