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Neve segreta seconda parte
9 febbraio 1965
ore 7, 45
" Buon onomastico Lucia! "
La voce calda e allegra di zia Nives scacciò la mia piccola tristezza. Non pensai più alla dimenticanza dei miei genitori. Mi vorranno fare una sorpresa. Ne ero certa.
Zia Nives invece mi diede subito il suo regalo. Me lo porse incartato ma la sua forma rivelava il contenuto lasciando poco spazio alla sorpresa. Tuttavia quando ti regalano un libro un po' di sorpresa rimane. Prima di scartarlo non sai che libro sarà, se ti piacerà, o se piaceva solo a chi te lo ha regalato. Come tutti i bambini non è che amassi leggere come amavo la cioccolata. Però non ero neanche una bambina che non leggeva mai. Magari per imitazione, vedendo papà sempre con un libro in mano.
Qualche bel libro lo avevo letto anche io.
Lo scorso anno avevano insistito a farmi leggere il libro Cuore di Edmondo De Amicis. A me veramente non era piaciuto tanto. Era triste e pieno di buoni sentimenti. Sapeva di antico. Anche il nome dell'autore era antico. Io non avevo conosciuto mai nessuno che si chiamasse Edmondo. A dire il vero, non ne ho mai conosciuto uno. Neanche adesso che i ricordi che si accumulano mi rendono consapevole di aver trascorso un bel po' di vita.
Pure il cognome sembra venuto dritto dritto dall'Ottocento: De Amicis. Mi faceva ridere. Lo ripetevo più volte e mi sembrava buffissimo. Lo ripetevo mentalmente sempre più veloce e mi faceva ridere. De Amicis, De Amicis, De Amicis, De Amicis. Mi ha sempre fatto ridere, almeno fino a quando non conobbi il nome di un pittore ancora più buffo: Filippo de Pisis.
Presi a ripetere il suo nome sempre più in fretta e mentre le sillabe si affastellavano e si alternavano nella mia mente, un moto irrefrenabile di ilarità mi spingeva a ridere e ridere sempre di più. Per lungo tempo tradii De Amicis con de Pisis, e devo dire che ripetere a lungo quel nome tra me e me aiutava spesso a superare i momenti scuri che pian piano si facevano largo sempre più spesso nella mia coscienza.
Oggi questo giochino non funziona più.
Scartai il libro, un po' delusa dal regalo, un po' curiosa di sapere se zia mi avesse regalato qualcosa di inatteso da leggere.
" Che cosa mi hai regalato? "
" Scartalo e vedrai! "
" E dai zia, dimmelo! Lo sai che sono curiosa." Prolungavo l'attesa con quella manfrina sciogliendo lentamente il nastro che legava il pacco.
"Non fare la stupidina! È inutile che te lo dica io visto che lo stai aprendo tu!" rispondeva zia prolungando il gioco.
Io arrotolavo il nastro, che nel frattempo avevo sciolto, aiutandomi con le dita. Era un nastrino dorato con i bordi rossi. Lo arrotolavo sulla mia piccola mano con una lentezza esasperante mentre zia cominciava a spazientirsi.
Adoravo far perdere la pazienza a zia Nives.
Me ne accorgevo subito. Quando cominciava a spazientirsi faceva un piccolissimo scatto laterale con la testa e poi parlava leggermente più in fretta. Solo chi la conosceva bene però poteva percepirlo.
La guardavo e arrotolavo il nastrino. E sorridendo la supplicavo: " Ti prego, zia! Ti prego, dimmelo! Dimmi cosa mi hai regalato! "
Zia mi assecondava anche se parlava un po' più veloce e muoveva impercettibilmente il capo sulla destra: "Aprilo e vedrai! Su, tesoro, sbrigati che poi ti devi vestire. "
Sentivo il tic - tac della pendola nello studio di papà. Fuori non si udiva alcun rumore. La voce della città era attutita dalla coperta di neve che lentamente la avvolgeva sempre di più. Prolungai il tempo all'infinito, poi, d'improvviso, scartai il regalo distruggendo la carta rossa che lo ricopriva.
