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Uomini dalla barba lunga
Un passo dopo l'altro.
Un piede si sussegue al precedente in un ticchettio ovattato e regolare provocato dalle scarpe sgualcite che picchiano sul marmo. Nessuno si gira, nessuno incontra il suo sguardo, nessuno ode il ritmo regolare delle solette: consapevole indifferenza che la gente nutre verso chi, a differenza loro, non può permettersi una camicia sempre pulita.
Svolta un angolo e si ritrova in un'altra strada priva di significato: non c'è un abitazione che lo riguarda, né un ufficio, né tanto meno un luogo ove entrare e trovare il caloroso affetto di un amico che lo invita a sedersi e a prendere un alcolico per raccontargli le ultime vicissitudini con la propria ragazza. Nulla di tutto questo è riservato a coloro che indossano gli abiti immancabilmente forgiati dal tempo passato in strada e portano la barba lunga per proteggere il viso dal freddo imperterrito che aleggia quando ci si trova senza un tetto a dividere il proprio capo dalle stelle. Ogni tramonto è uguale al precedente, a ogni notte segue sempre un giorno che si differenzia da quello passato come i passi nel marmo si differenziano l'uno dall'altro. È questa la vita che conduce un uomo dalla barba lunga e dagli abiti sgualciti; a volte uno scalino, altre volte una panchina sotto un albero possono offrirgli riposo e accoglienza al pari di un letto; mezzo panino abbandonato da un turista può placargli parte del vuoto provocato dall'arrogante fame al pari di un pasto caldo, una scatola di cartone rapita al supermercato del quartiere gli offre caldo e protezione come un piumone o un plaid. Agadit passa così la sua vita, trascinandosi da un luogo all'altro dalla città senza alcuna meta apparente, in cerca di qualcosa che possa aiutarlo a placare e mai soddisfare i suoi fabbisogni primari; però lui conserva un segreto, una speranza, un obiettivo che non ha mai confessato a nessuno dei suoi amici migliori per paura di essere tradito: nei bagni della metropolitana abbandonata conserva una scatolina di cartone simile a quella dei cioccolatini, dal vivo colore rosso reso ormai simile al nero dal tempo e dalla sporcizia. Tutte le notti, quando i suoi coinquilini si sono adagiati sulle braccia di Morfeo, lui la apre per poi richiuderla subito dopo, il tempo preciso di posare qualcosa prelevata dalla tasca del giubbotto; avvolge la scatolina nel suo panno consunto e la ripone in un quadratino di spazio ricavato sotto una mattonella. Compie questo monotono gesto da ormai otto anni a questa parte, tutte le notti... o quasi. Incastona la mattonella premurandosi di non fare alcun rumore e si dirige verso il suo "letto", posizionato ai piedi di un lavandino, si sdraia sulla stuoia di cartone e tira il vecchio e rattoppato plaid fino a coprirgli parte dei capelli, si gira di un fianco e si addormenta.
Quest'oggi, le nuvole del giorno prima avevano lasciato il posto ad un fulgido sole che penetrava dalle piccole finestre sopra gli specchi rotti dei lavandini; Agadit strizzò gli occhi, quando aprendoli i raggi gli perforarono le pupille. Si alzò e raccolse cartone, plaid e una busta, insieme di oggetti che lui definiva inconsciamente come suoi "averi". Si lavò il viso con dell'acqua che cadeva a gocce da una vecchia tubatura e salì in superficie, dove il mondo continuava, dove alla sua destra e alla sua sinistra passavano famiglie con macchine fotografiche appese al collo, uomini d'affari in smoking e ventiquattr'ore, postini in bicicletta e ragazzi ben vestiti. Tutti diretti verso destinazioni ignote, intenti a portare a termine i compiti prefissati per la giornata.
Agadit camminava, passo dopo passo, come sempre evitato, mai guardato negli occhi: nessuno che gli chiedesse un indicazione per raggiungere un luogo o un accendino per dar fuoco ad una sigaretta. Un fantasma delle strade, ectoplasma della società, spettro dei quartieri.
