racconti » Racconti di attualità » Settembre
Settembre
SETTEMBRE
È un settembre decisamente caldo; ho puntato la sveglia alle 7. 30 in modo da svegliarmi per tempo, devo portare mia nipote a scuola, ma faccio fatica a svegliarmi, tengo gli occhi chiusi anche mentre sono già in piedi e mi dirigo verso il lavello, giusto per darmi una sciacquata alla faccia.
Sono già di pessimo umore, ma mi trattengo, il mio personalissimo fioretto laico è: non bestemmiare di primo mattino almeno per tre giorni.
Provo a farmi la barba, ci riesco, nonostante due taglietti sul mento che proprio non sono riuscito a risparmiarmi. Amen.
Rovisto nei cassetti: calze, biancheria pulita, pantaloni e una camicia di tintoria. Non mi sembra vero ma sto per rendermi presentabile agli occhi del mondo, sto per uscire di casa compunto, ad un orario decente, sto per mettermi in macchina come un qualunque lavoratore padre di famiglia che si reca a guadagnarsi la giornata. Per colazione ingollo una merendina confezionata, mi è più che sufficiente, e poi non voglio fare tardi.
Uno sguardo allo specchio: pallido, un poco smagrito, vestito meglio del solito ma sono io. Mi lego i capelli in un modesto codino con un sottile nastro nero ed esco. Ho lanciato uno sguardo malinconico all’appartamento traboccante di malinconia e disordine, ma al diavolo penso, non devo indugiare, devo far credere di essere un bravo zio.
Esco di casa ancora avvolto dagli effluvi di dopobarba e monto in macchina; la radio non mi piace, l’ho sempre detestata, preferisco un cd con la mia hit del momento. Perché la radio? Per sentire le canzoni che non mi piacciono? O qualche dj saccente che si crede un gradino sotto Dio e invece è solo un bischero? No no. Meglio un cd come si deve.
Mia sorella è una brava ragazza madre, più giovane di me di sette anni, un matrimonio fallito alle spalle, un ex marito violento e una figlia, Veronica, mia nipote. Oggi è il suo primo giorno alle superiori ma la madre non può accompagnarla, impegni di lavoro, o così mi sembra di aver intuito nel laconico colloquio telefonico con mia sorella ieri sera.
Non riesco a prestare attenzione quando parlo al telefono. Non mi sento in dovere di prestarla. Penso sia tutta questione di impegno, di ciò che i nazisti chiamavano volontà, come dice il poeta. Ho la tentazione di ritenere che un certo tipo di volontà non sia poi un grande affare.
Percorro i tre chilometri che mi separano da casa di mia sorella, una bella palazzina ai bordi di una strada alberata, un viale simile a quelli che fino ad un po’ di tempo fa conducevano alle chiese. Uno sguardo all’orologio: le otto e venti, sono assolutamente in anticipo, visto che l’ingresso per oggi è alle nove. Dalla finestrella della cucina Veronica mi sventola la mano sorridendo tutta eccitata, ricambio il suo benvenuto con un largo sorriso, accosto e vado verso il portone; con un click secco scatta a serratura della porta d’ingresso, è stata di sicuro mia nipote che, vedendomi arrivare prima, ha anticipato lo squillo del citofono.
Salgo due rampe di scale e sono arrivato, Veronica è sull’uscio e già mi squadra: una bella ragazza mora, già matura nelle forme e nell’aspetto, con uno sguardo che tuttavia tradisce ancora un’incertezza, un pudore bambino che ancora per qualche tempo l’accompagnerà, per quanto lei tenterà di dissimularlo.
“Ciao zio, sei in anticipo…” lo dice in modo canzonatorio, è chiaro che mi sta prendendo in giro.
“In anticipo per cosa?” faccio il finto tonto, ma lei non abbocca, non più.
“Seee, ma chi vuoi fregare? Per portarmi a scuola no?”non l’ho fregata, ma nemmeno ci speravo molto in verità.
“Va là, certo che mi ricordo, volevo vedere se ti ricordavi anche tu” ammicco, lei ride coprendosi la bocca con la mano, stavolta ho fatto centro, almeno un sorriso glielo ho strappato.
