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E come foglia morta cade, cadde
“Non è mica detto che morti si stia poi così male”
“Però, c’è da pensare. E chi l’avrebbe mai detto che da sto schifo di trasmissione venisse cotanta massima, sarebbe come cavare sangue da una rapa.
Infingardi, proverbi e modi di dire. Ormai non mi servono ad altro che a rafforzarmi nelle mie idee, se ne ho mai avute, o per dire con parole altrui ciò che non ho da dire. Come adesso, preso a scarabocchiare frasi insulse sperando che qualcuno poi glielo darà, un senso.
Strane le motivazioni che possano spingere al gesto più coraggioso, il suicidio.”
Così pensava un uomo.
Un uomo disfatto, morto dentro da quando, così, senza ragione si ritrovò senza motivazioni né scuse per tirare avanti, e si lasciò andare, di colpo.
“Sono troppo intelligente per la vita, sprecare tempo a sputare sangue ogni giorno per raggiungere qualcosa e una volta arrivato accorgersi che non mi basta, e ripartire, e arrivare e ripartire e arrivare e ripartire finché, finalmente, la morte compassionevole arriva a fermare questa affannosa e stupida corsa verso il nulla. Ché l’uomo non desidera altro che il desiderare, disse un giorno un poeta, forse.
Meglio stare a guardare.”
E ci stette a guardare, non fece più altro. Lasciò il lavoro, così, da un giorno all’altro, con allibito sgomento di moglie figli soci clienti e scrocconi, ma come, lui, che è un grande avvocato.
“Lei non mi può lasciare così, Caetani, in mezzo a una strada” tuonò quella volta l’on. Spingardi, uno dei tanti politici che aveva preso a difendere, perché il clamore suscitato dalla bassezza delle loro azioni e dall’incredibilità delle assoluzioni, che arrivavano sempre tanto impossibili quanto puntuali, gli faceva onore, almeno lui pensava. Ed era ambizioso, eccome. E risoluto.
“Lei non mi può lasciare così“ “Sto cazzo” fu l’unica risposta, e lasciò di stucco, a bocca aperta l’ onorevole ma indifferente Caetani, che un tempo avrebbe provato soddisfazione, eccome, quasi un brivido a trattare in modo così irriverente uno dei tanti potenti con cui aveva a che fare, i quali anche se suoi compari e sempre più spesso di lui supplici non riuscivano a nascondere la loro alterigia.
Invece stavolta niente, e la risposta non fu voluta ma venne d’istinto: a quella risposta nessun brivido, nessuna emozione, ché i morti non hanno emozioni.
Dopo il lavoro la famiglia, ma qui non ci furono storie, quando disse me ne vado, la moglie non chiese perché, ma soltanto e io come fo, ti lascio tutto, le rispose. E stette bene a entrambi.
Sapeva che sarebbe andata più o meno così, sapeva che lo aveva sposato solo per soldi ed era per quello che l’aveva scelta, perché non lo amava e nemmeno lui voleva amare, lo riteneva inutile e inconciliabile con la carriera e il resto.
S’erano conosciuti un paio d’anni prima ad una festa di quegli imprenditori venuti fuori dal nulla chissacome, tanto sconci e volgari nella loro ostentata opulenza da piacergli ormai, troppo raffinato da non avere il gusto per il putrescente.
Oltre a piacergli gli erano utili, che dove ci son soldi ci sono politici, corrotti, mafiosi e belle donne.
Soldi potere e sesso, dunque.
Gli piacevano le donne, e tanto, e non aveva fatica ad averne, così bello (e questo era sicuramente il meno), scaltro, ricco e potente. Cummannari è meju c’a futtari, dicono: cummannari e futtari è meju, diceva.
Lei faceva parte di quella corte di splendide ragazze immancabili a quelle feste, che non aveva mai capito se fossero lì spontaneamente o fossero puttane d’alto bordo, anche se puttane in fondo sarebbero state sempre.
Mora, slanciata, semplicemente bella, una ex modella come tante che aveva capito che le gambe piuttosto che mostrarle alle sfilate era più redditizio aprirle.
Non fu lui ad attaccar discorso, come al solito; fu il solito carosello di frasi scontatamente provocatorie e ammiccamenti giusto per far trascorrere quelle due ore prima di andarsene a letto senza offendere l’ospite col venir meno della propria presenza.
Nei pensieri aveva spesso paragonato quelle feste a delle fiere campionarie, vi riscontrava una certa logica imprenditoriale nell’ aspettativa dell’invitante a vedere stringersi cerchi di potere, con chissà quali ritorni, intorno a sè, e come l’organizzatore di una fiera potrebbe risentirsi delle defezioni dei più importanti espositori, che avrebbero certamente provocato un calo d’attenzione e prestigio, così lui, coscientemente (nel senso di rendersi conto, per carità la morale) pezzo grosso non aveva interesse ad andarsene prima del tempo, ché poi la notte è lunga.
Non l’amava, si sa, né in lei trovava niente di particolarmente attraente, ma un avvocato di trentacinquanni senza moglie sta male, e poi questa fa bene all’amore e ha letto Catullo, meglio di niente, e poi non c’ho il tempo tanto non trovo niente di meglio.