Finalmente, passo dopo passo, scorse un edificio in fondo alla strada, ne varcò la soglia e un sacerdote lo accolse, unico uomo con la barba corta capace di lanciargli un sorriso radioso sostenendo il suo sguardo. Il padre afferrò la spalliera di una sedia e la tirò verso di se producendo un acuto stridore dovuto al pavimento in legno. Agadit, sotto invito del padre si sedette e una donna anziana fece capolino ponendogli sotto il naso una ciotola colma di una brodaglia di verdure, rara prelibatezza per chiedere un armistizio coi lamenti del suo stomaco. Quest'oggi, quando Agadit ebbe finito il suo squisito pasto, decide di non soffermarsi per fare quattro chiacchiere col sacerdote, né tanto meno con gli altri uomini dalla barba lunga inzuppata di brodaglia alle verdure. Aveva da fare, era un giorno che aspettava da otto lunghi e acronici anni. Si limitò a chiedere al padre se avesse qualche camicia pulita e questi, frugando nella pila degli indumenti raccolti per i poveri, gli rimediò una camicia verde di una taglia più grande. Agadit, sfoggiando un sorriso che tagliava in due la folta peluria, strinse con entrambe le sue mani quella del padre e lo ringraziò, consapevole che questa fosse l'ultima volta che le loro vite s'incontrassero in quella lugubre cantina, ma lo tenne per se, e, sopraffatto dall'amore e dall'emozione abbracciò il padre che risoluto, ricambiò l'abbraccio in tutto il suo affetto.
Agadit, passo dopo passo, risalì le scale che lo condussero fuori dalla cantina, senza ardire a ricacciare indietro una lacrima che titubante gli sgorgò dalla cornea andandosi a perdere nell'intreccio della sua barba, come una goccia di rugiada che scivola da una foglia per perdersi nella tessitura di un cespuglio di rovi. Infilò il suo giubbotto stazzonato e si avviò passo dopo passo verso la sua meta. Ora, anche lui come molti altri aveva una meta, frutto della sua consapevolezza di non aver mai smarrito la voglia e la forza di dare una svolta alla sua situazione.
Abituato a percorrere decine di chilometri con la forza delle proprie gambe non avvertiva il minimo dolore quando, sul tardo pomeriggio, si fermò d'avanti all'entrata di un parco pubblico. L'appuntamento era fissato in fondo al parco, sotto al salice più grande per le sette di quel pomeriggio e Agadit era in anticipo, come d'altronde per tutti gli appuntamenti della sua vita: era un uomo dai sani principi e riteneva che la puntualità fosse segno di rispetto e correttezza, ma questa volta l'uomo con cui aveva appuntamento lo aveva preceduto. Sotto il salice piangente, una figura con una giacca simile ad un frock-coat e un borsalino che gli teneva in penombra il viso se ne stava appoggiata al tronco. Agadit titubante gli si avvicinò, quell'uomo rappresentava l'epilogo della sua condizione, l''intersezione nel binario della sua vita. Agadit salutò ma l'uomo non sembrò amare i convenevoli e partì direttamente al sodo chiedendogli se aveva la somma concordata. Agadit assentì e l'uomo, intimandogli di non dimenticare la somma, gli diede un orario e un luogo fissati per il giorno dopo. Detto questo infilò una mano all'interno della giacca ed estrasse una sigaretta, l'accese e liberando una nuvola di fumo si allontanò a passo svelto. A stagliarsi al di sopra dei salici che cadevano verso la terra c'era una nuvola, solitaria, bianca come una nevicata d'inverno; Agadit rifletté che in quel momento era come quella nuvola: da solo in un grande viaggio sconfinato, motivato e sospinto dalle sue ambizioni nonostante le amare e ardue difficoltà. Passo dopo passo s'incamminò per tornare al bagno della metropolitana: cartone e sacco di plastica in una mano, il plaid arrotolato nell'altra. Quando il sole aveva con titubanza lasciato il posto ad una luna piena, Agadit era ancora lungi dalla sua meta e si fermò a riposare le stanche membra dentro un casotto abbandonato.
