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Civiltà violenta
Passato remoto.
La piccola imbarcazione mercantile, poco più d'una zattera, attraversava il Mar Ligure proveniente dalla Corsica. Il cielo era limpidissimo, il sole splendeva infuocato.
Gli stanchi e silenziosi marinai erano liguri di Vada Sabazia, scuri di carnagione, magri e piccoli di statura ma assai vigorosi. Carichi delle preziose mercanzie della loro terra, avara nella quantità ma generosa nella qualità dei prodotti, erano approdati nei porti etruschi di Populonia e dell'Elba, ben accolti dai locali Lucumoni, intrattenendovi fruttuosi commerci. Si erano quindi diretti al porto punico di Olbia. Terminata la compravendita, prima di rientrare in patria avevano compiuto un'ultima breve sosta ad Alalia, località sulla costa orientale dell'etrusca isola di Corsica, dove avevano svolto gli ultimi scambi.
Rodati lupi di mare e abili mercanti, i sabazi mancavano da casa da tempo e attendevano con ansia il momento di riabbracciare i propri cari. Guidati da un esperto capitano e da un giovane e capace nocchiere, remavano con lena e osservavano la costa avvicinarsi lentamente, con i suoi promontori, le sue insenature e le sue impervie scogliere, alle cui spalle s'innalzavano verdi e ondulate colline ricoperte di lecci, sugheri e castagni. Era il primo pomeriggio e l'amato isolotto, che da sempre fungeva da punto di riferimento avvicinandosi al villaggio natio, s'intravedeva a stento, molto lontano all'orizzonte. L'agognato approdo avrebbe dovuto attendere ancora un po'.
Poi il nocchiere Doriano avvistò un possente quadrireme, d'apparente origine punica, puntare dritto su di loro e se ne preoccupò. I pirati cartaginesi erano uno dei maggiori pericoli in cui potevano incappare i naviganti e lui conosceva quel genere d'imbarcazione. Con i suoi 250 uomini di equipaggio, l'alta velocità di punta e i due timoni a garantirgli una grande manovrabilità, godeva di una superiorità schiacciante, rispetto ai semplici navigli liguri. Il litorale era ancora lontano e se quella nave s'interessava a loro non avrebbero mai potuto sfuggirgli. In caso poi di scontro corpo a corpo, per quanto indomiti fossero, come potevano scampare a forze così soverchianti? Il capitano ordinò di accelerare il ritmo di voga, ma non poté impedire che il quadrireme li raggiungesse. Decise allora di opporre resistenza. D'altronde non vedeva alternative. Come pensare, infatti, alla resa? Non avevano forse tutti una famiglia bisognosa dei loro guadagni per sopravvivere? Certo, reagendo sarebbero forse periti, ma in caso contrario avrebbero perso ogni avere e loro stessi sarebbero stati risparmiati solo per essere venduti come schiavi. Avrebbero dunque mostrato ai predoni punici la forza, la rabbia e l'orgoglio dei liguri sabazi.
Doriano ascoltò il superiore, pensò con mestizia all'amata sposa, giunta ormai al settimo mese di gravidanza e si rassegnò a combattere. Avrebbe venduto cara la pelle.
Così i cartaginesi risposero al loro rifiuto di arrendersi facendo piovere una salva di frecce sull'imbarcazione. Quindi il veliero nemico puntò dritto su di loro giungendo a contatto. I liguri combatterono disperatamente per impedire ai guerrieri di salire a bordo, riuscendo anche a respingerne alcuni in mare, ma non poterono arrestare l'assalto. Presto il ricco aristocratico al comando fu sul ponte con i suoi uomini e da quel momento furono le spade a parlare, mentre il sangue scorreva a fiumi, finché non rimase che il silenzio della morte.
All'imbrunire, quando un peschereccio proveniente da Savo, villaggio appartenente alla medesima tribù di Vada Sabazia, scorse il malandato mercantile alla deriva e lo soccorse, fu trovato un solo superstite, Doriano, il quale morì alcune lune dopo, poco dopo la nascita del suo primogenito, per i postumi delle ferite riportate in combattimento.
Passato prossimo.
Si era entrati nel 1528 dopo Cristo e da mesi Savona era cinta d'assedio per terra e per mare. Dal mare le navi genovesi bombardavano incessantemente i quartieri savonesi e i soprastanti castelli di San Giorgio e dello Sperone. Nel frattempo le truppe di terra sciamavano nella piccola piana, attorniando i 2500 metri di mura cittadine. Savona, presa tra due fuochi, era allo stremo. Il cibo era terminato, l'acqua scarseggiava, l'igiene era precario.
