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Il cuore del corvo
Per quelli come me non c'è lieto fine. Passi la vita a lottare strenuamente per conquistare la libertà, ma resti comunque chiuso in una gabbia.
La mia vita mi soffocava, m'incatenava ad uno stato di catalessi, in cui tutto quello che mi circondava mi feriva, ma io ero un'ottima attrice.
Bastava un sorriso falso, una battuta divertente, e nessuno si accorgeva del dolore che mi lacerava.
La gente era troppo occupata a pensare a se stessa per preoccuparsi degli altri.
Erano mesi che soffrivo d'insonnia ormai, così avevo preso l'abitudine di fumare un pacchetto di sigarette sulla veranda di casa mia, contemplando il cielo notturno.
Abitavo abbastanza lontana dal centro urbano, quindi mi godevo la vista in aperta campagna, senza quei lampioni accecanti che alteravano la naturale oscurità notturna.
Adoravo guardare le stelle, e spesso immaginavo come sarebbe stata la vista da lassù.
Quei pensieri, mi riportarono alla mente le notti trascorse al mare a guardare il cielo stellato accanto a mio padre.
Erano già passati due anni dalla sua morte. Un brivido mi percorse la schiena, e sentii gli occhi bagnarsi di lacrime.
Le ricacciai indietro, e pensai che ormai ero un'adulta, e che avevo scelto io d'interpretare quella parte così scomoda, scappando di casa dopo il diploma.
Avevo vagabondato, e alla fine mi ero arresa alla sorte. Vivevo in una squallida baracca, facevo la cameriera in un bar del centro, e il passato mi tormentava.
Sentii la suoneria del mio telefono cellulare e aprii gli occhi.
"Emma che vuoi?"
Avevo la voce ancora impastata dal sonno.
Dall'altro capo del telefono, la mia amica parlò con voce scocciata.
"Irene, accidenti, sei in ritardo! Lo sai che il capo è inflessibile per quanto riguarda gli orari!"
Non persi tempo a risponderle. Chiusi la chiamata, e mi diressi alla fermata dell'autobus senza neanche cambiarmi.
Il tepore del sole in quella mattinata di primavera era piacevole.
Guardai gli alberi in fiore sul viale che percorrevo abitualmente, e ne fui invidiosa.
Traboccavano di vita, mentre io stavo appassendo.
Scesi dal bus, e attraversai il centro in tutta fretta, tenendo una sigaretta fra le dita.
Entrai dal retro, e infilai la divisa, cominciando il mio turno di otto ore, più quattro di straordinario.
Prendevo ordinazioni, e servivo i clienti rumorosi con i portafogli colmi di denaro.
Mi sembravano tutti uguali. Tutte macchie informi, che scivolavano davanti ai miei occhi già offuscati dall'eccesso di fumo e alcool.
Guardai dall'altra parte del locale, e vidi Emma che mi faceva cenno di avvicinarmi.
Indossava un completo molto elegante, e portava i lunghi capelli corvini raccolti in un raffinato chignon, mentre io non potevo nemmeno permettermi di andare dal parrucchiere.
Lei era una mia compagna al liceo, nonché figlia del proprietario del bar in cui lavoravo, il "Sunflower", e mia migliore amica da sempre.
"Te lo dirò solo una volta Irene, non arrivare più in ritardo o sarò costretta a licenziarti"
Annuii, e lei sorrise, facendomi cenno di tornare al lavoro. Non era davvero arrabbiata, e non mi avrebbe mai licenziata, ma era necessario che facesse un po' di scena davanti a suo padre.
Le ero grata per il lavoro che mi aveva offerto, e soprattutto per il fatto che non aveva mai smesso di credere in me. Io amavo scrivere, e lei era convinta che un giorno sarei diventa un'autrice di fama mondiale.
Purtroppo i miei sogni erano morti insieme a mio padre, quel maledetto 23 marzo.
