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Sulla terrazza di Cagli
Sono nella mia vecchia casa, al peep, mi trovo in cucina, è già notte, ora di cena, ma sul tavolo oltre a stoviglie e pietanze c’è anche il mio vecchio vocabolario di latino, rivestito di pelle rossiccia, che una volta fu di mia zia, poi di mia madre, poi mio e ora di mia cugina.
Devo andare ad uno spettacolo a Cagli, quella sera, ma ora non ricordo di che genere, so solo che è in teatro. Verranno anche alcuni amici, ma non ho voglia d’aspettarli, parto prima, mi raggiungeranno.
Arrivo a Cagli in corriera; ora è giorno, c’è una luce accecante, come quando, nelle prime ore dei pomeriggi di luglio, esco dopo essere stato diverso tempo in casa, al buio. Ma la sera è la stessa di prima, non è il giorno dopo.
È pieno di gente, nello sciamare festante mi ricorda il Mugello quest’anno, prima della corsa. Attraverso la stazione delle corriere e seguo il flusso delle persone, stupito scopro una città splendida, nella sontuosità e nello stile imponente e aggraziato dei palazzi pare una capitale mitteleuropea; avevo sempre sentito parlar del centro storico di Cagli, ma non c’ero ancora mai stato.
Arrivo davanti al teatro, le porte sono aperte ma nessuno ancora entra: il teatro si trova defilato sul lato sinistro di un’immensa terrazza, sembra una piazza, e accanto ad esso c’è un muro, non troppo alto, su cui si aprono delle ampie finestre da cui tutti cercano di affacciarsi. Per ingannare l’attesa, infatti, hanno organizzato qualcosa là sotto, vorrei vederlo anch’io ma gia c’è troppa gente, troppa ressa. In vari punti della terrazza, che ora è una stanza, ci sono delle aiuole di pietra rialzate, con al centro un albero. Io mi siedo su uno di questi muretti e cerco di ascoltare cosa succede là fuori.
All’inizio sembra che ci sia il circo, si sentono barriti degli elefanti e versi di altri animali che ogni tanto sovrastano un felice brusire, interrotto ogni tanto da espressioni collettive di acclamazione e stupore. Poi arriva una musica, un bel rock n’ roll anni cinquanta, e molti, increduli, si mettono a ballare, vorrei farlo anch’io, ma son solo.
Guardo le altre coppie ballare, son tutte d’adulti; ma c’è anche una ragazza che balla col padre canuto. Lei avrà quindici anni, lunghi e lisci capelli scuri, mi colpisce il vestito: porta dei pantaloncini molto corti su delle calze nere, ai piedi ha delle scarpe ugualmente nere, di pelle, basse ma comunque eleganti; sopra porta invece una felpa grigia, almeno due taglie più grande, con l’effige di un mastino, credo sia il simbolo di qualche squadra di basket. Provocantemente sciatta, non vorrei sentirmi nei panni del padre non tanto per l’eccessivo mostrare della figlia, ma piuttosto per la sua assoluta mancanza di buon gusto nel vestire.
La ragazzina mi guarda, intensamente, ha gli occhi verdi; ma non riesco a sostenere lo sguardo, abbasso per primo gli occhi.
Ora mi trovo in uno stato di impietrita semicoscienza, quasi come in coma, riesco a vedere e sentire ma la testa è pesante, le membra immobili.
Arriva Montoni con mio fratello, il primo cerca di svegliarmi ripetutamente -Looriii- -Looriii- -Looriii-, accompagnando i lamentosi richiami con dei calcetti.
Niente, non riesco a muovermi, neppure a parlargli, ma son contento quando se ne vanno, non vedevo l’ora di essere ancora solo.
Poi mi sveglio ma rimango disteso, sempre lì, su quell’aiuola di pietra, ora c’è tanta gente d’intorno, che lo spettacolo sta per cominciare. Arrivano Paolo e Margherita, lui ha la faccia violacea ma ciò mi sembra naturale, non ne sono sorpreso; mi fanno le solite domande che si fanno quando si incontrano amici a una festa, dove sono gli altri c’è questo c’è l’altro a che ora incomincia…
Poi lei mi avvisa che ho un gatto sopra le gambe, -andrà via- le rispondo, -guarda che c’ha i coglioni sporchi di merda, ti sporca-. Non ho mai amato i gatti. Mai, sarà per la loro strafottente libertà che non potrò mai avere; adoro i cani, invece, schiavi fedeli di un altro schiavo.
Vorrei scacciare quella penosa creatura, ma sopraggiunge di nuovo quel torpore immobilizzante; però con un ultimo sforzo riesco a sollevare a stento la testa quel poco che basta a vedere che non c’è nessun gatto su di me, son contento, ma appena la riabbasso sento respirarmi sul collo, e una sensazione strana all’orecchio destro, dapprima un umido solletico che va mutandosi in un dolore sempre più acuto, sento il sangue che comincia a scorrere via.
Non vedo, ma mi accorgo d’avere il gatto sotto la testa, che nel mordicchiare per gioco il mio lobo aveva sentito il sapore del sangue e, vorace felino, aveva preso a mangiarmi.
Riesco a raccogliere le ultime forze e agguanto il maledetto animale, ma più cerco di strapparlo via più esso stringe i denti, mi strappa l’orecchio: il dolore è ormai insopportabile, mi acceca, non riesco più a ragionare, per la prima volta nella mia vita mi sento perduto.
Poi d’istinto gli spingo un dito sul gozzo, mi gioco le ultime forze: funziona, disserra le mascelle. Allora lo afferro e lo scaglio lontano, con la rabbia di un animale ferito.
Era un cane.
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