I fratelli Marco e Mario Driano, liguri da generazioni e rispettivamente a capo dell'amministrazione cittadina e dell'esercito difensivo, erano riuniti nel mastio centrale del Castello di San Giorgio insieme ai principali maggiorenti. Dovevano stabilire il da farsi e meditavano la resa. I morti in città non si contavano più e in alcuni quartieri erano scoppiati focolai epidemici. Insistere a combattere avrebbe solamente causato altre innumerevoli quanto inutili morti. Era soprattutto Marco, spalleggiato dai commercianti, a voler capitolare. Tuttavia la resistenza del fratello minore Mario, fino a pochi giorni prima pervicace, stava venendo meno.
All'improvviso, a un terribile rumore di tuono seguì un violento tremore e alcuni calcinacci caddero sulla tavola intorno alla quale sedevano i notabili. Una cannonata aveva colpito la base della torre. Il castello era possente e avrebbe resistito, ma i continui attacchi fiaccavano la volontà degli assediati. Mario si portò la mano al volto, angosciato. Poi udì delle grida. S'alzò e andò a guardare attraverso le feritoie. Sotto a quella rivolta a ponente vide un gruppo di concittadini distesi a terra, colpiti da un proiettile lanciato dalla catapulta. Alcuni di costoro erano immobili, altri si lamentavano pietosamente. Due soldati sopraggiungevano a prestar loro i primi soccorsi. Il generale fissò impotente la scena e finalmente si decise. Marco aveva ragione, non voleva più altre morti sulla coscienza, continuare a resistere era insensato.
Due ore dopo l'esercito della Superba fece il trionfale ingresso in città. E il mattino successivo i genovesi iniziarono a interrare il porto e a completare la distruzione di interi quartieri cittadini.
Presente.
Il funzionario dell'ambasciata italiana in Libia Davide Briano, che si vantava di discendere da un'antica famiglia savonese al vertice del governo cittadino cinquecentesco, era tra i pochi italiani ancora presenti nel paese dopo la crisi dei rapporti diplomatici col regime di Gheddafi. Era da poco giunto nel consolato di Misurata, terza città della nazione nordafricana, per assistere alcuni connazionali italiani momentaneamente impossibilitati a lasciare il paese.
Il quartiere in cui erano ubicati gli uffici diplomatici erano in condizioni disastrose. Molti dei palazzi che sorgevano a ovest erano stati semi demoliti dai bombardamenti francesi - e poi NATO - iniziati a fine marzo, responsabili peraltro di numerose morti su ambo i fronti, e dai lanci di missili decisi dal dittatore libico a partire dal successiva metà d'aprile. Gli edifici a nord fino a quel momento si reggevano in piedi, ma alcuni erano pericolanti ed erano stati evacuati. Ad esempio il palazzo che s'innalzava, ancora imponente ma ormai spettrale, esattamente di fronte al consolato, nella piazza principale del rione, aveva i vetri delle finestre rotti e mostrava alcune profonde crepe a minarne la struttura. Per fortuna invece gli edifici circostanti a sud e a est, compreso quello consolare, erano ancora integri. Ma fino a quando?
Proprio in quel momento, nonostante la notizia che l'esercito regolare aveva abbandonato la città, nell'ampia piazza su cui si affacciava la finestra dell'ufficio era in atto uno scontro tra una compagine di ribelli e un drappello militare fedele a Gheddafi. I due gruppi si fronteggiavano ma i ribelli, raggiunti dal fuoco di alcuni carri armati piazzati all'angolo tra la piazza stessa e una delle strade che in essa sfociavano, erano costretti ad arretrare. Dalla sua finestra di osservazione Briano non poteva scorgere i mezzi blindati, perché superavano il suo angolo di visuale, ne sentiva però la rumoreggiante presenza. Poi un colpo centrò in pieno una parte dei rivoltosi e, quando il fumo dell'esplosione si fu disperso, vide tre cadaveri giacere scomposti sul lastricato.
Gli altri insorti invece erano arretrati fino a portarsi oltre l'angolo del palazzo crepato, mentre i carri armati, due, avanzavano di qualche metro, entrando così nella visuale dell'italiano.
Davide Briano distolse, angosciato, lo sguardo e si lasciò pesantemente cadere nella poltrona d'angolo. Possibile che non ci sia più fine a questa immane tragedia? Domandò a sé stesso. Non ne poteva più di morti e violenze gratuite. La sua fu però una reazione tanto spontanea quanto di breve durata. Presto si riportò con decisione dinanzi alla finestra, fotocamera digitale alla mano, affrontando coraggiosamente il rischio tangibile di essere colpito da qualche pallottola vagante. Non voleva nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi. Così andava il mondo ai suoi giorni, che gli piacesse oppure no. Riteneva dunque suo dovere osservare e documentare il più possibile, a futura memoria, affinché simili orrori non si ripetessero. Perché Davide, nonostante tutto, aveva fiducia nel futuro: quelli dovevano essere solo gli ultimi contraccolpi di una fortuita congiuntura negativa, ma l'umanità avrebbe appreso la lezione e avrebbe imparato a convivere in pace e fratellanza.
