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Un volo tranquillo
Una sensazione di freddo pungente alle gambe si unì al ruvido sfregamento delle lenzuola sulle guance di Joachim, che lentamente emerse dalla confortevole incoscienza del sonno.
Dopo alcuni mesi passati sul fronte nordafricano aveva imparato a rispettare le bizze del clima, apparentemente mite di giorno, ma assolutamente rigido nelle lunghe notti senza luna.
Il risveglio significava per Joachim la fine del sogno che stava facendo e la rapida presa di coscienza della sua situazione, pilota militare di caccia tedeschi, impegnato ad onorare la bandiera della sua patria in quella che tutti i quotidiani indicavano come Seconda Guerra Mondiale, con inquietanti iniziali maiuscole.
A poco serviva ricordare che fra tutti i giovani piloti impegnati sui diversi fronti, Joachim Marseille era uno dei migliori, e che con 102 aerei abbattuti stava cominciando a diventare una leggenda per i membri della sua squadriglia e non solo. La crudeltà del conflitto lo attendeva tutte le mattine, una amarezza malinconica che accompagnava il risveglio di un bambino cresciuto troppo in fretta e con troppa morte negli occhi.
Un’occhiata al suo cronografo da polso gli confermò che si avvicinavano le 5. 30, ora ufficialmente fissata per la sveglia. Un altrettanto rapido riepilogo mentale del debriefing della sera precedente gli riportò alla mente il compito del giorno: missione di ricognizione alle estremità del fronte, squadriglia composta di due soli aerei, con rapporto sulle disposizioni delle trincee nemiche una volta rientrato alla base. Il sollievo fu immediato; dopo giorni di concitate battaglie aeree in cui altro non aveva fatto che incrementare il suo stress di pari passo con la sua fama di asso dell’aviazione, finalmente una missione tranquilla in cui potersi godere il motivo che veramente l’aveva spinto ad arruolarsi in aviazione, ovvero una tremenda, innata, pressante e dolcemente fastidiosa passione per il Volo.
Dopo il rito della rasatura e una veloce doccia, si vestì con l’uniforme di volo ricordandosi di appuntare tutte le decorazioni finora ricevute e controllando due volte il nodo alla cravatta; già da tempo era pilota militare e continuava a chiedersi il perché di una tanto sofisticata vestizione prima di una missione, lo scopo del cravattino, della camicia, dei gemelli.
Aprì il cassetto del comodino che completava lo spartano arredamento della sua stanza e ne estrasse un oggetto, un portachiavi formato da un’ancora di ottone che il nonno aveva regalato a Joachim una sera di tanti anni prima in Germania, posti e luoghi che ora sembravano così irrimediabilmente distanti.
La colazione nella baracca adibita a mensa fu abbondante e nutriente come sempre: nonostante l’epoca di guerra i piloti erano considerati dei “Signori dell’Aria” e il comando generale dell’aviazione non si scordava di rendere loro la vita più dolce coccolandoli per quanto possibile. Questo significava ovviamente che nello stesso tempo in patria dei civili stavano passando brutti momenti di fame, e come se non bastasse Joachim non riusciva a togliersi quella fastidiosa sensazione di ultima cena, di copioso banchetto in attesa del dubbio ritorno dell’Eroe: nonostante le sue indiscusse virtù di pilota, tutte le mattine Joachim si sentiva il maiale all’ingrasso prima dello spiedo, immagine che non contribuiva a sciogliere i nodi allo stomaco dovuti alla tensione e all’attesa.
Il briefing nella sala comando confermò a lui e al suo compagno di volo, che per quella mattina sarebbe stato Emil Lang, lo scopo ricognitivo della missione, della durata approssimativa di 3 ore a partire dalle 6. 30, ora prevista per il decollo.
Finalmente lui ed Emil, molto silenziosi come sempre prima di ogni missione, estrassero i loro caschi dagli armadietti che portavano il loro nome e grado, e si avviarono lentamente lungo il prato della base fino ai loro aerei, che altrettanto silenziosi e muti li aspettavano, circondati da tecnici intenti nell’ultimare le operazioni precedenti il decollo.
