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Cose da uomini
Aprii gli occhi nella stanza del conte poco prima dell'alba. Girai la testa sul cuscino un paio di volte prima di rendermi conto di dove fossi e di come il flusso obliquo degli eventi mi avesse portato lì. La sveglia, realizzata su commissione da un popolare designer tedesco, illuminava flebilmente la stanza con una luce verdastra. Segnava le 4 e 52. Inspirai ed espirai profondamente. Il conte non reagì. Probabilmente stava ancora dormendo.
Avevo perso fin troppo tempo lì dentro. Era arrivato il momento di andare. Spostai piano le lenzuola e, dopo essermi alzato, camminai indolenzito per la camera cercando i vestiti da rimettermi addosso.
Amare un uomo, possederlo e farsi possedere, è un'attività estremamente spossante. Con le donne era sempre stato più facile. C'è una legge non scritta che prevede che tu conduca le danze e che loro allentino i muscoli per farti arrivare dove vogliono loro. È tutto morbido, scorrevole, mellifluo.
Per quello che avevo potuto constatare quella notte, tuttavia, quando sono due uomini ad amarsi la situazione cambia radicalmente. Ognuno dei due ha nel DNA l'istinto a guidare l'amplesso e questo rende l'accoppiamento molto simile ad un incontro di lotta. E i miei muscoli, non certo allenati, pagavano ancora il conto per essersi mischiati con quelli di un uomo con una stazza bovina come quella del conte.
Una volta sgranchite le ossa e recuperati i vestiti sparsi per la stanza, non mi restava che prendere il mio quadro ed andarmene. Sgattaiolare via nel buio non era certo il massimo dell'eleganza, ma gli accordi che avevamo preso erano questi e non ero assolutamente preoccupato da questo tipo di convenevoli. Dopotutto ero lì per il quadro. Solo per il quadro. Nient'altro.
Era in una sala d'aste che io e il conte ci eravamo conosciuti. Va detto che era qualche anno che frequentavo il mondo delle vendite d'arte con una certa assiduità.
Dopo aver divorato un buon numero di libri d'arte contemporanea decisi di passare all'azione e di mollare tutto; la famiglia, gli amici, il lavoro. Probabilmente pensate che ci sia più di qualche parola da spendere su quest'argomento, ma vi assicuro che non ne vale la pena. Fu un sacrificio che non mi costò nessun dispiacere. Dopo averla mandata in malora mi accorsi che la mia vita mi apparteneva davvero poco.
Con i soldi della liquidazione avevo accumulato un gruzzoletto decente, non troppo lontano dal centinaio di milioni di lire. Tanto mi sarebbe bastato, o almeno così pensavo, per comprare tutti i quadri di Amedeo Pettinari, un pittore contemporaneo minore che era morto da una manciata d'anni, non molto popolare, ma abbastanza conosciuto dai veri studiosi del settore.
Si trattava, fatti bene i conti, di ventotto opere al massimo. Riuscire ad averle tutte, tuttavia, era diventata una vera e propria ossessione. Un'ossessione che mi aveva guidato tra le sale d'aste di mezza Italia, che mi aveva tenuto sveglio durante le notti passate a guardare TV private che si occupavano di compravendita di oggetti d'arte e che mi aveva tolto l'imbarazzo di bussare alla porta di nobiluomini in disgrazia che si vendevano pezzi di casa per cercare di mantenere quello stesso stile di vita dispendioso che li aveva portati alla rovina.
La stessa ossessione, tuttavia, mi aveva portato ad entrare in possesso di ventisette tele di Pettinari.
La ventottesima, "Il bambino che suona il flauto", era stata messa all'asta, un po' meno di ventiquattro ore prima del mio risveglio sul letto del conte, insieme ad altre opere di artisti minori del XX secolo nella Sala Estense di un grande albergo di lusso di Ferrara.
Ero piuttosto sicuro di riuscire a comprarla dato che mi erano rimasti circa dieci milioni del budget iniziale ed ero riuscito a comprare quasi tutti gli altri dipinti a cifre non superiori ai cinque. Il batticuore e la paura di non riuscire a farcela, che mi avevano stretto la gola durante tutte le altre trattative se n'era andata. Ero sicuro, cazzo. Sicuro.
Quando fu battuto "Il bambino che suona flauto" si scatenò la solita selva di offerte basse. Per far desistere i compratori casuali, che probabilmente rilanciavano senza voler effettivamente accaparrarsi l'opera, bastava rilanciare forte, tagliandogli le gambe.
Sorridendo alzai il prezzo a quattro milioni. Pensavo sarebbero bastati. Ma mi sbagliavo.
Dal fondo della sala arrivò un'offerta da cinque. Era la voce del conte. Mentre smettevo di sorridere un brusio incuriosito riempì il silenzio affettato della Sala Estense.
Offrii subito sette milioni, ma il conte si spinse a sette e mezzo. Pochi secondi dopo il mio ultimo disperato rilancio da dieci milioni fu superato da quello, decisivo, da undici fatto dal conte.
Anche se non avevo più soldi, pensai per un istante di riprovarci. Capii tuttavia, che per quanto alta fosse stata la mia offerta, il conte avrebbe puntato di più. Probabilmente non era una questione di soldi. Nemmeno per lui.
