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Sussurri e grida

Disegno arabeschi sul vetro appannato, come quando, da bambina, cercavo rifugio da una realtà scomoda inoltrandomi nei meandri di quelle linee intricate.
Ero serena da bambina, gioiosa, e la mia scomoda realtà si riduceva al mio viscerale rifiuto per la matematica e per tutto ciò che avesse a che fare, anche lontanamente, con la freddezza dei numeri. Nei grigi pomeriggi d'inverno cercavo di procrastinare il momento in cui avrei dovuto affrontare addizioni, sottrazioni, e problemi con vasche piene d'acqua perdendomi, con la mia inesauribile fantasia, tra le volute sinuose che il mio dito disegnava sul vetro freddo.
Ritraggo di scatto la mano, come quando mia madre interrompeva i miei viaggi immaginari ingiungendomi di smetterla, altrimenti avrei unto il vetro. Ricordo che, fissando il mio pennello immaginario, mi chiedevo come avrei potuto ungere il vetro con il mio polpastrello asciutto e morbido, ma non ho mai domandato a mia madre ulteriori delucidazioni.
Strano che questa domanda si ripresenti ora con una inopportuna urgenza.
La sala di attesa è riscaldata, ma ho freddo dentro, una sgradevole sensazione di un gelo vischioso e ripugnante che mi serpeggia addosso. Nella saletta accanto c'è la bara con mio padre, o almeno quello che mi hanno detto essere mio padre. Perché io non sono riuscita a riconoscerlo in quel corpo senza vita, gonfio ed insultato dalla malattia. Sono entrata nella camera ardente dell'ospedale e ne sono subito uscita fuori, convinta di aver violato l'ultima intimità di un estraneo. Invece è proprio lui.
Non lo vedo da due mesi, l'ultima immagine che ne conservo è quella di un uomo provato dalla malattia, ma ancora in grado, sia pure a fatica, di camminare dritto e di troneggiare con la sua figura alta e snella.
In realtà mio padre l'ho visto molto poco negli ultimi 33 anni, ed io, di anni, ne ho 41.
La bambina serena e gioiosa è andata via in un triste novembre, chiusa nella valigia che conteneva qualche abito, un po' di biancheria, e i brandelli del matrimonio dei suoi genitori.
La valigia è quella che mio padre riempì in fretta e furia, con un'ansia da cane che finalmente ha rotto la catena che da troppi anni lo teneva imbrigliato. Portò via solo lo stretto necessario, quasi volesse liberarsi non solo di un matrimonio per lui troppo stretto, ma anche da tutto ciò che potesse anche vagamente rammentargli la sua vita con mia madre.

Andò via lasciando dietro di sé solo un vago sentore di acqua di colonia e nicotina.
Sono accanto alla porta a vetri, ed anche oggi ho un compito da portare avanti, e l'impegno che ci metto è lucido e doloroso come quello che mi imponevo nel risolvere addizioni, divisioni, e problemi con vasche piene d'acqua.
Devo essere lo spartiacque tra la vita passata e quella presente. Devo fare in modo che mia madre e la compagna di mio padre non si trovino nello stesso momento nella camera ardente. So che molti dei presenti, sotto la maschera compunta di dispiacere, nasconde un sorrisino beffardo, pregustando la situazione da commedia di infimo ordine.

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4 commenti:

  • Simona Durante il 13/07/2011 14:33
    si Ada, è autobiografico. Ti ringrazio per le tue parole, sentite e vere. Un abbraccio a te.
  • Ada Piras il 13/07/2011 12:06
    Se è autobiografico Simona ti sono particolarmente vicina che quasi mi pare di sentire il
    tuo dolore di quanto hai sofferto. La sciarpa che hai donato a tuo padre è il tuo perdono.
    Quante volte tutti ci poniamo delle domande(parlo di quelle importanti)che vorrebbero delle risposte da chi ce le puà dare, ma preferiamo tacere come dici tu per una sorta di pudore o perchè abbiamo paura della risposta. Questa testimonianza ti rende onore.
    Un saluto ed un abbraccio. Ada
  • Simona Durante il 22/06/2011 20:44
    si, dimmelo, per favore.
  • ELISA DURANTE il 22/06/2011 18:51
    Mi è piaciuto molto questo racconto che è stato per me una sorta di "dejà vu".
    Io lo so il perchè che tanto ti ha assillato. Se vuoi te lo dico, ma in privato.

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