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GLI ALBERI DI NATALE SONO TRISTI
Mi affacciai alla finestra, sperando che l’aria fredda del mattino riuscisse a tirarmi fuori dal clamoroso doposbronza che mi incatenava ormai da diverse ore. Il lattaio stava appoggiando con le mani nere le bottiglie bianche sugli scalini dei palazzi, stando attento a non scivolare sulla neve fresca. Natale era alle porte. Dio aveva spennellato qua e là i colori giusti, e New York sembrava una vecchia stanca che si spalma tonnellate di trucco per apparire qualche anno più giovane. Milioni di abeti addobbati luccicavano allegri, e finti babbi natali barbuti regalavano dolcetti e buoni sconti con sorrisi più sintetici della loro stessa barba. Il Natale mi stava sulle palle, erano tutti troppo felici per i miei gusti. Scolai l’ultimo goccio di whiskey rimasto nella bottiglia e sputai sulla strada coperta di neve grigiastra.
L’aria del mattino mi fece sentire un po' meglio. Guardai giù. Una negretta niente male passò sculettando di brutto davanti al negozio di liquori. Qualcosa nelle mie mutande si mosse improvvisamente verso l’alto.
Non capii mai se per colpa della negretta dal culo danzante o per la luce che si rifletteva sulle lucide e invitanti bottiglie di whiskey nella vetrina del negozio. Se ne stavano lì, l’una accanto all’altra, con le loro etichette colorate a coprire solo parzialmente la bellezza dei liquidi densi. Impettite, ammiccavano verso di me. Puttane, avrebbero ammiccato anche ad altri.
La donna sparì dietro l’angolo, accompagnata dallo “yeah” dei negri di Harlem che bighellonavano appoggiati ai loro muri, cantando le loro canzoni e ballando le loro danze, chiusi nei segni distintivi del loro modo di essere.
Pensai che qualsiasi uomo di ogni razza presente sulla terra avrebbe esclamato qualcosa davanti a quel culo, chi uno “ehi ehi”, chi un “ooooooh”, chi un “miiinchia”... Chiunque avrebbe esclamato qualcosa, perché forse un bel culo avvicina le razze.
Ad ogni modo, se la donna sparì dietro l’angolo portandosi via quel fondoschiena perfetto, il negozio di liquori come previsto non si mosse da lì, e continuò a guardarmi dal basso mettendosi in mostra come una puttana ubriaca.
Mi infilai qualcosa addosso e scesi in strada. I negri mi guardarono senza particolare attenzione. Ero un bianco, nato in New Jersey. Ma i negri mi sopportavano nel loro quartiere dopo che avevo scritto una sceneggiatura per un famoso regista del bronx, che proteggeva i fratelli di colore nelle sue pellicole di successo. Alla fine di quel lavoro ero rimasto a vivere lì, perché quelle strade profumavano e puzzavano di verità e vita.
I negri stavano lì a ore, ogni banda al suo angolo. Si guardavano intorno con occhi fieri e facce imbronciate. Chissà perché sembravano sempre, perennemente incazzati. Beh, era un problema loro. Ognuno ha i suoi dannati problemi, e il mio si chiamava negozio di liquori. Spinsi la porta in avanti ed entrai, accompagnato dal suono festante di una campanella. Avevo appena finito una sbronza e già mi preparavo a viverne un’altra. Era questo il mio fottuto problema, altro che gli sguardi torvi dei negri là fuori.
Comprai due bottiglie di Jim, come al solito, e due di vodka liscia per i momenti in cui non avrei avuto voglia di bere ma ne avessi sentito comunque il bisogno. Spike, il venditore di liquori, mi incartò la roba senza staccare gli occhi dal suo minuscolo televisore in bianco e nero. E come tutte le altre volte non aprì bocca. Un giorno ero arrivato a pensare che fosse muto, poi lo sentii urlare “quella troia negra di tua madre, maledetti fottuti negri del cazzo porco di un cane di...” ad un ragazzino che si era fottuto un Sei di birre.
Insolito detto da uno come lui, più nero dell’ombra di un negro.
