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Anche i piccioni hanno le loro sfighe. (storie surreali di provincia)
Buffa la natura.
Si trovano somiglianze
dove meno te lo aspetti.
La postura non era esattamente quella dei suoi consimili. La testa leggermente incassata in piccole spalle, rigide come grucce dimenticate dentro l'abito. E poi quella leggera protuberanza sulla schiena, che non gli avrebbe certo consentito di fare l'indossatore. Per non parlare delle orecchie. Fosse vissuto solo qualche decennio dopo, avrebbero fatto morire d'invidia il Signor Spock.
Era la fine degli anni'50, in quella piccola città fra nebbie dense come il mosto, e nugoli di zanzare a prova di contraerea. Così lontana dal caos delle metropoli, ma a un tiro di schioppo dal mare. Dove, sarà per il fluire metafisico del tempo, sarà per una particolare disposizione della gente a notare cose che altrove sarebbero passate inosservate, anche il più piccolo dettaglio assumeva un rilievo particolare. La nuova cravatta del sindaco. Le calze smagliate della moglie del farmacista. Il viso sbattuto della cassiera del cinema in piazza, che si vociferava arrotondasse con le comitive, subito dopo l'ultimo spettacolo.
Ma torniamo al nostro protagonista. Dicevamo dunque, quei piccoli difetti che in una persona sarebbero stati un tocco di originalità, tratti caratterizzanti che, se ben gestiti, avrebbero anche potuto arricchire la personalità -si pensi alla camminata emorroidale di John Wayne o all'anca sbilenca di Gary Cooper- in un piccione costituivano un vero e proprio handicap. A ben vedere più funzionale che estetico.
Considerato che volare gli riusciva piuttosto faticoso, preferiva di gran lunga deambulare nella zona del centro. Sfiga aveva voluto che, da libero volatile, una natura matrigna lo costringesse per gran parte della sua giornata alla più terrena condizione di animale da cortile.
Molto pio, fin da piccolo passava gran parte del tempo nei pressi del sagrato della Chiesa. Anche se prediligeva la zona dell'oratorio. Le giornate trascorrevano così, fra le lezioni di catechismo; la commiserazione di molti fedeli; l'affetto dei passanti che avevano per lui un occhio di riguardo, riservandogli sempre doppia razione di pane; pochi amici e qualche sfottò dei suoi compagni. Che non erano certo stati di grande aiuto nello sviluppo armonico del carattere. All'apparenza mite ma, sotto sotto, preda di un forte desiderio di rivalsa sul mondo.
Questa condizione, che lo portò a dedicare parecchio tempo alla meditazione e all'osservazione minuziosa, quasi maniacale, della realtà, sviluppò la sua intelligenza a tal punto da farne il piccione più acuto e sveglio della città. E forse anche dei paesi vicini. Ben presto la sua fama oltrepassò i confini della provincia e arrivò a lambire il capoluogo di regione.
Divenuto adulto, la sera verso le 18. 00 amava passeggiare all'incrocio tra la via del corso e quella che portava dritti in Piazza Duomo. Senza darlo a vedere, osservava tutto e tutti. Niente sembrava sfuggirgli. Nemmeno il più piccolo dettaglio. Ogni gesto, ogni cambiamento veniva registrato e metabolizzato dalla sua mente in costante fermento. Dietro quello sguardo all'apparenza distratto e assente.
Non smise mai di frequentare la parrocchia. E le lezioni di morale alla scuola dei salesiani. Aveva iniziato molto giovane quasi per caso. Poi, presoci gusto, ogni volta si infilava in classe e prendeva posto sopra l'armadio ad ascoltare. Tanto che nessuno ci faceva più caso. Così, fino alla fine dell'anno scolastico. Fosse stato interrogato, avrebbe fatto sfigurare tutti: primo della classe e insegnante messi insieme.
Spesso assorto nei suoi pensieri, tanto da sembrare schivo e riservato, quando si trovava in compagnia aveva risposta pronta e mordace. Che a volte diventava sferzante e anche un po' tagliente. Da tutti gli veniva riconosciuta una notevole arguzia. Molto al di sopra della media.
Ben presto nella comunità cominciò ad essere temuto, perché dietro quella apparente calma e mitezza -in realtà frutto di grande e affinato autocontrollo- si vociferava si celasse una sorta di Mr. Hide. Per quella particolare propensione verso la sottile arte di tessere oscure trame di potere, che il pennuto, si mormorava, possedesse in smisurata dose.
Una fredda mattina di dicembre un piccione fu trovato sfracellato sul marciapiede davanti ad una famosa panetteria del centro. Con tutta probabilità era precipitato dal cornicione del palazzo, sede della redazione di un piccolo mensile di gossip socio-politico. Aveva le ali legate e una benda sugli occhi. Non era stato certo vittima di distrazione o improvviso capogiro. Oltretutto pare fosse astemio.
La cosa provocò un certo fermento. Le chiacchiere si sprecarono: qualcuno volle addirittura vederci una relazione con il peripatetico piccione, considerato, nel migliore dei casi, una sorta di mandante morale di quella tragica dipartita. Poi, come si sa, nella sana provincia italiana gli scandali, come le ferite, si rimarginavano velocemente. Diventavano presto aneddotica, entravano a far parte del repertorio favolistico del luogo. E anche questa brutta storia non fece eccezione.
L'unico effetto pratico fu che molti piccioni decisero di fare fagotto in fretta e furia e migrare. Spaventati a morte e non certo votati a fare la stessa fine dello sventurato de cuius.
In seguito, voci di legami del nostro con loschi piccioni viaggiatori provenienti dalla Sicilia si fecero sempre più frequenti. Qualcuno sostenne perfino di aver assistito di straforo ad un bacio rituale tra boss, che lo aveva visto protagonista.
Ma tutto il mondo è paese, e la città non ci fece caso più di tanto. Molti bollarono l'indiscrezione come parto di malelingue. Invidiose nullità. Lui continuò a passare le sue giornate tra il sagrato della chiesa, il corso, la scuola e, via via il tempo passava, fu visto sempre più spesso nei pressi degli uffici del Comune, a un battito d'ali dalla stanza del sindaco. Che, anche se di parte politica avversa, si vociferava traesse auspici dai suoi modesti voli e giovamento dal suo bisbigliare pacato sul davanzale della grande finestra.
Il resto giace ormai perso fra le rovine del tempo e le spesse nebbie della memoria. Ricordo solo che all'età di sedici anni, a malincuore, me ne andai da quella città, diretto a nord. Del piccione persi ogni traccia.
Dimenticavo di dire: noi ragazzi del '46, con quel misto di perfida ironia e feroce irriverenza che caratterizza i giovani nell'età dei teen, lo avevamo soprannominato: Giulio.
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