" Bello "commentai e nascosi il libro sotto il cuscino senza degnarlo di uno sguardo precipitandomi alla finestra.
" Allora? Non mi dici neanche se ti piace? "
" Te lo dirò quando lo avrò letto, zia. Comunque grazie." Lo facevo solo per farla innervosire. Avevo una voglia matta di sapere di che libro si trattasse ma non lo guardai. Però quella mattina non mi andava assolutamente di leggere libri.
Veramente non avevo voglia neanche di andare a scuola.
" Adesso sbrigati che devi andare a scuola " disse zia.
" Ti prego, zia, non mandarmi a scuola, guarda come nevica. Vieni a vedere! " Ero attaccata al vetro della finestra di camera mia e disegnavo i cuoricini con le dita sull'alone del mio fiato.
" Smettila con quei cuori che poi mi impazzisco per far andare via il segno! " mi rimproverò zia Nives. Poi si mise accanto a me e mi abbracciò guardando cadere la neve sul giardino e sulla strada sottostante.
" Anche l'anno che sei nata tu ha nevicato tanto. Faceva freddo come adesso. " E mi strinse ancora più forte.
" Posso rimanere a casa, zia? "
" Devi andare a scuola, Lucia, quest'anno avrai gli esami, non puoi rimanere indietro con le lezioni. "
" Ma non ci andrà nessuno con questa neve! Ti prego, ti prego, ti prego... dai ti prego zia... ti prego. "Facevo la voce lagnosa e insistente perché sapevo che zia avrebbe ceduto. " Ti prego, ti prego, ti prego... "
" E va bene! " sospirò zia " ma poi chi la sente mamma?"
" Dai zia, vedrai che non si arrabbierà. Grazie, grazie, grazie! "
Presi a saltellare e ad abbracciarla riempiendola di baci.
" Basta, adesso copriti o mettiti ancora un po' sotto le coperte "
Mi infilai a letto.
Zia mi portò su la colazione. Una tazza fumante di latte e la torta di carote ricoperta di cioccolata.
Io odiavo le carote, e anche le zucchine, ma zia era furba e mi propinava le verdure in tutte le forme più inconsuete. Scoprii solo da adulta che quella torta che mi piaceva tanto era piena di schifosissime carote.
Apollonia! Che nome... Se non fosse che lo odio mi avrebbe fatto ridere come de Pisis. Ma fortunatamente tutti mi chiamano Lucia.
9 febbraio 1956
ore 07, 45
La serratura del cancello si era ghiacciata.
Adriana non riuscì ad aprire.
" Fausto! " si portò sotto la finestra della camera da letto e chiamò il marito. " Fausto! "
Udì le sue parole da dietro le persiane socchiuse:
" Che c'e'? "
" Scendi " urlò Adriana " Non riesco ad aprire il cancello".
Fausto scese in giardino. Dal cappotto spuntavano i pantaloni a righe del pigiama di flanella e calzava le pantofole ai piedi nudi.
" Ma fa un freddo cane! Sei sicura di andare? "
" Dai, sbrigati, aiutami ad aprire questo catafalco. "
" Si è gelata la serratura. Vado a prendere un po' d'acqua calda per sbloccarla. "
Fausto tornò subito con una tazza piena d' acqua bollente che versò sulla serratura.
" Ecco fatto. Ora sei libera! "
" Grazie! " Guardò divertita il marito che spostava di continuo i piedi seminudi dalla neve. " Vai dentro che fa freddo! " gli disse con fare materno.
" Adriana... " la chiamò mentre lasciava il giardino.
Adriana si voltò di scatto quasi disturbata.
" Sei sicura di voler andare? È tutto ghiacciato, vedrai che al lavoro non ci sarà nessuno! "
" Ti sbagli Fausto! Almeno una persona ci sarà! E quella persona sarò io. "
Si allontanò con passi cauti tra la neve della strada deserta.
Adriana in due anni di lavoro non aveva mai fatto un'assenza. Sapeva di essere incinta ma dal momento che non si vedeva il suo stato interessante non l'aveva detto a nessuno. Lo sapeva solo Fausto, e forse non avrebbe voluto dirlo neanche a lui. Ma dopotutto il figlio era anche suo, e non se la sentì di non rendere partecipe il marito di quella dolce attesa.