Ogni volta era sorpreso nell’osservare il Suo aereo spento, freddo, coi teli sulla capottina, nel percepire le potenzialità della macchina nascoste dall’apparente quiete dell’acciaio e dell’alluminio coperti da gocce di rugiada. Ogni volta Joachim faticava a immaginarsi seduto ai comandi di tutti quei cavalli di potenza, di quel motore a pistoni in linea che poteva sprigionare i suoi sogni alati ad una velocità superiore ai 600 chilometri orari. Poi però si soffermava sulle marche che indicavano il numero di abbattimenti, sul suo nome dipinto in nero sotto l’abitacolo, sulla coda che lui aveva voluto gialla, così come il muso, perché il suo aereo fosse riconosciuto da lontano da amici e nemici…e immediatamente riconosceva nel freddo metallo una estensione del suo corpo, l’unica cosa che nella tristezza della guerra gli dava la possibilità di sentirsi vivo.
Joachim Marseille era conosciuto dai tecnici anche per la sua grande sensibilità ai comandi e per la sua esperienza come pilota collaudatore, il che aveva portato a diverse modifiche fatte su misura al suo Messerschmitt Bf 109, ritocchi che non avevano fatto altro che conferire più personalità all’aereo a lui assegnato. “Io ci metto il cuore, ma tu, vecchio mio…” questo pensava Joachim quella mattina, nell’avvicinarsi alla pedalina ed issandosi a bordo. Come una macchina ripetè in sequenza i gesti che ogni giorno compieva, una scaramantica giostra che consentiva di non dimenticare niente e, da un punto di vista più profano, di non cambiare di una virgola le abitudini che giorno dopo giorno lo tenevano vivo.
“Via dall’elica!” fu il grido che anticipò lo sbuffo dei pistoni al momento dell’accensione, un grido al nulla di cui si riempiva l’alba al Fronte. Un rapido allineamento con la pista in terra battuta, uno scambio di ordini con Emil e con la torre e finalmente il Messerschmitt staccò le ruote dal suolo, librandosi a pochi metri da terra con la grazia tipica di ogni animale restituito al suo elemento naturale. Un paio di virate in formazione servirono ai due per portarsi sulla rotta stabilita per raggiungere la zona da pattugliare ed osservare, una zona comunque ritenuta abbastanza tranquilla, dati gli ampi spazi che gli uomini a terra dovevano gestire e coprire; non era una zona di battaglie baionetta contro baionetta, come si vedeva nei filmati della prima Grande Guerra, bensì vastissimi territori in cui era difficile anche solo immaginare la linea del fronte di combattimento. “Passare su frequenza E”, la voce di Joachim ruppe il rumoroso silenzio del motore a regime costante, per indicare che le comunicazioni sarebbero avvenute da lì in avanti su una frequenza criptata, impossibile da intercettare dal nemico. “Frequenza E, ricevuto”, rispose la gracchiante voce di Emil. Erano trascorsi una ventina di minuti, ed il cielo era per lo più terso, quando tra pochi sbuffi di nuvola Joachim scorse una coppia di caccia nemici, probabilmente Spitfire dalla forma dell’ala, come loro in pattuglia ma ad una quota decisamente superiore. I due Spit non sembravano averli visti, e Joachim decise che quel giorno non sarebbe stato ricordato come “un altro successo del grande asso tedesco”; per quanto gli riguardava, ognuno poteva continuare sulla propria strada, godendosi la nascita del sole da un punto di osservazione decisamente privilegiato.
Un’altra cosa che fin da bambino aveva ossessionato Joachim era l’acrobazia aerea, la possibilità delle macchine di compiere alcune evoluzioni incredibili senza che ne uomo ne macchina subissero conseguenze. Con apprensione ed ammirazione aveva guardato a quei fotogrammi in bianco e nero che ritraevano i biplani della prima guerra mondiale capovolgersi, roteare su loro stessi, impennarsi…senza che le ali si spezzassero o il pilota cadesse all’esterno. Maturando ed avendone la possibilità, grazie alle ali dorate che portava appuntate al petto, l’acrobazia aerea fu una delle prime cose che Joachim imparò durante i corsi di volo della Luftwaffe. Ormai per lui non c’erano segreti tecnici o fisici, solo una predisposizione ed un amore particolari verso una pratica per pochi eletti, quale egli considerava il volo ad un livello così spinto. Sicuramente i suoi superiori non avrebbero approvato quello che stava per fare, ma questi erano i pochi momenti in cui Joachim trasgrediva con gioia all’ormai famoso rigore tedesco.