Lo guardai mentre mi dava il resto. “Spike, una domanda. Tu che l’alcool lo vendi, cosa ti compri di migliore?”*
Non rispose, mi girai e me ne andai verso la porta.
“Signor Sakowski?”
“Si”
“Ha i pantaloni all’incontrario. E sul retro ha la patta aperta. Penso che guardano bene si potrebbe vedere quel suo culo bianco sbiadito”.
Mi girai sorpreso. Spike sorrideva. “Vaffanculo negro. Proverò a svitarmi il bacino, così la patta sarà sul davanti”.
Nessuna risposta, le luci del piccolo televisore a illuminare il sorriso sdentato. Gli occhi di nuovo fissi sui culi bianchi sbiaditi di due ballerine del varietà.
Tornai su. Tolsi dal cartone una delle due bottiglie di whiskey, mi levai i pantaloni (offendendo ad alta voce Spike mentre li sfilavo) e dopo aver preso un bicchiere dal tavolo mi stravaccai sul letto. Era una di quelle cose che mi piaceva fare: stare disteso in silenzio, ad ascoltare i rumori del quartiere che viveva sotto di me, scolando con calma il mio whiskey liscio. Alcune volte riuscivo a scrivere qualcosa, qualche pagina del romanzo o qualche poesia. Altre volte mi masturbavo, pulendomi senza ritegno al lenzuolo, per poi rituffarmi nel silenzio e nell’whiskey. Ma adesso avevo una donna, Jane, e ci pensava lei a soddisfare le mie voglie improvvise. Era una donna incredibile. Un po' avanti con gli anni, è vero, e forse anche un po' ingrassata dentro i vestiti attillati. Ma aveva un fascino e un carisma talmente sviluppati da riempire con la sua presenza e il suo charme tutti posti in cui metteva piede.
Avevamo litigato di brutto la sera prima. I resti della nostra epica battaglia domestica erano ancora sparsi sul pavimento, sotto forma di mille frammenti di bicchieri spaccati. Ci eravamo tirati di tutto. Io miravo al volto, mentre lei, subdola e maligna come tutte le donne vicine alla menopausa, mirava al mio uccello. Se potevo ancora parlare con voce maschile lo dovevo alla sua pessima mira. Poi avevo cominciato a fare il pagliaccio, e mentre lei tirava di tutto io mi ero spogliato completamente e saltellavo qua e là per la stanza con il pene che mi ciondolava da destra a sinistra.
Saltello, pene a destra e a sinistra, saltello, bicchiere, bestemmia, saltello, pene, bicchiere, bestemmia. Andò avanti per un’ora. Poi, finiti i bicchieri e disgustata dalla vista del mio uccello ballonzolante, la vecchia Jane aveva deciso di parlamentare.
Si era incazzata perché bevevo troppo, “non capisco che bisogno hai di bere ora che hai me”.
Già, chissà. Scolai con gusto il liquido denso dal bicchiere che avevo in mano, eroico superstite della battaglia notturna, e ascoltai sogghignando la voce di Spike che urlava “gran figlio di una troia negra e di un bianco finocchio se ti prendo ti ficco la scopa nel...”. Un altro Sei di birre aveva preso il volo. Era destino che al povero Spike rubassero tutti i giorni qualcosa. Già, il destino. Jane se n’era andata dopo la battaglia e il conseguente armistizio salutandomi con un “ci vediamo domani?”. “Se lo vuole il destino...”, avevo risposto. “Il destino a cose ben più importanti a cui pensare che ad un alcolizzato di merda e alla sua puttana...”. Donna di classe, la vecchia Jane. Se n’era andata dimenando quel suo bel culo un po' in carne e sbattendo pesantemente la porta, lasciando un vuoto incolmabile in casa e nel mio letto. Io avevo continuato a bere con calma, e della notte precedente adesso non ricordavo altri dettagli degni di nota.
Spike aveva smesso di urlare. Bevvi un altro bicchiere di whiskey, quasi non riuscivo più a seguire i miei pensieri.
