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Storia della mia scrittura
Non ricordo quando è cominciata la mia scrittura creativa. Ricordo però che anche i temi che svolgevo in classe, fin da piccola, erano quasi sempre occasioni per liberare la mia fantasia più che sviluppare una traccia. Insomma, quando mi chiedevano di parlare della mia vita o dei miei gusti o di storie vissute, inventavo molto o quanto meno colorivo la realtà. Ero abbastanza abile a dare una veste credibile o comunque ad usare efficacemente la parole, e quindi ero sempre molto apprezzata. Al liceo imparai a sorvegliarmi per non cadere nel "fuori tema", non era difficile ma ci soffrivo un po'.
Ho imparato a leggere e scrivere, credo, intorno ai quattro anni, piuttosto presto rispetto alla media dei bambini di quel tempo. Ciò grazie alla mia innata curiosità per la carta stampata ma anche alla mia famiglia, dove questa curiosità e questo interesse erano molto coltivati e dove ero stata preceduta, e indirizzata, da tre sorelle e due fratelli maggiori.
A sei-sette anni scrivevo di preferenza poesie, piuttosto brevi, senza titolo e senza rima, che parlavano soprattutto di oggetti - giocattoli, vestiti - o di animali, fiori, paesaggi, sempre in riferimento all'esperienza che ne avevo. Mi piaceva esprimere in modo immediato, rapido, il rapporto che mi legava a questi oggetti. Ricordo, in particolare, di aver scritto una decina di versi su un'automobilina rossa che forse apparteneva a mio fratello e mi piaceva moltissimo.
Purtroppo, questi componimenti infantili sono andati perduti da molto tempo e non sono in grado di ricordare altro, né sui contenuti né sullo stile. So che scriverle era per me un gioco divertente e che ero gratificata, ma anche molto sorpresa, dall'ammirazione che suscitavano negli altri, specialmente nelle mie sorelle.
Intorno ai dodici anni ho cominciato a scrivere un diario e non ho più smesso. Per alcuni anni è stata solo un'esigenza di sfogo e introspezione come per tutte le adolescenti, poi è diventata una forma di scrittura consapevole, forse anche un'esercitazione letteraria. Non so quanto mi abbia aiutata a scrivere meglio e nemmeno se mi sia stato molto utile psicologicamente. Oggi tendo a metterlo in discussione, penso che anzi mi abbia un po' distolto dal diventare una narratrice. Ma poi penso al "Diario di una scrittrice" di Virginia Woolf e ad altri illustri esempi del genere e mi dico che evidentemente non era quello il problema.
Inscenavo, insieme alla mia sorella più piccola, storie di avventure ma non riuscivo a scriverle. Poi, a tredici -quattordici anni cominciai a scrivere storie, sempre prive di conclusione, che erano una contaminazione tra le mie esperienze personali, prevalentemente interiori, e le mie letture, dei generi più vari: da Salgari alla collezione Salani per ragazzi a classici tipo i tristissimi "Incompreso" e "Senza famiglia"; per finire coi romanzi di Brunella Gasperini che venivano pubblicati a puntate su Annabella o Novella e seguiti avidamente dalle mie sorelle e, faticosamente, anche da me(dovevo aspettare un bel po' per appropriarmi del giornale).
Il primo, e ultimo, romanzo completo che ho scritto era appunto una rielaborazione del romanzo "Le note blu" di Brunella Gasperini: storia di un ragazzo di Milano, di estrazione medio-borghese, appassionato di jazz, inquieto e incompreso dal padre, che dopo varie tormentose vicende ed esperienze ritrovava se stesso, le sue radici e l'amore per la famiglia. Ero riuscita a cambiare l'ambientazione, le caratteristiche fisiche ed i ruoli sociali dei personaggi, alcuni nodi narrativi. La storia era ambientata negli Stati uniti, non ricordo in quale Stato, ma forse non lo sapevo neppure... comunque, in una grande casa di campagna; il ragazzo si chiamava Neil(omaggio a Neil Sedaka per il quale avevo una vera passione); la pecora nera ritornava all'ovile non grazie alle donne innamorate di lui ed al padre, come nel romanzo ispiratore, ma alla seconda moglie di suo padre, Maggie, che amava di amore edipico e forse non solo.
Progettai anche un secondo romanzo, non molto tempo dopo, di cui scrissi solo i primi due capitoli, la scena madre e la scena finale. Anche quello era un po' in stile gasperiniano ma forse più maturo, la storia era mia e ispirata largamente a vicende personali di delusioni amorose e amicizie tradite. Una ragazzina di quindici anni rischiava di morire in seguito all'abbandono del suo gruppo di amici più cari, tra cui il ragazzo di cui era innamorata, distratti da altri interessi(presagio di sventura?...); poi non ricordo come, il quadro si ricomponeva. Era scritto in terza persona, allora mi veniva più facile, non so perché; e la ragazza, con somma fantasia, si chiamava Marina.
Anche questi manoscitti sono andati perduti nei vari traslochi e me ne dispiace moltissimo. Sogno sempre di ritrovarli nel fondo di un cassetto nella casa dove ho abitato con i mei genitori fino a vent'anni fa e dove oggi vive l'ultima delle mie sorelle.
Credo di non aver mai scritto un romanzo, e forse nemmeno un vero racconto(solo molti tentativi e bozze), non tanto per incapacità - non era necessario che fosse un'opera d'arte - ma perché troppo distratta dalle mie vicissitudini sia materiali che morali. Credo di aver sempre cercato nella scrittura, più che una realizzazione, una risposta a delle esigenze affettive. Un abbraccio materno che evidentemente mi è mancato, una compagna di giochi con la quale non essere costretta a litigare.
So di aver sempre rifiutato l'impegno, a volte pesante, che la scrittura richiede quando è indirizzata ad uno scopo, anche solo quello di dare ad un testo una forma compiuta e precisa. Di non aver accettato che potesse essere un lavoro, come da piccola mal sopportavo le tracce dei compiti n classe.
Per questo non sono e non sarò mai una scrittrice. Ma mi diverto a sognarlo, ancora, a provarci, pubblicando sui siti internet, frequentando corsi di scrittura, recentemente addirittura facendo quattrocento chilometri quattro volte in un anno per partecipare ad una scuola di scrittura autobiografica in provincia di Arezzo.
Di sogno, di gioco si tratta, e lo so. Il brutto è quando me lo dimentico e cerco di prenderlo sul serio.
(continua?)
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