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LE ZEPPE CAVITÁ/2
Ho scalato da solo una montagna. La neve di aprile sembra più fitta e penetrante. Gli scarponi, il berretto di lana, le piccozze, i bastoni. Il sibilo del vento. Tutto regolare, classico.
Io, ero un uomo meridionale: il sole, l’aria profumata, la mitezza del tempo. Poi mi ero trovato alle impossibili altitudini, e lì non c’era vita, soltanto una coltre bianca avvolgeva il paesaggio. Nei pochi momenti di lucidità, comunque avvertivo la dolcezza che una nevicata portava in casa nel periodo natalizio. Ma in definitiva ero solo; non avvertivo inquietudine: una sensazione di vuoto si. A quante migliaia di metri mi trovavo? Non sarebbe stato confortante saperlo, ormai c’ero ed era presto la mattina. Rallentai, mi fermai. Che senso aveva andare più su? Raggiungere una vetta a tutti i costi… senza emozioni.
Penso che il punto fondamentale sia sempre arrivare da qualche parte, dire: ce l’ho fatta!
E io no. A un certo punto ho voluto fermarmi: la perfezione non mi appartiene. E non me ne frega niente.
Tra l’altro non ero lì per battere un qualsiasi primato, per vincere una sfida, per innalzare la mia bandiera. Ero stato spinto a fare la scalata proprio per trovare il senso del limite. La domanda era: dove può arrivare l’uomo? Poi divenne: dove può fermarsi? E mentre salivo mi chiedevo: ho la volontà di fermarmi?
Pensavo di poter arrivare in cima facilmente e avevo anche avvertito le autorità di quel luogo, affinché nei momenti di difficoltà fossero stati pronti a ricevere l’allarme.
E invece dissi basta. Stop. Se l’uomo non vuole fermarsi, io posso. Perché l’uomo non è l’Uomo, ma è un uomo a sé: distintamente. Avevo visto sotto i miei piedi, verso destra, una specie di fosso. Lasciai docilmente la presa dello spuntone di roccia. Mi voltai verso la meraviglia del panorama. Mi calai, interamente. E nevicava. Dentro non era molto buio: sembrava che alla fine del tunnel ci fosse una lieve fonte luminosa. Un po’ di quella luce rischiarava le pareti. Gli occhi mi si chiusero, senza forza. Fuori nevicava. Se non vedevo, sentivo il fruscio bianco che copriva ogni cosa. Nel sonno, parole mi sommersero i sensi.
- Rimarremo bloccati, la neve è troppa.
- Sono anni che siamo intrappolati qui.
- Lo spirito della terra. Il Risucchio eterno.
- Ci avevano promesso i soccorsi.
- La promessa a volte è una scommessa!
- Non è proprio il momento che tu faccia il filosofo.
Ecco il risveglio, lo spavento: chi c’è? Chi parla?
Erano due voci, a volte anche sovrapposte. Ma chi vuoi che ci sia! Era la mia paura di rimanere isolato, laggiù. D’altronde la neve stava ormai ostruendo il piccolo ingresso. Non mi sentivo in difficoltà. Mangiai scatolette: tonno, carne. Poca fame, un po’ di sete: acqua allora. Con me avevo un piccolo lettore mp3: che gran compagna la musica! Non ti tradisce mai: è tua per sempre.
Urlai: nessuno rispose.
- Non facciamoci sentire!
- Ma potrebbero essere gli aiuti?!
- Sono anni che siamo qui.
- Non possiamo rimanerci a vita.
- Abbiamo ancora una vita?
- Certo, ce ne andremo da qui: la famiglia, gli amici, un lavoro; avremo tanto da fare.
- Troppo facile per te: non sono così sicuro che sia tutto bello fuori ormai.
- E invece si! Abbiamo perso già troppo tempo qui. Fuori possiamo vedere i colori, ascoltare suoni, sentire profumi! Qui non abbiamo più un’anima!
- Come fai ad esserne così sicuro? Potremmo trovare molte cose cattive!
- Non credo
- Perché no? E se invece fuori fosse tutto brutto, grigio, sordo, puzzolente: scenderesti?
- No.
Dissi: allora è il coraggio che vi manca. Vi capisco. Anch’io non ho coraggio, ho paura di tutto. Penso di non essere in grado, di non essere adatto. Ma insieme potremo uscire: spaleremo la neve all’ingresso. In tre ce la faremo. Io lancerò l’allarme e l’elicottero del soccorso verrà a prenderci.
Ero talmente intimorito da quelle voci oscure che, paradossalmente, trovai la forza nella speranza di un aiuto comune per tornare fuori.
Nessuno rispose. Trascorsero i secondi. Poi flebilmente:
- Scappiamo!
- Dai! Presto!
E sentii passi veloci allontanarsi. Mi lanciai all’inseguimento di quel rumore. Scivolai un paio di volte: vedevo poco. Arrivai all’ingresso opposto. Davanti a me si spalancò una vallata tra due cime. In mezzo una cascata. Nevicava ancora, era giorno. Quelle due voci non si erano tramutate in corpi tangibili. Mi stupii di me stesso.
Scesi dalla parete opposta alla cascata. La corda mi tenne. Un sorso dalla borraccia.
La sera in albergo, nessuno mi aveva dato per disperso. Raccontai la mia storia.
- Tu sei pazzo. L’aria di montagna non ti fa bene. Il prossimo fine settimana resti a casa.
Insomma, il dubbio venne anche a me, dove la fantasia supera la realtà?
Guardai dal terrazzo, il cielo stellato. E sottolineava quella vetta quasi nera.
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