Mi addormentai lentamente, cullato dal soul del quartiere.
Quando mi svegliai era già pomeriggio inoltrato. Finii la bottiglia di whiskey, ne ammezzai una di vodka e mi vestii alla rinfusa. La testa mi girava. Presi la bottiglia di vodka e scesi in strada, ridendo nel vedere Spike sulla porta del negozio con la scopa in mano e lo sguardo minaccioso. Passai accanto ai negri della gang di SAMO, li salutai sollevando la bottiglia e sparii dietro l’angolo.
Quando entrai nel bar di Michel ero già totalmente sbronzo. Era una bella sensazione, provata chissà quante volte ma sempre maledettamente attraente. In quel bar mi sentivo come a casa, perchè era così tanto banale da apparire identico a tutti gli altri bar di quel genere. Le quattro pareti verde vomito contenevano un bancone di legno appiccicoso sulla sinistra, quattro o cinque tavoli sporchi e meschini sulla destra, un ventilatore monotono sul soffitto e le immancabili veneziane luride alle finestre. Il tutto condito da ogni specie di uomo possibile: si andava dal marito tradito al frocio in cerca di compagnia, dalla puttana da due lire all’artista senza ispirazione (categoria a cui appartenevo). Poi c’erano loro, la razza suprema: i puri e semplici alcolizzati, quelli cioè che bevono senza accampare scuse. Micheal, il barista, era un ometto nero assai strano, piccolo e tondo come una palla da tennis. Rimbalzava allegramente dietro il bancone servendo da bere alla feccia che si trovava davanti. Ne ero certo: era l’unico barista felice sulla faccia stanca del buon vecchio mondo. Tutti lo chiamavano Mic, abbreviandone il nome per renderlo più consono alla sua taglia.
Nella nebbia grigiastra intravidi uno sgabello libero, proprio davanti alla spina delle birre. Prima che potessi aprir bocca Mic rimbalzò verso di me e con il sorriso più felice di tutti i tempi mi piazzò davanti bottiglia e bicchiere. Lo guardai rimbalzare via verso altri clienti. Scossi la testa, non c’erano speranze. Poi guardai fisso bottiglia&bicchiere: erano la coppia più bella del mondo. E cominciai a bere.
Quando uscii da Mic, New York aveva acceso le sue luci. Si pavoneggiava consumando kilowatt su kilowatt di elettricità, ma sapeva rendersi desiderabile, sapeva come togliere il respiro. Un babbo natale di plastica stava tentando di scavalcare un balcone, chissà perchè non usava le stramaledette renne invece di faticare così. Alcuni cherubini di cristallo suonavano allegre melodie, per la felicità dei bamini. Non sopportavo quello spettacolo plastificato, odiavo quel consumismo sfrenato e quei sorrisi precotti. Mi infilai in un vicolo buio, lì il Natale non era ancora arrivato. Ero ubriaco, e quando vidi una negretta con due tette enormi nell’oscurità del vicolo, qualcosa cominciò a ingrossarsi sotto lo stomaco pieno di alcool. Tentai di abbordarla recitandole una mia poesia d’amore, ma la ragazzina tirò dritto. Poteva avere si e no diciotto anni, ed era impaurita dalla vista di un alcolizzato puzzolente come me. La colpii al volto con un destro degno di Frazier e la sostenni mentre cadeva priva di sensi. Il sangue che colava giù verso il decoltè mi tolse il respiro e la dignità.
La stuprai violentemente, strappandole i vestiti di dosso. Penetrai quel corpo inerme senza ritegno e senza rispetto. Senza esclusione di colpi. Mi sembrò che qualcosa si rompesse dentro la donna mentre la scopavo da dietro, e questo mi fece godere. Mi sentivo un animale felice che porta a termine il compito per cui è stato messo al mondo. L’alcool mi accarezzava la mente, e il mondo mi sembrava bellissimo. In cielo una falce di luna osservava con disprezzo. Quando ebbi finito, gli alberi di Natale mi sembrarono meno allegri. Lasciai cadere la donna sulla neve rossastra, “buon Natale, puttana”, esclamai barcollando. Mentre me ne andavo soddisfatto due negri della gang di SAMO cominciarono a corrermi dietro urlando. Non ci giurerei, ma mi sembrò di sentire uno sparo. La paura mi fece correre dritto e veloce come quel cazzo di topo messicano di cui non ricordavo mai il nome.