Lo chiamò in ufficio e gli chiese di andare a mangiare fuori. " Stasera mi porti a prendere una pizza? "
" Stasera torno tardi, è lo stesso se andiamo domani? " rispose Fausto.
Adriana si avvicinò ancor più alla cornetta abbassando la voce e coprendo la bocca con una mano per non far percepire ai colleghi il movimento delle labbra: " Ti devo dire una cosa importante, Fausto. "
" Bene dimmela subito che devo riattaccare. "
" Andiamo a mangiare una pizza e ti parlerò. "
Fausto non trovò di meglio da fare che acconsentire e lasciò il lavoro incompiuto in ufficio. Aveva intuito che Adriana aveva qualcosa di grosso da comunicare.
Non gli piaceva l'ostinazione della moglie a non parlare per telefono e la determinazione che aveva nel pretendere che si facesse a modo suo.
Ma era tanto tempo che non uscivano più da soli per cui accettò volentieri.
Quando seppe la notizia per poco non rovesciò la birra sul tavolo e poi si alzò e abbracciò forte Adriana ridendo. " Aspettiamo un figlio! Mia moglie è incinta! " Fausto spontaneamente si lasciò andare preso dall'euforia e poi ne nacque una discussione per quella sua leggerezza.
" Sbandierare i nostri segreti in mezzo alla trattoria!" Adriana parlava concitata sulla via del ritorno. " Non mi sono mai sentita umiliata così tanto in vita mia! È stata proprio una pessima idea dirtelo in un luogo pubblico. Devi sempre farne una delle tue! Sbandierare davanti a tutti un nostro segreto! "
Fausto faticò un bel po' a mantenere la calma. Non aveva proprio intenzione di discutere, tanto meno in una occasione lieta come quella. Come al solito riuscì a far pace prima del ritorno. A casa brindarono con un bicchierino di liquore di cedrina fatto con le foglie dell'albero del giardino.
La via era deserta. Di solito alle otto di mattina tantissime macchine percorrevano quella strada. Ormai Roma era piena di automobili. Molte famiglie potevano permettersene una firmando pacchi di cambiali. Fausto aveva una Fiat 1100/103 ma voleva cambiarla con la nuova Lancia Appia seconda serie che sarebbe uscita di lì a poco. Adriana non era del tutto d'accordo però in fondo era contenta anche lei di poter viaggiare su un'auto di lusso come la Lancia.
Soprattutto era contenta per Fausto che aveva ottenuto una promozione e degli arretrati. Adesso che aspettavano un figlio quei soldi avrebbero fatto comodo per il futuro, ma non voleva negare al marito un sogno che in fondo piaceva anche a lei.
Passò lungo la via una 600 che slittava sulla strada, procedendo a zig zag.
Sentiva scricchiolare la neve sotto i suoi passi.
Nessun altro rumore.
Nonostante le scarpe pesanti le punte dei piedi cominciavano a gelare. In pochi minuti l'ombrello diventò completamente bianco. Lo chiuse e lasciò cadere la neve.
Poi lo riaprì, ma nel frattempo si imbiancò tutto il cappotto.
Nevicava forte adesso. Si riparò sotto la pensilina del caffé all'angolo e rimase affascinata a guardare i fiocchi di neve che cadevano come piume dal cielo grigio. Erano grossi, pesanti, scendevano ora goffamente, lenti e pigri, ora furenti, a raffiche violente, spinti da improvvise folate di vento gelido.
Entrò nel caffé per attendere che nevicasse con minore intensità.
" Che tempo da lupi! " attaccò discorso il Signor Filippo. Si avvicinò con quell'aria bonaria da bravo padre di famiglia.
" Si sieda signora Gandolfi. Aspetti qui che smetta di nevicare! Non sarebbe dovuta uscire con questo tempo. Vuole che le prepari qualcosa? "
Adriana si accomodò al tavolino suo malgrado, si tolse il cappello di lana e i guanti e si aggiustò l'acconciatura con meticolosa cura. Osservò un cristallo di neve che si ostinava a mantenere la sua forma perfetta sul cappotto color vinaccia.