E si sposarono (in separazione dei beni, chiaro): cerimonia sontuosa, consona allo status raggiunto, solita fiera di briganti cornuti e lacché; venne anche il cavaliere, fu la sua consacrazione.
Vennero anche i figli, due se vi interessa, due maschi cresciuti nell’indifferenza del padre e madre, due maschi cretini, viziati, prepotenti e odiosi e stranamente bruttini. La stecca viene dal legno, dicono dalle sue parti, ma da un asse di mogano e da un fuscello di ornello non eran venuti che spini e gramigna.
Quando l’avvocato se ne andò a loro non pensò neppure.
Dopo il matrimonio decise di buttarsi in politica, o meglio di scendere in campo: erano gli anni del cavaliere e questi aveva bisogno d’uomini nuovi ma comunque potenti per dar lustro alla sua facciata di partito diverso, il ricordo di tangenti e corrotti quanto mai vivido non poteva non essere cavalcato da chi del fantino porta titolo e statura, e poi un avvocato di quel calibro può tornar sempre comodo.
Caetani vinse, ovviamente, fu messo in un collegio di ferro in Sicilia, da sempre feudo e serbatoio di voti delle destre, specialmente più nere, ché chi l’ordine disprezza trasgredisce e combatte vuol avere uomini d’ordine sopra la testa.
Gli toccò lasciare forse l’unica cosa che aveva amato, la sua Fossombrone, i vicoli bui e deserti di notte, la puzza di piscio e di terra, le facciate decrepite e scalcinate di palazzi una volta sontuosi oggi occupati solo da vecchi morenti e marocchini puzzolenti di chiuso e cipolle.
E i panni stesi alle finestre, gocciolanti sulle passanti oscenamente volgari nel loro vano agghindarsi: il gusto non è mai stato affar di provincia; i vigili al bar, i vecchi del circolo, che del vino da due lire e dei locali ammuffiti avevano ormai preso anche l’odore; il Metauro, col riflesso del ponte così perfetto che non poteva trattenersi dal franger l’acqua con un sasso; i carabinieri un tempo così ridicolmente ignoranti, così sfacciatamente prepotenti e sprezzanti d’ogni legge e regola, così tronfi nelle loro divise e oggi imbarazzati anche solo a incrociargli lo sguardo, così scabrosamente riverenti e servili da fargli più schifo di allora.
Dovette lasciare i suoi boschi, unico rifugio che trovava dai segni del cedimento che già da qualche anno si mostravano, sinuosi e sporadici e per questo ancor più significativi.
La macchia era anche la sua droga, fin da ragazzo, era capace di stare mesi senza vedere moglie e figli (stavano a Livorno, la città di lei) ma almeno una volta a settimana doveva passare almeno una giornata per boschi, anche nel pieno dell’inverno, anche sotto la neve, lì solo sentiva un barlume di contatto col mondo. Il resto, i codici, gli scranni di Montecitorio, le donne erano solo facciata, sapeva che contavano poco, ma il successo, i soldi, il sesso e il potere erano solo un pesante velo da stendere sullo specchio per non vedersi il nulla intorno.
Amava i boschi dunque, soprattutto d’autunno quando c’erano i funghi, e già lo sapevano tutti che abbandonava senza indugio le aule dei tribunali e gli altri impegni per gettarsi anima e corpo alla ricerca di carpinelli, biette, tufironi, porcini, sanguinacci, finferli, galletti; prese in odio Martino, il suo primogenito, perché quando aveva diec’anni e lo voleva portare con sé sulle Cesane questo preferì rimanere a casa a dormire. Non parlò più a suo figlio, ogni tanto gli faceva arrivare una cassetta di funghi.
E così andò a vivere a Roma, un po’ gli piaceva, ma non amò mai la città eterna.
Così per qualche anno la sua esistenza si trascinò così, scalando la scala sociale, sempre più donne e soldi e potere finché un giorno, il tracollo: passeggiava lungo il fiume, e sul greto, accanto alla carogna d’un ratto, scorse un ciottolo diverso fra gli altri; lo raccolse e ci riconobbe un frammento di un’iscrizione latina, C. A., Gaio Antonio quindi.
“Vedi, chissà quali affanni ha avuto quest’uomo, cosa cercò di raggiungere in vita e quali ambizioni aveva tanto da lasciare di sé un ricordo a sempiterna memoria. Guardalo oggi, sasso fra i sassi, letto di morte per una penticana.” E capì.
Lasciò tutto e tutti, dicemmo, e come foglia morta cade, cadde, e come foglia caduta stette lì a marcire.
“Tutti han pensato al suicidio, non può essere altrimenti, non si può essere così stupidi da non farlo, credeva, è forse l’unica risposta, la morte, cinquant’anni per capirlo. Ma Pandora, un ultimo e più crudele male uscì dal tuo vaso, allora, e ancor nell’inganno ci condanna.
Trovare il coraggio, ora, è un’altra faccenda, l’ottusità umana è tale da spingerci ai gesti più folli insensati e inutili e a trattenerci la mano quando potremmo raggiungere la libertà più agognata, quella dall’esistenza.” E pianse, che un uomo non deve mai piangere, diceva. Ma si sa, la vita è un aguzzino crudele e quanto mai imprevedibile.”
Ora al mondo c’è un morto di meno.
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