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L'attesa
Quando si svegliò, si ritrovò in una stanza. Non si ricordava di esserci mai stato prima. Non era sicuro di essersi proprio svegliato lì, ma non riusciva a ricordare niente che precedesse la visione di se stesso seduto su uno sgabello girevole, con il sedile di pelle nero, davanti a una scrivania.
Era lì dentro.
Un computer era accesso, sentiva il ronzio della ventola di raffreddamento, o forse non era la ventola ma era comunque un rumore fastidioso e continuo. Ascoltando bene si rese conto che non proveniva dalla stanza, ma dalla sua testa, come se i suoi pensieri fossero ostacolati da un'interferenza costante. Scese dallo sgabello e si diresse verso la porta che stava alle sue spalle. Provò ad aprirla senza riuscirci: era chiusa dall'esterno.
- C'è qualcuno? - Urlò, senza avere risposta.
Una sensazione irrevocabile si fece strada in lui: doveva attendere. Non gli era mai successo di essere certo di qualcosa in questo modo. Era sicuro di dover aspettare. Normalmente in quella situazione si sarebbe fatto prendere dal panico o dalla rabbia, ma non successe. Non sapeva perché, ma sentiva, che almeno per il momento, l'attesa era l'unica possibilità.
Nella stanza non c'erano finestre, gli parve di sentire odore di zolfo. Si alzò e, guardandosi attorno, provo a schiacciare i tasti del computer ma non successe niente. Apparve solo la schermata in cui veniva chiesta una password. Si risedette sullo sgabello, girò il polso destro per guardare l'ora, ma si rese conto di non avere l'orologio. Questo sì! Lo fece alterare.
L'attesa cominciava a farsi snervante. Tornò alla porta e iniziò a battere pugni, ma non ebbe risposta.
- Fanculo.- Disse.
Si era quasi addormentato sullo sgabello, quando finalmente la porta si aprì e una donna dall'aria austera gli apparve.
- Rimanga pure seduto- Disse la donna, senza badare se lui si stesse effettivamente alzando.
La donna andò a sedersi alla scrivania e inizio a pigiare i tasti della tastiera.
-Allora- disse la donna dopo qualche secondo - lei sa perché è qui?-
- No!- rispose. - Non ne ho la minima idea, potrebbe spiegarmelo?.
- Non si preoccupi-, disse, facendo un sorriso sarcastico -lo scoprirà presto.
La donna ricominciò a battere i tasti della tastiera del computer mentre lui attendeva una risposta, impaziente. Avrebbe voluto dirle che il suo tempo era prezioso, ed era ora quell'attesa terminasse, ma non ci riusciva. Non aveva il coraggio di dire nulla, ed era la prima volta che gli capitava nella vita. Lui era abituato a comandare.
Era il titolare di un'azienda. Aveva venti dipendenti sotto di lui. Non gli era mai successo di non avere il coraggio di dire qualcosa. Sapeva farsi rispettare e spesso incuteva anche timore. Era fiero dell'immagine autoritaria che si era creato negli anni, ma in quel luogo tutto sembrava disfarsi. La sua personalità perdeva di consistenza. Era timoroso e non riusciva ad esprimere il suo disappunto.
Finalmente la donna tornò a rivolgergli la parola.
- Dunque signor Rodolfo Zanello detto " Il corvo"ora le farò delle domande. Lei risponda soltanto sì, no oppure, non ricordo.
- Non è possibile- pensò Il Corvo - Come fa questa donna a conoscere la mia identità e soprattutto a sapere il soprannome odioso che mi hanno dato i miei dipendenti.-
- Dunque signor Rodolfo, conosce il signor Giovanni Jaconi?
Rodolfo dopo qualche secondo rispose: - Non ricordo.
- Conosce la signorina Valeria Casazza?
- Sì, la conosco- Rispose Rodolfo e, mentre stava per aggiungere qualcosa, la donna lo interruppe con un gesto della mano.
- Mi conferma che fece una promessa di matrimonio a questa donna e che poi pochi giorni prima della data stabilita si tirò indietro?
Rodolfo sentiva la rabbia esplodergli dentro. Come si permetteva quella sconosciuta di accusarlo, avrebbe voluto replicare, dimostrarle chi aveva di fronte, ma l'unica cosa che riuscì a dire fu: - Sì, è così che andò.
- E mi dica, ha mai provato qualcosa di simile al pentimento per una promessa fatta e non mantenuta?