Poi, quando si sciolse e svanì, rispose: "Si, mi porti un caffé."
" Macchiato " aggiunse.
24 gennaio 2009
ore 10, 45
" Scusi signora, dov'è la ASL? "
Mi volto e una vecchia Fiat Ritmo guidata da una coppia anziana è accostata vicino a me.
Non sento nulla e abbasso il finestrino.
Un'ondata di gelo si insinua nell'abitacolo.
" Prego? "
Il vecchio un po' seccato ripete: "Ho detto dov'è la ASL! Ha capito adesso? La ASL, la mutua... "
" Si, ho capito, ho capito, non si agiti! "
" Bene, sa dov'è? "
" No. "
Pigio il pulsante e faccio salire il vetro del finestrino. Tutto il freddo di questo sabato mattina si è infilato nella mia macchina e mi volteggia attorno. Guardo i due vecchi discutere e poi allontanarsi lentamente mentre le auto in fila dietro a loro strombazzano sguaiatamente.
Osservo la mia casa antica. Quel cassonetto verde stracolmo di rifiuti non c'era nei miei ricordi di bambina. Il grigiore della giornata rende poi la visione ancor più triste e tetra.
Non va neanche a me di salire in casa oggi.
Sono qui davanti con la scusa di aspettare Oscar, e in cuor mio spero che ritardi ancora.
Non sono sicura se arrabbiarmi con lui e sfogare tutta la mia angoscia, o reprimere i miei istinti e sfoderare la solita faccia di circostanza per accontentare le due vecchie signore che ci attendono per la lezione di cucina del sabato mattina.
Sul parabrezza si sciolgono alcune gocce di pioggia gelate.
Gli occhi si alzano in su proprio sulla finestra di camera mia. La persiana è un po' scrostata. Tutta la casa ha assunto da un bel po' l'aspetto cadente di una dimora in disuso. Un pezzo di intonaco si è staccato proprio sotto il davanzale, portando via una parte consistente del decoro originale che circondava il villino a mezza altezza e che gli donava un'aria quasi esclusiva.
Le altre case avevano lo stesso colore ocra e le persiane verdi, alcune una torretta, altre dei vetri colorati ma nessuna, almeno mi pare, era decorata con quella greca. Chissà perché ma la nostra era la casa più bella. Anche il giardino era bello.
Vicino al cancello c'era un grande platano. Papà diceva che quell'albero era già alto quando comprarono il villino.
Chiudo gli occhi e cerco di immaginare le sue fronde disadorne. Cerco invano di disegnare nella mente l'intrico dei rami stagliati contro il cielo. Mi sento piccola a guardare in alto. Abbasso di nuovo il finestrino. Esco con la testa fuori della macchina. Vicino al cancello non c'è più nulla adesso. Un fulmine estivo, anni fa, colpì il vecchio platano che si accasciò contro il palazzo accanto.
Sparito. Polverizzato. Sepolto nell'oblio. Inghiottito dalla voragine del tempo.
Inutile guardare in cielo. I suoi rami non si intersecano più con le nuvole. Le sue foglie non cadono più in autunno.
Semplicemente non c'è più.
E per chi non l'ha visto prima è come se non ci fosse mai stato. E non ne sente la straziante mancanza.
Ma io chiudo gli occhi e vedo i suoi rami coperti di neve. Quella mattina che nevicò così tanto e che non andai a scuola. Chiudo gli occhi e sento abbaiare Pepe che si rotola nella neve già alta attorno al platano. Pepe vieni qui! Pepe! Pronuncio a voce alta il suo nome. Pepe!
Poi apro gli occhi. Un fiocco di neve grande e solitario mi gela la fronte.
Rientro con la testa dentro all'abitacolo, mi accerto che nessuno mi abbia sentito pronunciare il nome Pepe da sola ad occhi chiusi, con la testa fuori dal finestrino e torno nel ventunesimo secolo.