Varco la soglia, in casa regna un odore denso di cera, di appretto, mia sorella si sarà alzata all’alba per sistemare l’appartamento.
“Chi è? Veronica, è lo zio?”
“Sì, sono io Cristina, tranquilla”. È ancora in casa, ma dal tono trafelato capisco che ci starà ancora per poco, esce dal bagno in una nube di lacca aggiustandosi gli orecchini e mi saluta:
“Ciao Massimo, sei già qui? Meglio, almeno arrivate là un po’ prima, Vero, hai sistemato le tue cose? Il diario, una penna… vedi di segnare tutto, mi raccomando che poi sennò siamo alle solite”
Mi si avvicina, mi bacia distrattamente la guancia mentre afferra l’agenda dal tavolino d’ingresso.
“Scusa se ti disturbo ma sono presissima, oggi viene l’architetto e siamo tutti tesi in studio, devo fare presto, accompagna la Veronica fino all’ingresso e vedi com’è, tutto qui”.
Non so praticamente nulla del suo lavoro, ma con tutta evidenza si tratta di una giornata importante, anche perché non avevo mai visto mia sorella in tailleur nero, elegantissimo, trucco curato e capelli castani freschi di piega. Mi limito ad annuire e a regalare ampi sorrisi rassicuratori.
“Vero, chiudi tu.” Esce, immagino si stia precipitando giù dalle scale.
Mia nipote intanto sta ancora sorseggiando il suo caffelatte, in piedi, visibilmente sulle spine per il nuovo corso che si appresta a piombarle addosso.
“Siamo in una sezione di sole femmine…” Inizia in medias res a parlarmi.
“Penso sia per il tipo di scuola, non hai detto che vai a fare le magistrali?” domando io.
“Si chiama Liceo psicopedagogico”.
È quasi risentita. Sì, vabbè, ora è tutto liceo, basta fare la prima scuoletta che ti gira per la testa e subito c’è il marchio di liceo. Uno studente liceale. Mania da etichette.
Mi soffermo sul senso di quel nome: psico, quindi psiuchè, anima, pedagogico, agogheo, sarebbe guidare il fanciullo. E dunque? Che sarà? Guidare il fanciullo con l’anima? Mi chiedo se Veronica si sia fermata a riflettere cinque secondi sul senso etimologico che rappresenta la sua nuova scuola. Mi rispondo di no, e capisco anche che non è il caso di insistere troppo su questo versante.
“Ci sono delle tue compagne delle medie?” Domanda banale banale, ma non mi viene in mente altro.
“Siamo in dieci della mia vecchia scuola.” Taglia corto.
“Su quante?”
“Ventisei”.
Alla faccia. Quasi la metà della classe. Spero andassero d’accordo anche gli anni passati, sennò è un disastro.
Rubo due biscotti dal vasetto di vetro sulla mensola della cucina e do un’occhiata fuori: poche macchine, qualche bicicletta, un gruppetto di ragazzine che strillando si muove in direzione della scuola, che in linea d’aria dista almeno cinque chilometri. All’andatura a cui procedono arriveranno almeno con un quarto d’ora di ritardo.
Mia nipote intanto sta armeggiando in camera sua, si sentono sbattere ante e cassetti, magari non trova qualcosa, ma non mi preoccupo, cose da ragazza, penso.
“Ho il telefonino scarico, questa batteria non tiene più niente, l’ho caricato ieri pomeriggio ed è già a terra, accidenti!”
Ecco un imprevisto che non aveva considerato, il telefonino che ha tanta voglia di cambiare, e che guarda caso ha una batteria inefficiente… lascio perdere, poi salta fuori che glielo devo regalare io, cosa che non ho la minima intenzione di fare.
Se fino a pochi secondi fa ero ancora ancora ben disposto a scambiare due chiacchiere, ora non più. Sono annoiato, mi è montato un vago senso di nausea alla bocca dello stomaco e ho la lingua impastata, mi sembra titanico anche solo articolare due sillabe.
L’orologio a muro segna le otto e quaranta.
“Vero, sei pronta? Dai che andiamo.” Ho voglia di sbrigarmela alla svelta.