Si allontanò dalla formazione abbassando leggermente il muso dell’aereo, in modo da guadagnare qualche chilometro orario di velocità, e tirò la cloche verso la pancia, con decisione ma senza esagerare; nei secondi successivi assaporò con il fisico e con l’anima le ormai note sensazioni di schiacciamento, di pesantezza e di disorientamento che un giro della morte può dare. Al culmine della manovra si trovò a testa in giù, in una innaturale posizione parallela ad un mondo sottosopra. Una frazione di secondo bastò per imprimere nello sguardo di Joachim il caldo rossore dell’alba che ora si trovava sotto alla terra, e subito la testa si volse all’insù, a cercare i riferimenti necessari per completare la manovra, per chiudere l’immaginario cerchio disegnato dei cieli del Nord Africa. In discesa il Messerschmitt riguadagno la velocità persa e Joachim decise di usare tutti quei chilometri all’ora, non uno in meno, per tirare una “candela” avvitata, salire perpendicolare alla terra roteando sul proprio asse fino a fare fermare la macchina gialla e verde oliva; tirò a sé la barra fino a che l’aereo fu in verticale e poi lavorò con precisione sui pedali e sulla cloche, in una sequenza di movimenti che diedero vita ad uno spettacolare balletto aereo, se osservato dal di fuori. Quando il 109 fu fermo nell’aria Joachim lasciò che ricadesse su se stesso, pochi secondi di apparente spossamento dell’aggraziato attrezzo di morte, prima di riprenderne il comando e riportarsi con una stretta virata al fianco del velivolo di Emil. Si ritrovò sudato e leggermente ansimante, come gli succedeva tutte le volte che sottoponeva il fisico alle piacevoli sollecitazioni di qualche piroetta fuori programma. Nemmeno si accorse di aver gridato di gioia nella maschera, di aver dato sfogo alla tensione degli ultimi giorni di ritmi frenetici, in quella manciata di secondi di libertà. Era proprio durante quegli istanti che Joachim tornava ad essere un ragazzo appassionato, non già un ragazzo avvezzo alla morte, desideroso un giorno di mostrare a tutti cosa davvero voleva dire Volare. Non avrebbe fatto differenza, allora, di chi sarebbe stato il naso all’insù, se di un bambino tedesco, americano, inglese, italiano…”un giorno, forse”, penso il tenente Joachim Marseille.
Si risvegliò dal ronzare dei proprio pensieri, che per qualche minuto aveva superato il potente motore del Messerschmitt, e rivolse uno sguardo al tenente Lang, salutandolo con un cenno, come ad annunciare il rientro in formazione. Emil lo guardo e sorrise, senza alcun bisogno di parlare in radio: era un uomo d’aria anche lui, altrettanto valido ed altrettanto saturo di guerra, e poteva benissimo comprendere quella piccola, impercettibile debolezza dell’amico.
L’ispezione era ormai conclusa, dimostrando che la situazione tattica non era variata di molto dai giorni precedenti. I due piloti erano anche riusciti a scattare qualche immagine da mostrare al Comando, nei minuti successivi all’alba quando il sole già annunciava un nuovo giorno di stenti.
Regolando l’apparato di navigazione sulla frequenza della base, Joachim si augurò di poter volare sempre più missioni del genere, felice di atterrare con tutti i piccoli bossoli di mitragliatrice ancora intatti e stivati nella pancia del 109.
Prima di atterrare si concesse un ulteriore vezzo, seguito da Lang che non vedendo il carrello abbassato intuì le intenzioni dell’amico. Un passaggio basso in coppia, con le ali che sbattevano a salutare i meccanici e tutto il personale di terra, era sempre sconsigliato dal Comando quanto apprezzato dalle truppe per rompere la monotonia e la serietà del loro lavoro.
Strattonando leggermente la cloche a sinistra e a destra per sbattere le ali in segno di saluto, Joachim non potè non notare il sorriso di alcuni uomini a terra, che in quel sole d’Africa si unì alle emozioni appena provate. In quell’istante si rese conto che il suo cuore stava volando più in alto di lui.
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- ritratto pregevole... il senso dell'esserci
- bella
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