Di nuovo avrebbe voluto raccontare la sua versione dei fatti, la giustificazione che aveva dato ad ogni sua azione, ma non riuscì a dire altro che la verità:- No, nessun pentimento.
La donna fece di nuovo quel sorriso sarcastico e si alzò. - Bene, abbiamo finito. Fra poco le sarà tutto più chiaro.
Uno stato d'ansia cominciò a farsi strada in lui. L'attesa stava per terminare e la sensazione che non avrebbe voluto conoscere la verità fu sempre più forte. Sentì una morsa nel petto come se una pianta rampicante gli stesse attorcigliando il cuore. Un nodo di sofferenza si era formato attorno alla sua anima.
La donna si alzò e si diresse verso la porta. - Mi segua. - Disse.
Entrarono in un corridoio. Il rumore dei tacchi della donna rimbalzava sulle pareti, scandendo il tempo, e a ogni tac del tacco, Rodolfo sentiva la paura aumentare. Gli pareva di essere in una campana di vetro chiusa ermeticamente e che, secondo dopo secondo, l'aria diminuisse. Camminava alle spalle della donna, costretto da una forza invisibile a seguirla. Voleva scappare, ma gli era impossibile.
Arrivarono di fronte a un'altra porta, imponente.
-Siamo arrivati. - Disse la donna. Ora può andare avanti da solo. Le spiegheranno tutti i dettagli una volta entrato. Io la saluto, credo proprio che non ci vedremo più.
La donna tornò indietro e lascio Rodolfo in una solitudine immutabile. Per qualche minuto non ebbe coraggio di aprire la porta e quando lo fece, si ritrovò davanti una faccia familiare. Lo attendeva.
- Oh! Finalmente sei arrivato. - Disse l'uomo che si trovava di fronte a Rodolfo.- Non dirmi che non mi riconosci?
- Non riesco a ricordare chi sei- Disse Rodolfo
- Immaginavo- Rispose l'uomo. - Beh, ti rinfrescherò la memoria. Sono Giovanni Jaconi. Mi hai licenziato un anno fa. Mi avevi promesso l'assunzione, ma non sei stato di parola. Il contratto è scaduto e hai deciso di non prorogarlo. - Guarda- Disse l'uomo tirando fuori qualcosa dalla tasca- questa è la pistola con cui mi sono fatto saltare la testa una settimana fa. Sì, sono morto e se tu sei qui, significa che anche tu lo sei. Il fatto è che prima di spararmi in testa, ho sparato a te. Io sono morto subito e tu invece sei entrato in coma, ma a quanto pare ora non lo sei più. In questo posto sono un po' sadici e mi hanno costretto a venirti a prendere. Comunque non c'è molto tempo per i convenevoli, dobbiamo affrettarci.
-Morto-. Disse Rodolfo, come se fosse l'unica parola che conoscesse. - Non è possibile.
- Sì! Sei morto- disse Giovanni Jaconi. - Estinto, deceduto, trapassato, come ti pare. L'unica cosa che conta ora è che dobbiamo andare. Qui non hanno molta pazienza, non c'è tempo da perdere. Ricordi, è una frase che ripetevi sempre. Non c'è tempo da perdere qui, muovetevi!
- Ma dove siamo?- Chiese Rodolfo
- Beh siamo all'inferno. Quel Dante la sapeva proprio lunga. Anche qui le cose si sono evolute, ma in linea di massima le regole sono le stesse. Credo che ti metteranno nel girone dei fedifraghi, io sono in quello dei morti suicidi. Qua sostengono che il suicidio è peggiore dell'omicidio e mi hanno messo lì. Ogni giorno sono costretto a sentire la sofferenza di tutte le persone che mi hanno voluto bene. È un dolore atroce. Non ho idea di quello che ti aspetterà, ma ora andiamo o ci tortureranno ancora di più.
I due iniziarono a camminare: un luogo di castighi irragionevoli e comportamenti umanamente inconcepibili li attendeva. L'unica cosa che avrebbero sentito sarebbe stato il dolore. Il dolore che avevano inflitto durante la loro vita sarebbe tornato indietro in un modo infinitamente più forte. Una sofferenza definitiva ed eterna sarebbe toccata ai due uomini, colpevoli.
L'interferenza che prima era così indefinibile nella mente di Rodolfo, divenne più chiara a ogni passo. Era l'ultimo suono proveniente dal mondo terreno: era il rintocco di campane luttuose
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