Mia nipote sta sistemando le ultime cose nello zaino, sembra piuttosto cupa ora che la osservo attentamente, magari è solo per la notte in bianco dovuta all’agitazione.
Squilla il cellulare di Veronica, lei si precipita vicino alla presa della corrente dove è sotto carica:
“Sì, oh ciao… va bene… ma sei già qui? Alla stazione? Ok, bene, ci vediamo davanti alla scuola allora? Sì, sì, ci penso io, a dopo.”
“Una tua compagna?” Provo ad intromettermi senza troppa convinzione.
“Sì, la Chiara, è alla stazione, mi ha detto di prendere i posti dietro…”. Continua a trafficare con i suoi oggettini, finchè con un colpo secco non chiude il laccio e si issa il fardello sulle spalle.
“Possiamo andare zio.”
Porca miseria sono già tutto sudato, ma è mai possibile? Non ho fatto niente e sono sudato. Provo a fatica a non venirmene fuori con qualche moccolo in presenza di Veronica, che in quanto a comportamenti scurrili ha comunque tutta l’aria di una che la sa lunga. Vedo le tette che premono pesantemente contro la fibra della sua magliettina, lo sguardo che si vuole smaliziare a tutti i costi, il trucco pesante e malmesso sulle guance. Mi viene spontaneo chiedermi quando Veronica la darà a qualcuno. Presto o tardi?
“Chi viene a prenderti?”
“Viene papà, lo abbiamo avvertito ieri sera.”
Seee, stai fresca che viene quel pirla.
Scendiamo la rampa delle scale, usciamo sul marciapiede, apro la macchina che nel mentre è diventata un forno; Veronica sbatte lo zaino sul sedile posteriore e si siede davanti, ha un’aria assorta, distante, sembra non sapere nemmeno lei a che pensare.
Suo padre. Mi chiedo ancora come possa attendere suo padre come fosse l’angelo redentore; potenza della genia.
“Fumi ancora zio?” mi sembra incredibile che finalmente mi abbia rivolto la parola lei per prima.
“No, ho smesso già da un po’”.
“È che io ogni tanto fumo, ma solo quando sono in compagnia.” Rimane con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si sforza di farmi impressione in qualche modo.
“In compagnia di chi?” la prima domanda che mi passa per la testa.
“Come di chi? Della mia compagnia no?” sembra spazientita, in realtà per me il concetto di compagnia come lo intende lei è un oggetto misterioso. “Possibile che tu non sia mai stato in una compagnia.” Continua, visibilmente irritata, forse crede che la stia prendendo in giro, ma non è così, provo a mostrarmi più pertinente: “Un gruppo di amici intendi no?” “Ecco sì, un gruppo di amici…” sembra rasserenarsi, si sposta una ciocca di capelli dagli occhi e se la aggiusta dietro l’orecchio.
“Non ho mai avuto tanti amici, un gruppo di amici mi sembra qualcosa di impegnativo, come si fa ad essere veramente amici di tanta gente?” Mi pento subito di quello che ho detto, sto azzardando un argomento che lei non capisce, mi guarda stranita, tento di aggiustare il tiro: “Comunque fai bene a conoscere tanta gente, non si può mai sapere nella vita.”
Lo sguardo di Veronica resta perplesso, non sono riuscito a distoglierla dalla mia prima fase, che evidentemente per lei resta alquanto enigmatica, se non addirittura priva di senso.
“Che c’è?” le chiedo.
“Niente… è solo che…”
“Solo che…?”
Passano cinque secondi in cui lei tenta di dare una forma verbale ad un pensiero, una sensazione che ora le sta invadendo il corpo come un’endovena: “Perché non mi dici che fumare fa male?”
“Perché lo sai benissimo da te.” Odio questi siparietti da talk show.
“Ma io non fumo tanto, solo in compagnia…”
“Non ti ho chiesto una giustificazione, tranquilla…” In effetti mi sentirei ridicolo a tentare di impartirle qualcosa; cazzo, sono suo zio, ci vediamo pochissimo, e poi è vero che in fin dei conti non mi importa niente di quello che fa.