Sul vetro cominciano a stamparsi i cristalli gelati sempre più frequenti.
Fuori vedo transitare di nuovo la Fiat Ritmo a passo di lumaca e il solito corteo di automobilisti imprecanti dietro.
Tra pochi anni, anche io e Oscar discuteremo a passo di lumaca dentro una vecchia macchina cercando la mutua per ritirare le analisi.
Se non ci saremo separati prima.
Per un motivo e per l'altro.
9 febbraio 1965
ore 08, 00
Appurato che non sarei andata a scuola, feci il programma della giornata. Intanto restai a letto a lungo, crogiolandomi nel tepore delle coperte. Ogni tanto scappavo alla finestra a controllare che non smettesse di nevicare. Avrei telefonato a qualche compagna di scuola per sapere se fossero andate oppure no. Poi avrei chiesto a zia il permesso di scendere in giardino con Pepe a giocare con la neve. Nel pomeriggio mi sarebbe piaciuto incontrare Elena per fare con lei un pupazzo di neve.
Ero felice.
Il libro che mi aveva regalato zia s' intitolava Il tamburo di latta. Non avevo voglia di leggere. Lo sfogliai e mi ripromisi di iniziare la lettura al più presto, magari nel pomeriggio tardi. O meglio la sera. Tutt'al più il giorno dopo. Oppure tra qualche giorno. Domenica sarebbe stata la giornata adatta. Lo comincerò domenica, pensai convinta. Lo poggiai sul comodino. Urtai con il libro il lume che cadde in terra e si ruppe la lampadina.
Pensai se dirlo o meno a zia.
Non lo dissi.
Scesi dal letto e andai giù in salotto senza farmi sentire.
Il salotto buono era tabù.
Ci si poteva entrare solo durante i ricevimenti di ospiti importanti e parenti lontani.
Lunghi pomeriggi costretta a sedere vicino a mamma a sorridere ai colleghi di papà o alla vecchia zia che mi portava un regalo dopo la befana, quando ormai non avevo più voglia di regali. Mi davano il disgusto come guardare l'albero di Natale da disfare il sette gennaio.
Zia Silvana veniva a far visita qualche giorno dopo l'Epifania. Aveva sempre in mano due pacchi. Uno conteneva ineluttabilmente pasticcini da tè, l'altro rappresentava la protesi artificiosa delle feste natalizie, un prolungare l'attesa dei doni che spesso deludeva le aspettative.
Col senno del poi imparai che quei doni tanto disprezzati erano gli unici che rimanevano impressi nella mia memoria sino ai giorni nostri.
Il pacco con il regalo per me restava appoggiato a lungo sulla poltrona accanto. Io lo fissavo e non mi muovevo. Prendevo il tè, attenta a non macchiare il divano e tenevo d'occhio il dono che mi occhieggiava dalla poltrona.
Aspettavo un cenno per poter scartare quel regalo ritardatario.
Molte volte rimaneva lì sino alla fine della visita, finché la vecchia zia Silvana, nel rimettersi il cappotto col collo di volpe, con un urletto lungo e affettato diceva: "Uhhhh che sbadata! Quasi dimenticavo! Questo è un pensierino della befana della zia per te, piccolina! " E mi mollava un grosso pizzico dolorosissimo sulla guancia a cui seguiva lo scartamento e le moine inevitabili di mamma: ma non dovevi, perché ti sei disturbata, sapessi quanti regali ha ricevuto, proprio non dovevi, ecc. ecc.
Infine, temuta ma inevitabile la seguente terribile frase: Lucia, dai un bacio alla zia!
Il bacio alla zia.
Dovevo proprio.
Una volta titubai troppo a lungo e zia Silvana forse se ne accorse e mi disse: " Come sei restia a baciare la zia! "
Io le sorrisi e non la baciai per niente.
La sera fu una tragedia.
Mamma non mi parlò per due giorni.
Entrando in salotto mi sentii terribilmente in colpa per non aver pianto al ritorno dalla villeggiatura dopo la grave perdita della zia Silvana.