Decisi di mollare l'asta e di elaborare un piano B prendendo l'opera direttamente da lui, in qualunque modo. Qualunque.
Lo seguii fuori dall'albergo e lo bloccai nel parcheggio proprio mentre un facchino, con l'aiuto del suo autista, stava caricando il dipinto nel portabagagli della sua Mercedes Nera. Dopo avergli stretto la mano facendogli i complimenti per l'acquisto, lo convinsi a bere qualcosa con me nel bar della hall.
Se c'è qualcosa che questi anni spesi nel sottobosco degli oggetti d'arte mi hanno insegnato è che, a volte, capire quello che un persona vuole veramente, non è difficile. Basta guardare gli altri con attenzione, ascoltare davvero ciò che stanno dicendo. Non c'è modo migliore per essere padroni delle relazioni umane e scavare realmente nel cuore degli altri.
E così feci con il conte davanti al bancone del bar di quell'Hotel di Ferrara. Guardai e ascoltai. E capii cosa dovevo concedergli per avere il quadro di Pettinari, il "mio" quadro. E, dato che oramai non potevo più tornare indietro, consumammo lo scambio quella sera stessa, sotto alle sue lenzuola.
Ad affare fatto camminavo a passi lenti sui tappeti persiani che impreziosivano i corridoi dell'enorme attico del conte cercando l'uscita, sereno, senza rimpianti. "Il bambino che suona il flauto" oramai era mio, come tutte le altre opere di Pettinari. Pensandoci bene, avrei dovuto sapere che questo viaggio si sarebbe concluso in questo modo.
"Cerchi l'uscita?"
"Eh?!" Mi girai strabuzzando gli occhi. Ancora una volta era la voce baritonale del conte a scombussolare i miei piani.
"Ti ho spaventato? Ti chiedo scusa."
"Veramente..." abbassai lo sguardo con un certo imbarazzo.
"Non preoccuparti. Non mi aspettavo niente di più. Sapevo che eri qui solo per il quadro. Mi sono accorto che era la prima volta. Nel senso, normalmente ti piacciono le donne, vero?"
"Beh... ehm... sì... diciamo che era la prima volta..."
"Sai perché ho voluto prendere quel Pettinari?"
"No."
"Perché avevo letto nella tua voce che avresti fatto qualsiasi cosa per averlo. Volevo solo vedere fino a che punto saresti arrivato. È bello aver ragione."
"Già..."
"Sì, ma... c'è solo un'ultima cosa che vorrei sapere."
"Sì..."
"Perché?"
"In che senso perché?"
"Perché sei ossessionato in questo modo da questa tela di Pettinari? Lo stavi pagando ad un prezzo fuori mercato, e sei addirittura arrivato a scopare con un uomo per averlo. Ci deve essere qualcosa dietro. Dopo avertelo concesso credo di avere il diritto di sapere."
Non riuscendo a dare una risposta, aprii con forza l'imballaggio della tela.
"Non noti niente, conte? Non li vedi gli occhi verdi del bambino? Non sembrano uguali ai miei? A dirla tutta, conte, sono proprio i miei. Ora che hai avuto il tuo cazzo di perché sei contento, signor conte?"
Caricai la tela nel vano del mio furgone. Ora tutte e vent'otto erano lì dietro. Dopo aver messo in moto guidai veloce verso il mare. Un'alba pallida e timida, nascosta dietro ad un velo di foschia, illuminò il cielo sopra l'Adriatico con una debole luce invernale. Dopo qualche ora sarebbe arrivata la pioggia.
Arrivato sulla spiaggia, scaricai sulla sabbia tutte le tele. Le sistemai meticolosamente una sopra l'altra in ordine decrescente, dalla più grande alla più piccola. Versai sulla pila un'intera tanica di benzina e ci buttai sopra il mio accendino. In pochi secondi le fiamme divamparono energiche, riscaldando il vento gelido che veniva dai Balcani.
Rimasi lì a guardare l'espiazione delle colpe del mio aguzzino Amedeo Pettinari, il pittore. Cenere lui, cenere le sue opere. Nel giro di poco tempo nessuno si sarebbe più ricordato di lui. La pena peggiore per un artista.
Perché, Amedeo Pettinari, non avresti dovuto convocare i bambini di otto anni nella tua bottega per fargli prendere in bocca il tuo flauto e per metterglielo nel culo. Non eri autorizzato a rovinarmi la vita per soddisfare le tue voglie da depravato. Ho avuto gli incubi per anni, lo sai? Pensavi di potertelo permettere solo perché eri un fottutissimo artista? Fanculo Amedeo Pettinari. Spero che Satana ti stia riservando lo stesso trattamento con cui ho distrutto i tuoi maledetti quadri.
Rimasi a guardare. In un paio d'ore il rogo delle tele aveva finito di bruciare. Un viaggio progettato da una vita e durato quasi dieci anni era terminato.
Passò un ciclista che, attratto dall'odore di bruciato, si fermò accanto a me.
" Ma qui si è bruciato tutto! E che cavolo facciamo adesso?" mi chiese posando la bici.
" Non lo so... adesso non lo so proprio." Risposi.
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