Arrivai davanti a casa veloce come un fulmine. Prima che gli altri componenti della gang potessero capire cos’era successo, balzai sulla mia vecchia Oldsmobile marrone e partii a tutta birra. Uscendo dal quartiere ebbi la netta sensazione che non ci avrei rimesso più piede. Svoltai sulla Trentaduesima e vidi Jane camminare sculettando sul marciapiede. Mi fermai bruscamente e la feci salire. Voleva sapere perchè e da cosa scappavo. Mi inventai una balla, raccontai di una rissa fra ubriachi fuori dal bar condita con qualche insulto razziale. La vecchia Jane mi credette, o almeno fece finta di farlo, mentre la neve cominciava a cadere copiosamente. Sfiorai con la fiancata uno zampognaro, che bestemmiò in perfetto stile natalizio.
Ci trovammo all’improvviso fuori della città. Imboccai una strada secondaria, coperta di neve ma praticabile. Non sapevo dove andare, ma ciò che contava era mettere più miglia possibili fra me e la cazzata che avevo fatto. La paura aveva ferito la sbornia, e adesso mi rendevo conto di tutto. Immaginai la negretta con la faccia appoggiata sulla neve, resa rossastra dal suo sangue di vergine. Qualcosa si mosse dentro di me, e mi fece sentire una merda. Jane si era addormentata sul sedile al mio fianco, non era la prima volta che scappavamo da qualcosa. Ora nevicava un po' troppo forte per i miei gusti. La strada curvò all’improvviso, l’Oldsmobile continuò dritta verso il burrone e sparì fra gli abeti imbiancati.
Quando mi risvegliai, Jane piangeva accanto a me. La neve aveva invaso l’abitacolo, e l’aveva sommersa quasi fino al collo. Riuscii ad uscire dalle lamiere contorte e a tirarla fuori con la forza della disperazione. La situazione non era delle migliori. Le gambe di Jane erano come bloccate, quasi ibernate. Ci sarebbe voluto del buon whiskey scozzese per scongelarle.
La trascinai per qualche miglio nella neve fresca, poi le forze mi mancarono. Mi guardai intorno, mancava solo uno yeti del cazzo. Neve, neve neve e gli alberi innevati simili a minacciosi assassini rinseccoliti. Pensai al sangue della negretta sulla neve del vicolo, e mi afflosciai sulle gambe.
Ci sdraiammo abbracciati sulla neve freddissima. Gli abeti intorno a noi, senza decorazioni, sembravano adesso di una tristezza incredibile. Jane mi cercò con gli occhi bellissimi nel viso congelato, i miei la trovarono per un ultimo tacito sguardo. “Alcolizzato di merda”, mi disse piangendo e ridendo. La lacrima cadde sulla neve fredda e morì con un sibilo.
“Puttana”, le risposi, stringendo le mani ghiacciate.
Immaginai tutti gli alberi di Natale del mondo, e vidi che si spengevano in silenzio.
Lassù, insieme a milioni di stelle, una falce di luna sorrideva alla morte.
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- a essere sincero, parole cosi dure e crude ma vere le ho solo sentite nelle manifestazioni... continua a legermi io faro lo stesso di te...
- Bravo Duccio. scorrevole e ben strutturata. a rileggerci.
A. M.
- oltre alla trama avvincente la cosa più bella è lo stile scorrevole, limpido, crudo, diretto. Mi piace anche il dentro le righe e i colori stridenti che di colpo diventano chiaroscuri.
- Ritratto del naufragio di un uomo e, mi sia consentito, di un pezzo non indifferente di società. Stile sobrio e scorrevole.
- Graffiante, rauca, sporca... bella!
- Graffiante, rauca, sporca... bella!
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