“Dici che allora ogni tanto posso farlo”, dalla diffidenza iniziale sta passando al costruirsi un alibi per il suo vizietto, ma non ci casco: “Non ho detto questo piccola, devi essere tu a decidere, e se sai che il fumo fa male è stupido da parte tua farlo solo perché lo fanno gli altri.” Bene, forse un poco edulcorato ma nel complesso efficace. Veronica non è stupida come vuol far credere. È in una fase delicata, forse comincio a capirla.
Passiamo in macchina attraverso i filari di alberi che costeggiano la carreggiata, l’aria è tersa, solo la luce tradisce il fatto che siamo agli ultimi bagliori dell’estate, ma è un clima d’oro, è il clima di settembre. Mia nipote continua a fare la pensierosa, si stropiccia le guance con le mani e tiene ora lo sguardo basso, come fosse colpevole di qualcosa. L’argomento del fumo è un terreno che non avrei mai dovuto calpestare, non con una ragazzina, non con mia nipote; non so parlare con gli adolescenti, sarà perché l’adolescenza è un periodo della mia vita che non ho mai vissuto veramente, né tantomeno felicemente.
Mi viene da dire che sono passato dall’infanzia direttamente alla giovinezza, senza transitare per questo fastidioso limbo che, dentro di me, considero più un’invenzione di qualche psicologo da strapazzo che non una realtà con cui fare i conti. Sì, l’adolescenza è un falso problema, roba per giornaletti. Psicologo. Qualcuno che pretende di fare un discorso sull’anima, l’etimo non mente mai.
Sul cd è il turno di una canzone dei Doors, The end, forse il brano che in assoluto ha significato di più nella mia vita, e di cui Veronica nemmeno vagamente sospetta la portata. Avrei la tentazione di farglielo notare, ma mi rendo subito conto che sarebbe inutile: la scuola è a poche decine di metri, dopo il semaforo in fondo alla via sulla destra, meglio lasciarla andare senza ulteriori paturnie.
Con mio grande stupore mi accorgo che il gruppetto di ragazzine urlanti che avevo notato poco prima dalla finestra è quasi arrivato; saranno forse in ritardo, ma al massimo di cinque minuti, le avevo bellamente sottovalutate, devono avere gambe, penso, o forse conoscono qualche scorciatoia che io non so.
Veronica ha staccato la schiena dal sedile e ora scruta in fondo alla via, cerca le sue compagne, non vuole entrare da sola a scuola il suo primo giorno. È verde, ingrano la prima e parto, sono le nove spaccate e intorno all’istituto c’è una gran viavai di macchine, biciclette e motorini; lascio l’auto nel primo spazio libero che trovo, è l’area di sosta dei pullman, fa niente, tanto cinque minuti e sono indietro. Una mamma di mezza età col reggipetto imbottito e una tintura di capelli improbabile si avventa su Veronica e inizia a baciarla; è lampadata all’ennesima potenza, ha la pelle così secca e rovinata che nemmeno dieci applicazioni al giorno di quelle cazzo di creme al retinolo che sicuramente usa possono farle alcunché. Mi scippa letteralmente mia nipote dalle mani e fa per portarsela verso il crocchio di mamme amiche assiepato qualche metro più in là. Veronica si volta verso di me con uno sguardo che non so se interpretare come un aiuto non ci voglio andare o piuttosto come un posso andarci? Nel dubbio le chiedo se vede qualche sua amica, lei mi dà un cenno di assenso col capo, a quel punto mollo la presa, ma la tengo d’occhio. La mamma abbronzata mi ha lanciato un’evidente occhiata di antipatia, forse conosce Cristina, forse ha scambiato me per Mario, il mio ormai ex cognato.
Veronica ora è a una decina di metri da me, la lampadata e un’altra mamma la accarezzano mentre continuano a chiacchierare dei fatti loro, magari si stanno mettendo d’accordo per andare a portare e a prendere i figli, o forse stanno ancora disquisendo sulle vacanze estive trascorse da poco. Mi figuro come gruppetti come questo si ammasseranno lungo tutta la durata dell’anno scolastico, con queste mamme che arrivano mezz’ora prima dell’uscita dei figli solo per poter parlare in santa pace. Magari è un team consolidato dalle elementari, o forse si è formato da poco, ma in ogni caso viene reso incrollabile dal collante delle cose in comune. Ehi, sono come noi!