I soldati stavano intanto guadagnando ulteriore terreno, avanzando alle spalle dei due carri armati. Uno dei militi era però rimasto a terra con la pancia squarciata e si agitava freneticamente in preda a un lancinante dolore. E proprio in quel momento le sirene d'allarme cominciarono a suonare. Presto sarebbe iniziato un nuovo bombardamento della flotta NATO in missione di pace.
Quel giorno era la domenica di Pasqua. Buone feste a tutti, pensò, avvilito, Davide Briano.
Futuro.
Le pesanti e massicce astronavi trasporta truppe scendevano sulla superficie di Fetonte, il terzo pianeta orbitante intorno alla stella Epsilon Eridani, a undici anni luce dalla Terra, protette dal fuoco di copertura dei micidiali incrociatori da battaglia. Gli indigeni cercavano d'impedire lo sbarco, ma le loro deboli armi nulla potevano di fronte alle possenti navi spaziali della lega terrestre.
Immobile davanti al maxischermo posto nella plancia dell'ammiraglia, l'incrociatore Alfred Nobel, e attorniato dal suo stato maggiore, Il commodoro Annibale Riano vide un raggio fotonico centrare una postazione difensiva fetontiana e annichilire decine di alieni, la cui unica colpa era quella di lottare per la salvezza del propria mondo.
Era stato suo padre, il presidente della federazione mondiale Guido Riano, primo italiano a rivestire il prestigioso incarico, a deliberare l'invasione. Pur tra mille dubbi e ripensamenti, dopo essersi consultato con gli altri otto esponenti del consiglio mondiale, peraltro unanimi nel loro proposito, aveva dovuto ordinare la missione. Purtroppo, per quanto spiacevole, la guerra appariva necessaria. La crisi economica, infatti, imperversava ed era in gioco il futuro stesso della razza umana.
Al comando della flottiglia terrestre era stato così messo Annibale, secondogenito del Presidente e ultimo discendente, così almeno sosteneva suo padre, di una famiglia le cui origini potevano essere fatte risalire addirittura al 420 a. C. circa. A quell'epoca remota, infatti, risaliva un raro documento cartaginese narrante l'assalto da parte dei pirati a un'imbarcazione ligure. Sul documento appariva tra gli altri il nome di quello che doveva essere stato il capitano del naviglio assalito, tale Doriano. Annibale non capiva bene su quali basi il padre considerasse costui un proprio antenato, ma siccome se ne diceva certo, al figlio non restava che prenderne atto.
E ora eccolo qua, il presunto discendente di quell'antico ligure preromano, a guidare la terza divisione spazio trasportata in una dolorosa missione di morte. Avrebbe in effetti preferito non parteciparvi, ma l'alternativa sarebbe stata quella di assegnare il comando al commodoro Borzoff e quel dannato bielorusso era un uomo troppo convinto che in guerra tutto fosse concesso, perché lui potesse permetterlo. La sua presenza rappresentava dunque il male minore.
Gli ufficiali al comando della flotta spaziale militare videro la prima astronave trasporta truppe atterrare al centro della vasta pianura alluvionale e i sei portelloni laterali aprirsi. L'esercito di terra stava per mettere piede sul pianeta. La seconda fase della missione era iniziata.
Annibale Riano scosse la testa. Stava pensando, con malinconia, a quel suo presunto antenato, morto forse durante un assalto di pirati e perduto oramai nella notte dei tempi. E ora lui, suo lontanissimo discendente, cos'altro era, agli occhi di quei poveri alieni dalla pelle arancione, il cui aspetto faceva venire in mente delle grosse strane rane con sei arti e la coda, se non un pirata? Insomma, contese, guerre e morte allora e contese, guerre e morte oggi, nell'evoluto A. D. 2211.
Possibile che in 2631 anni di storia nulla davvero sia cambiato? Si chiese Riano. Possibile che alla fine siano sempre le armi ad avere l'ultima parola? Possibile che l'aggressività e l'avidità umana non trovino mai altri sfoghi? Non era certo per essere lì oggi che aveva intrapreso la carriera militare. Lui aveva fermamente creduto nelle missioni di pace. E in effetti anche l'attuale era stata mascherata da operazione di pace. Vallo però a spiegare a quei poveracci che morivano per difendere la propria terra. Il commodoro avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo, ma nel profondo del cuore era amareggiato: quella umana era davvero una civiltà violenta.