Mi avvicinai nella penombra del salotto buono alla lampada sul tavolo, sotto lo specchio dorato stile settecento. Sapevo che non veniva mai accesa e nessuno se ne sarebbe accorto. Svitai la lampadina a tortiglione lentamente e con soddisfazione.
Missione compiuta. La lampadina era nella mia mano. Nell'uscire dal salotto mi parve di intravedere un pacco sulla poltrona di destra. E una voce fievole che sussurrava: " Come sei restia a baciare la zia! "
Chiusi la porta dietro di me senza guardare e feci le scale due a due fino in camera mia.
Avvitai la lampadina al lume e mi infilai sotto le coperte ancora col fiato corto. La lampadina a tortiglione era un po' buffa ma funzionava.
Mi addormentai per un paio d'ore mentre fuori nevicava e nevicava e nevicava e io ero contenta.
9 febbraio 1956
ore 08, 15
" Lo preparo subito il caffé? "
" Grazie, Filippo, bisogna che vada presto, non mi voglio trattenere a lungo, o finirò per fare tardi in banca. "
" Ma non vede che tempo signora Gandolfi? La radio ha detto che nevicherà tutta la mattina, i filobus non andranno. "
" Vado a piedi, Filippo. Sono equipaggiata! " Adriana sfoderò un grosso sorriso di circostanza e sollevò il piede agitandolo per mostrare al Signor Filippo le scarpe grosse.
" Come vuole lei, signora. Preparo subito il caffé. "
" Grazie. "
" Macchiato aveva detto, vero? "
" Si Filippo, macchiato caldo. "
Adriana era molto esigente in fatto di caffé. Se proprio doveva prendere un caffé al bar, doveva essere perfetto. Ne' troppo stretto, ne' troppo lungo, preferibilmente macchiato. E con il latte caldo. Ma non con troppa schiuma. Altrimenti avrebbe preso un cappuccino, giusto? Di solito lo faceva un po' lunghetto e lei se ne accorgeva anche se era macchiato, ma Filippo era troppo un buon uomo per meritare le sue rimostranze.
La nevicata non accennava a desistere. Tirava vento e quando entrava qualcuno e apriva la porta si sentiva il rumore della bufera. Ora i fiocchi vorticavano come un turbine e il vento alzava la neve che si era accumulata ai lati rendendo impossibile la vista.
Tornò con il pensiero all'ultima volta che si era seduta lì.
Erano proprio a quel tavolino. Saranno state quattro settimane fa. Ricordava le sue parole per filo e per segno.
" Ti dico che è vero, purtroppo. "
" Ma ne sei proprio sicura? Voglio dire, sei andata dal medico? "
" Adriana, se sono qui a parlarti vuol dire che ormai non ci sono dubbi. Credimi, avrei evitato volentieri questa conversazione. Ma ormai non c'è più alcuna speranza. E non so proprio come fare. "
" Non ci posso credere! E mamma lo sa? "
" Ma sei matta? Quella mi ammazza se lo sa! Adriana aiutami, sono disperata. "
Sua sorella aveva gli occhi gonfi di lacrime ma non riusciva più neanche a piangere. La sue parole risuonavano ancora nitide nella mente di Adriana. Ricordava ogni singola parola, ogni minimo gesto.
Le prese la mano. " Vedrai " disse " una soluzione si troverà. "
" Io proprio di questo ti vorrei dire."
" Di cosa? "
" Una soluzione l'avrei trovata. "
" Non dirmi altro. Non ci voglio neanche pensare." Adriana aveva acquistato tutta l'autorità della sorella maggiore. " Sai chi è il padre? "
" Si "
" Non vuoi dirmelo? "
" No. Non voglio " rispose con un filo di voce mentre si tormentava le mani.
Adriana si voltò e non la guardò mentre la sorella continuava.
" Avrei un indirizzo di una clinica a Zurigo, ma non so come fare per andarci e non dire niente a casa. E poi soprattutto non ho i soldi. Io avrei pensato..." esitò quel tanto da essere interrotta.
" Non se ne parla neanche lontanamente. "
Si fermò, poi riprese: " Lo sai che è un reato? "
" Ma come faccio? " Questa volta piangeva veramente.