Anche Cristina avrà modo di partecipare a queste riunioni, ne sono più che certo, e probabilmente anch’io, se mi avvicinassi, potrei rendere un buon officio a mia nipote, rivelandomi brillante e simpatico. Ma è tutta una vita che fingo, con sommo sforzo, di essere brillante e simpatico, e oggi, lunedì 11 settembre proprio non me la sento di intavolare una nuova recita. Mi viene repentina la voglia matta di una sigaretta, erano mesi che non avvertivo quel prurito, ma come? Qui? Ora? Con tutto la fatica che ho fatto per smettere? No, lasciamo perdere. A dire la verità nemmeno è stato un grosso sacrificio; no, non ho fatto poi così fatica a smettere di fumare, semplicemente non ne avevo più voglia. Certo che potrei chiederne una a quel ragazzetto che sta aspirando con aria spavalda la sua Pall Mall.
“Me ne dai una?”
Il ragazzo mi appare leggermente contrariato, mi sta squadrando da dietro le lenti dei suoi immensi occhiali scuri, capelli rasati, basso, magro, chiuso in una felpa blu col cappuccio che Dio solo sa come fa a non crepare di caldo; per rompere lo stallo parlo di nuovo io:
“Pago eh? Non sono uno scroccone…”
Questa frasetta alquanto cafona ha su di lui un effetto calmante, al che prende la parola:
“Ma figurati, offre la casa.” Mi sorride, gli rispondo con tutta la sincerità che posso.
Intanto lancio un’occhiata a Veronica, che è ancora in mezzo al crocchio e non spiccica una parola, sta con le braccia conserte e si fissa le punte delle scarpe.
Guardo l’orologio: le nove e sette minuti, sono in ritardo, non male come primo giorno. Ma ecco che la massa umana si muove: mi rendo conto che hanno aperto le porte, gli studenti alla rinfusa si accalcano agli ingressi. È pazzesco quanta voglia abbiano di cominciare, soprattutto se penso che a giugno faranno a pugni per essere i primi ad uscire e a scappare verso le vacanze estive. Raggiungo Veronica, la stringo protettivamente per le spalle, ora basta dare retta a quello spaventapasseri della lampadata, è meglio attendere che il flusso defluisca.
“Aspettiamo piccola, tanto un posto per te c’è di sicuro…”
Mi guarda, ride, ma stavolta è sinceramente convinta che sia meglio aspettare un attimo. In pochi secondi il crocchio di mamme si disperde, ognuna salta sulla sua macchina e si mette in coda per andare chissà dove. A quel punto lascio a mia nipote il suo zaino, le accarezzo i capelli:
“Ora puoi andare direi, ti serve qualcosa?”
“No, è tutto a posto…” poi ci pensa e aggiunge: “Come faccio a sapere dov’è la mia aula?”
Bella domanda. Come funzionava ai miei tempi?
“Vedrai che ci saranno tutte le indicazioni, al massimo chiedi, ok?”
“Ok…”
“Per venirti a prendere?”
“Ci pensa papà…” è convinta, magari verrà a prenderla davvero, ad ogni modo tenterò di contattare sua madre per esserne sicuro.
Veronica viene inghiottita dal portone d’ingresso, non faccio nemmeno in tempo a dirle un ciao come si deve. Amen. Riprendo la macchina già rassegnato a passare un’altra ora di coda. Fa veramente caldo, un caldo infernale, che settembre! Mah, in fondo è ancora estate, anche se vogliono farci credere in ogni modo che non sia così… che via è questa? Via Gramsci… dovrebbe esserci un tabaccaio da queste parti…
1234567
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- vera e fresca, malgrado la contagiosa sensazione del caldo, appiccicata alle parole..
gesti narrati all'interno di una quotidianità, apparentemente ritmata dalla consuetudine, ma costruiti e cementati da un saldo sapere trascorso e da un'osservazione staccata del presente..
mi assomiglia
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0