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- Prima di tutto mi scuso per il ritardo nella risposta ma attualmente sono in pausa estiva, non amo scrivere e maneggiare il pc col caldo ed erano settimane che non entravo in internet. Dopodichè ovviamente ti ringrazio per visita e apprezzamento. Quanto a quello che tu consideri mio ottimismo: dubito che trasferire le guerre e le violenze ad altre civiltà sia un miglioramento rispetto all'ammazzarci tra noi, sempre che nel 2211 non si facciano entrambe le cose, naturalmente (non l'ho specificato, dopotutto). Ciao.
- Commento anonimo di Ellebi. Nuovi cordiali saluti
Anonimo il 16/07/2012 12:01
L'avventura dell'Uomo sulla Terra sarà sempre accompagnata dalla guerra, fino alla fine dei tempi. Tuttavia non deve venir meno la volontà degli uomini di ricercare sempre la pace secondo giustzia. Permettimi a questo proposito di citarti J. L. Borges, un poeta a me molto caro: "Niente viene edificato sopra la pietra, tutto sopra la sabbia, ma il nostro dovere è di edificare come se fosse pietra la sabbia". Credo renda bene l'idea di come dovrebbe essere il nostro comportamento rispetto alla guerra. Questo non significa che bisogna essere pacifisti a tutti i costi, e infatti io non lo sono. Il tuo racconto vuole mettere in evidenza la natura dell'Uomo rispetto alla guerra e sei anche ottimista se ritieni che forse fra un "paio di secoli" potranno non esserci più guerre (certo più di me). Ha scritto un ottimo e godibile racconto. Cordiali saluti. Ellebi
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- Di nuovo grazie per i complimenti. È lunga, sì. Che l'uomo riesca davvero a cambiare, almeno nei prossimi due secoli, purtroppo ci credo davvero poco.
- La narrazione è avvincente e il messaggio chiaro.
Chissà se riusciremo mai a diventare "civili" ? La strada è ancora molto lunga, mi pare.
D'altronde il DNA umano ci imparenta con Caino, in senso reale per chi crede, in senso metaforico per chi non crede (mi viene in mente la scena iniziale di "2001 Odissea nello spazio". Complimenti, sei una bella penna!
- Che posso dire, Alessandro? Solo un grazie grande grande.
Anonimo il 12/05/2011 15:33
Letto tutto d'un fiato, come sempre del resto. Mi stupisce sempre la tua capacità di inserire dettagli su dettagli, senza rendere minimamente pesante i tuoi scritti.
Anonimo il 04/05/2011 20:34
Sì Massimo, hai ragione... il mare è solo un mezzo per la narrazione... il tema è altro, ovvio. Avevo letto tutti e quattro i miniracconti, naturalmente... ed il tema è la civiltà violenta, che io trovo non sia poi cambiata molto. C'è strada, anzi mare, da fare per avere una civiltà pacifica... ciaociao, ancora bravo.
- Grazie per il giudizio lusinghiero. Anch'io ovviamente spero di no, ma l'uomo sembra incapace di trovare altre soluzioni
Anonimo il 25/04/2011 19:06
Chiaro il concetto espresso nel tuo racconto. Nel corso della storia sempre l'uomo ha cercatto di sopraffare i suoi simili. Tu lo hai estremizzato fino a fornire un grado di parentela tra il protagonista del primo racconto (passato remoto) e quello dell'ultimo (futuro). La guerra è imprescindibile dall'uomo? Non so nel futuro, spero di no. Finora però è stato così.
Ottimo.
- Non mi meraviglio, infatti. L'uomo non è però una bestia come tutte le altre, se le altre uccidono membri della propria specie, infatti, lo fanno solo per necessità istintive sviluppate dalla evoluzione per la sopravvivenza della specie stessa, non a gratis e con "perfida ottusa intelligenza" come facciamo noi. Ciao e grazie per la visita.
Anonimo il 24/04/2011 18:12
Di che ti meravigli? L'uomo è una bestia come tutte le altre, solo un po' più spocchiosa
- Grazie, non solo mare, però, se permetti. Questo è un racconto suddiviso in 4 microracconti del tutto indipendenti, ambientati uno nel 420 a. C. uno nel 1528 d. C., uno esattamente oggi, 24 aprile 2011, domenica di Pasqua e infine uno nel futuro, nel 2211, e insieme fanno un tutt'uno che vuol essere un mio atto di accusa all'umanità e al suo istinto sempre violento e guerrafondaio. In fondo il mio Civiltà Violenta non si stacca molto come tema trattato dal tuo raccontino-articolo che hai attualmente in home page. Ciao.
Anonimo il 24/04/2011 15:52
Bello, un racconto che ti riporta ai tempi andati... c'è crudezza, realismo e drammaticità ma ci sono anche le storie di mare ambientate poi in quelle rotte che faccio e conosco alla perfezione... parlami di mare come e quando vuoi ed avrai un attento lettori. precisi certi termini marinareschi usati nelle descrizioni... ciaociao.
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