Un topo guizzò alla sua sinistra incanalandosi in un angusto passaggio che Agadit avrebbe scommesso non ci sarebbe passato. Spinse la maniglia della porta anti-panico che portava alla metropolitana e un ambiente impregnato di oscura umidità lo avvolse. Si diresse con frenesia verso il bagno, pregustando il momento in cui avrebbe estratto la sua scatolina per prelevarne il contenuto. Dopo otto lunghi anni stava per appagare la sua attesa, all'inizio gli sembrava surreale, impossibile, raggiungere ciò che si era prefissato, ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, aveva continuato a non perdere di vista il bagliore che lo motivava, quella piccola fiammella insignificante in un lungo corridoio buio e tenebroso e adesso c'era vicino, era all'ultimo round. Si accertò che non c'era nessuno a guardarlo e sfilò la mattonella perfettamente camuffata con le altre, pose le dita ai lati della scatola e la estrasse senza curarsi di prestare attenzione ai bordi taglienti delle mattonelle adiacenti e un rivolo di liquido caldo prese a scorrergli tra il medio e l'anulare. Non gli prestò il benché minimo interesse, ci voleva ben altro in quel momento. La scatolina adesso era più bella che mai: per Agadit il colore rosso era vivo e gradevole come quello di un cuscino in cui un re appoggerebbe la propria corona. Afferrò con delicatezza il coperchio ed un sorriso gli prese forma tra le labbra per morire subito dopo trasformandosi in una smorfia di incredulità e orrore: all'interno non c'era nulla, né una banconota né tanto meno uno spicciolo, era vuota come quel giorno in cui l'aveva trovata in un cassonetto dell'immondizia. Un grido atono e disperato lacerò le fredde e incolori pareti della struttura abbandonata. Agadit portò le braccia sopra la testa e serrando le mani in due pugni scagliò tutta la sua ira verso uno dei lavandini che si ruppe in più pezzi; poi passò agli specchi ed infine alle porte del bagno. Quando ebbe finito si ritrovò steso supino sulle fredde mattonelle. La sporcizia del suo volto si era fusa con il sudore e il sangue conferendo al suo viso una maschera irreale di decadenza e disperazione. Le lacrime continuavano a sgorgargli copiose assieme ai latrati di disperazione e impotenza. Singhiozzi gli fremevano nel petto, provocandogli fitte di dolore che affliggevano dapprima le costole per poi distribuirsi fino ai gomiti e infine alle mani; si girò prono e pose la mano sinistra per far leva ma il dolore fu tale da offuscargli la vista e intorpidirgli i sensi così ricadde e si rigirò con lo sguardo al soffitto. Continuò a urlare, per il dolore lancinante e la disperazione; qualcuno aveva osato rubargli ciò che in otto anni aveva raccolto con sudore e meticolosità.
Ma chi?
Non aveva parlato a nessuno del suo segreto e di questo era sicuro, non transigeva: numerose volte era stato ad un passo dal rivelare il suo piano al parroco o a Matteo, un suo fiducioso amico, ma la coscienza aveva sempre dettato la sua legge del sacro silenzio e finiva per avere la meglio sull'impulso. Dalle viscere della mente una rabbia, alimentata dall'impotenza e dalla cattiveria che risiede anche nell'uomo più giusto si fece strada fino ad affiorare sulla superficie di quel mare chiamato ragione e consapevolezza. Era sempre stato rispettoso della legge nonostante la legge non aveva mai tenuto in considerazione la sua persona e i suoi primari diritti; aveva sempre tenuto in alto i principi che governano la società nonostante questa non aveva fatto altro che arricciare il naso al suo passaggio, non aveva mai rubato nonostante farlo lo avrebbe agevolato e non aveva mai ucciso; ma in quel momento tutta la dignità e le convinzioni che nelle sue dure condizioni aveva selvaggiamente difeso caddero come la frana di un picco innevato dopo un maestoso boato. Si alzò elevandosi in tutta la sua statura e serrò le mani imbiancando anche le nocche, il dolore scaturito servì solo a dare manforte alla sua rabbia, un sorriso maligno e gelido prese forma nelle sue labbra aprendo un varco nella folta barba: avrebbe sbaragliato qualsiasi difesa si fosse interposta tra lui e il colpevole, avrebbe usato qualsiasi mezzo per ritrovare ciò che era stato trafugato.