Mio padre doveva venirmi a prendere dopo un convegno sulla scrittura, a cui avevo voluto assistere a tutti i costi. Non aveva mai infranto alcuna regola del codice stradale, era sempre prudente, ma quel giorno era in ritardo. Era appena sopra il limite di velocità consentito. Non si accorse della curva. Non decelerò. Non riuscì a frenare in tempo.
Io mi arrabbiai. Quando tornai a casa decisi che lo avrei rimproverato a dovere, ma sentii mia madre singhiozzare. Vidi le buste della spesa sparse per il corridoio, e corsi in soggiorno. La cornetta del telefono penzolava ancora verso il pavimento di mattonelle rosse di seconda mano. Il mio cuore si fermò.
Mia madre si voltò a guardarmi, e balbettando pronunciò le parole: papà, incidente, morto.
Un mese dopo ci trasferimmo da mia nonna, e vendemmo la casa. Io non riuscii a perdonare me stessa, così finii il liceo, e presi il primo treno per la capitale. Non le dissi neanche addio, non mi voltai mai indietro, né pensai mai di fare visita a mia madre. Era il mio fardello, il mio peccato, il mio tormento. Tornai bruscamente al presente e continuai a fare il mio lavoro.
Finito il turno le colleghe mi invitarono a bere un bicchierino, e io accettai ben volentieri. Avevo bisogno di schiarirmi le idee. Ridemmo, chiacchierammo, e fra un pettegolezzo e l'altro mi parve di capire che Emma si era fidanzata con un pezzo grosso, e che a breve si sarebbero sposati. Ci furono risatine e rutti d'approvazione poi, a serata conclusa, ognuna si diresse verso la propria abitazione.
Le strade erano deserte. Annusai l'aria, e avvertii un forte odore di pioggia. Il tempo era instabile in quel periodo. Pensai che magari un bell'acquazzone mi avrebbe lavato via i cattivi pensieri, così sperai in una fitta pioggia, e cominciai a camminare con il naso per aria.
Qualche minuto dopo fui accontentata. Tuoni, lampi e pioggia. Il temporale perfetto. Sentivo l'acqua fresca bagnarmi la pelle. Fu così rigenerante e folle. Restai ferma un bel po' ad inebriarmi di quella freschezza, e del pungente odore di primavera.
Il mondo si era fermato.
In quell'attimo surreale io ero felice.
Improvvisamente sentii un rumore riecheggiare insistentemente nelle mie orecchie, e tornai alla realtà.
Era il clacson di una moto che avanzava minacciosamente verso di me. Pensai che dopotutto non era un brutto modo per andarsene, così allargai le braccia, chiusi gli occhi, e attesi la falce.
Non successe. Quella sera non morii. Sentii i freni stridere, e la moto cadere al suolo.
Aprii gli occhi e vidi una persona rialzarsi lentamente, ed avvicinarsi a me.
Doveva essere un uomo a giudicare dal torace ampio, e le anche strette. Era più alto di me di almeno 6 centimetri. Si fermò, e si tolse il casco.
Due occhi neri si fissarono minacciosi nei miei, e lasciarono trasparire solo odio.
Erano scuri, profondi, e tuttavia vuoti.
Sembrava che in realtà mi stesse guardando come se non fossi un essere umano.
Quanto disprezzo in quegli occhi così belli.
"Perché non ti sei spostata? Ho suonato!"
Una voce calda, profonda e arrabbiata. Lo guardai senza rispondere. Volevo osservarlo. Le gocce di pioggia gli bagnavano i capelli corvini, e la pelle candida sembrava quasi tempestata da piccole schegge di diamante. Tornai a guardarlo negli occhi, gli scivolai accanto superandolo, e proseguii per la mia strada senza voltarmi.
Decisi di non rovinare quel momento perfetto. Quegli avvenimenti mi avevano dato una nuova forza. Decisi che il giorno dopo avrei ripreso a scrivere.
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1 recensioni:
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- Racconto ben scritto, ritmo scorrevole, buona l'idea iniziale; parziale autoritratto dell'autrice come ogni racconto di questo tipo che si fa leggere bene e permette di immedesimarsi nel personaggio principale, ben delineato.
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