" In qualche modo faremo, lasciami pensare. "
" Ecco il caffé signora Gandolfi. "
Filippo distolse Adriana da quei pensieri.
Prese il caffé. Era troppo lungo ma non disse nulla.
Pagò e indossò guanti e cappello.
La neve cadeva ancora ma il vento si stava calmando.
" Sembra che nevichi di meno. Io ci provo, Filippo. Speriamo bene! Buona giornata! "
" Buona giornata a lei signora Gandolfi."
Si tuffò di nuovo in strada.
Attenta a non scivolare, a piccoli passi, Adriana cominciò ad incamminarsi verso la piazza.
24 gennaio 2009
ore 11, 15
Guardo il mio orologio da ventinove euro.
Oscar aveva detto che sarebbe arrivato verso le undici e invece ancora non s'è visto. Non vorrei che iniziasse a nevicare veramente e rimanesse bloccato dall'altra parte della città.
Comincio ad innervosirmi. Possibile che non riesca mai ad essere puntuale? Non ci vuole poi tanto ad arrivare in orario ad un appuntamento. Basta sapersi organizzare e prevedere per tempo quanto si impiega ad arrivare. In fondo io credo di non essere mai giunta ad un appuntamento in ritardo.
Ci sono persone che arrivano sempre in ritardo.
A qualunque ora sia l'appuntamento loro arrivano in ritardo. Potrei anche dividere in categorie i ritardatari che conosco. Ci sono quelli che ritardano cinque minuti, quelli che ne ritardano dieci, poi c'è il club del quarto d'ora. Sono talmente tanti che ho dovuto raggrupparli in un club. Potrebbero essere perfino ritenuti puntualissimi nel loro ritardo cronico di un quarto d'ora. Basta arrivare all'appuntamento quindici minuti dopo l'orario prefissato e neanche ti accorgi del loro ritardo.
Oscar invece non è classificabile.
Oscar è del tutto imprevedibile. I suoi ritardi spaziano nell'arco temporale che va da pochi minuti a qualche quarto d'ora. Non so di preciso a quanto ammonti il suo record di ritardo nei miei confronti perché di solito dopo mezz'ora non aspetto più e me ne vado.
Noto che sta scoccando la mezz'ora.
Fisso il mio orologio di plastica ma lui non arriva.
Fuori il mondo va avanti. Prosegue imperterrito anche se io sono chiusa nell'abitacolo di un'automobile e muoio dal freddo. Nessuno si chiede cosa accada dentro la mia macchina. Protetta da questo guscio meccanico vedo scorrere il mondo di fuori come se non mi appartenesse.
La mia vecchia casa è in vendita. La guardo ogni tanto.
Un po' scrostata, sbiadita. Appesantita dagli anni. Con le siepi potate male e l'erbaccia sui gradini. Senza l'albero. Col suo cancello enorme. E il cartello giallo tra le sbarre.
Mentre comincia a nevicare più decisamente.
" Scusi sta uscendo?"
Un'altra macchina che spera di occupare il mio posto. Faccio di no con il dito per evitare di aprire il finestrino. I vetri sono gelati, le punte dei piedi si stanno ghiacciando. Il parabrezza comincia ad imbiancarsi. Accendo i tergicristalli e spazzo via il leggero strato di nevischio che si era accumulato. Le spazzole del tergicristallo spingono la neve ai lati miagolando.
È sottile, scende a piccolissimi fiocchi, quasi aghi. Fa ancora troppo freddo per permettere di precipitare copiosa.
Adesso ha smesso. Ora gocce di pioggia ripuliscono il vetro. Decido di attendere ancora un po' in macchina. Poi salirò a casa. Suonerò al cancello come ogni sabato mattina e attenderò a lungo che mi sia aperto.
Salirò le scale, entrerò nella mia vecchia casa lasciandomi dietro le emozioni che inevitabilmente mi assalgono ogni volta che ritorno in quel villino.
Ha ripreso a cadere la neve. Il calore del mio alito ha appannato il finestrino.
Disegno cuoricini.
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