Avrebbe ammazzato chiunque si ponesse sulla strada della verità.
Fine prima parte.
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- prima di dire qualsiasi cosa: la consecutio temporum (!). Passato, presente, poi di nuovo passato, briciole di trapassato. Mi raccomando, facci attenzione (anche ad alcuni refusi, come ha già fatto notare l'ottimo Ugo).
secondo: cazzo! Quasi un anno tra una pubblicazione e l'altra! 
ora, smetto i panni del pagliaccio e mi infilo quelli della persona seria.
la tua sensibilità ti permette di cogliere storie che non molti percepiscono. lo si era già visto col tuo precedente racconto, lo si nota anche adesso. perfetto.
descrizioni che funzionano ma che andrebbero talvolta snellite. Sono dell'idea che un bel racconto è quello con pochi aggettivi e molta azione. Ad esempio: per descrivere una giornata afosa reputo più efficace descrivere un ventilatore dal moto perenne piuttosto che una descrizione capillare della temperatura. Ovvio, è una mia preferenza, ma credo possa valere anche come consiglio.
Altre piccole imperfezioni. Assunti come "braccia di Morfeo", "l'ultimo round", echeggiano dall'anno zero
usa altre metafore.
Costruisci periodi molto complessi, quasi ubriacanti. Subordinate, coordinate... spezza un pochino. Fai respirare ogni tanto. Ricorda: se respira il personaggio respira anche il lettore.
Noto con piacere che azzecchi gli incipit. Incurisiosci. Hai gusto e senso del tempo quasi cinematografico (così come con i titoli). Non hai problemi con la narrazione in terza persona, conosci bene la narrazione onnisciente. La storia ha i ritmi giusti, comincia prosegue e (prima o poi) finirà. Molto bene.
Mi fermo qui. Aspetto la seconda parte per darti qualcosina in più.
Non smettere mai di scrivere. Mai. Per piacere 
Guido
- Valerio, ho notato che in quest'opera le descrizioni dei luoghi e del protagonista, ma anche le metafore utilizzate e le immagini create (a volte voltamente forti), rendono bene la "durezza" dell'argomento trattato e, confermano, ancora una volta, la tua grande sensibilità verso i tanti problemi della vita, nonchè la capacità, non da tutti, di "renderli arte". Leggendo il tuo racconto, si ha come l'impressione che tu abbia seguito il tuo personaggio in giro per la città con una telecamera... Bravo! Solo però il finale mi ha lasciato un po' insoddisfatto: forse perchè volutamente incompiuto e premessa di un continuo.. che spero, con tutto il cuore, arrivi presto.
- Da un'attenta lettura di questo lavoro, si ha l'impressione che il giovane autore abbia la convinzione filantropica che l'arte possa e debba avere un'incidenza di modificazione sulle cose del mondo. La sua compiuta e instabile figurazione dei luoghi e del protagonista, anche troppo particolareggiati, alterna suspense e distensione alla necessaria riflessione sul dramma di vicende umane spesso dimenticate. I particolari essenziali del protagonista fanno presumere che il narratore lo conosca o lo abbia saputo bene inventare. Nell'iter narrationis prevalgono bontà e generosità, alleggerendo così i toni rudi e deprimenti evidenziati alla fine della storia. Ritengo che Valerio La Ferla possegga un largo ventaglio di possibilità espressive, ma ancora da perfezionare. Non esagererei con particolari doppi (natura e soggetto), curerei meglio la consecutio temporum, abbrevierei i periodi e, prima di pubblicare, scoverei qualche banale ma pur grave errore. Vanno corretti: a differenza(di) loro, cadeva a goccie (gocce), scorge (scorge) un edificio, un sacerdote lo ccoglie (accoglie), sedia e e la tira (e la), appoggierebbe (appoggerebbe), affligevano d'apprima (dapprima), caddè (cadde), il dolore scaturitò (scaturito). Un "bravo!!!" comunque perché, dobbiamo ricordare che, errare humanum est.

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