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Viale Edison
“Lo sapevi che la vetta occidentale del Kilimangiaro è chiamata Casa di Dio?” Mauro aveva l’aria di uno che sta confessando una rivelazione. Roberto cercò di essere contenuto: “Ah, bene…”
ma quello insistette: “Eh, sì, tu pensa che sono 5895 metri, la montagna più alta d’Africa, no?”
Mauro era mezzo infossato in una poltrona sommersa dalla polvere, annaspava tra libri e annuari cenciosi con l’aria dello studioso, del bibliofilo; annusava quasi le pagine, le soppesava, se le passava tra le mani candide e adipose con cura chirurgica, stucchevole, di sicuro affettata. Quando trovava qualcosa a suo dire interessante strizzava gli occhietti da dietro le spesse lenti, poi, con un ché di compiaciuto si rivolgeva verso Roberto battendo l’indice sulla carta. “Tu pensa che erano i Maori a chiamare il Kilimangiaro Casa di Dio… chissà come si diceva nella loro lingua…”
“Ngàje Ngài.” Fece Roberto mentre stava tentando di riporre un pesante scatolone sulla mensola più alta dello scaffale. Mauro non la prese bene, si tolse gli occhiali, come per eliminare qualsiasi filtro tra sé e il mondo, poi staccò la schiena dalla poltrona di pelle, lasciando una oleosa ombra di sudore sullo schienale: “E tu come lo sai?” Il tono era quasi di sfida. “Ho letto Hemingway, Le nevi del Kilimangiaro, mi pare fosse questo il titolo.” “Ma che bravo… Ah Hemingway… già, già…” Mauro era abbastanza infastidito, non cercava nemmeno di dissimulare quel suo atteggiamento indisponente e volgare. Ma con tutta evidenza faceva parte del suo carattere. Roberto non lo sopportava, ma aveva bisogno di lui, gli serviva la sua biblioteca, o meglio, la biblioteca del padre di Mauro, un archivio veramente fornito, parecchie prime edizioni pressoché introvabili. Valeva la pena?
Il clima di ottobre stava rapidamente precipitando verso un freddo plumbeo, annoiato, senza speranza. Roberto lo sapeva benissimo. Sapeva che presto o tardi sarebbe ritornato a capo chino nella sua casetta piccola e spoglia, in viale Edison, lo sapeva benissimo, anche senza il mezzo sorriso che faceva capolino sul faccione grasso e pallido di Mauro. Iniziavano veramente i primi freddi, Roberto lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, erano dieci del mattino, ma ancora una bruma sottile e velata stava avviluppando il bel giardino fuori dalla casa di Mauro; pensò di andarsene per i fatti suoi, di lasciare quel posto, per non abituarcisi troppo. Finì di sistemare i libri sugli scaffali, poi si rivolse a Mauro: “Bene, ho finito, grazie per la disponibilità.”
“Ma figurati, è un piacere, non mi va che tutti questi volumi restino qui a prendere la polvere, ci vuole qualcuno che li legga, altrimenti che senso avrebbero?” Si tolse gli occhiali e diede una passata alle lenti con il bordo del maglioncino rosso che aveva indosso: “…e poi mio padre ha già deciso di donare tutto il suo archivio con tutte le carte, i libri e i documenti al comune quando non sarà più tra di noi…” Un filantropo. Scommetto che donerà tutto ciò a patto che gli sia dedicata una stanza, o perché no una biblioteca. Ma sì, tanto. Mauro sollevò con un colpo di reni la sua molle figura, e si indirizzò alla finestra, contemplando il panorama come un feudatario poteva squadrare le proprie terre.
Roberto salutò nuovamente e uscì dallo studio, imboccò il corridoio immerso nell’oscurità, in direzione dell’uscita. Marmi, cassepanche cinquecentesche, uno scrittoio intarsiato, alle pareti ritratti, cornici preziose che il tempo non riusciva a rodere. La domestica si fece avanti, salutò Roberto con un cenno cortese e gli spalancò il cancello con l’interruttore dietro la porta d’ingresso. La giornata era fredda, grigiastra, intrisa fino al ventre di un umore nero, denso, persistente. Roberto inforcò la bicicletta che aveva lasciata in cortile e si immise nella strada; un quartiere tranquillo, belle case, ottime famiglie, tanti giardinetti curati, ridenti, sembravano proprio quelli delle commediole anglosassoni, con l’erba rasata corta, la staccionata bianca intorno al giardino, le case tutte uguali e tutte con dettagli diversi.
Roberto abitava in viale Edison, in un quartiere non troppo distante da quello di Mauro. Non viveva troppo male Roberto. Certo, non era ricco, non era Mauro. Però la gente come Mauro lo trovava interessante, ricco di stimoli, una specie di intrattenitore, il cicisbeo che porta a spasso la dama e fa sfoggio di erudizione. Era un bibliotecario, di quelli che sistemano i libri, forniscono indicazioni ai clienti e addobbano la vetrina. Era a contatto con i libri, i libri avevano uno spazio importante nella sua vita, erano la cifra distintiva del suo vivere; le sue giornate erano scandite dalla tabulazione dei volumi: ordine alfabetico, genere, anno e cose simili. Poi c’erano i clienti, gli affezionati, come il signor Mandelli, la signora Bassi, e anche il principale, Antonio Valenti, un tizio abulico, stempiato e lento di riflessi: uno per intendersi che impiegava le giornate a fissare il vuoto intorno a sé, a contare gli scarafaggi sul muro, a comportarsi da moribondo anche se era perfettamente in salute e aveva sì e no quarant’anni. Valenti era figlio di un imprenditore locale, suo nonno era stato sindaco, gli avevano dato quest’attività secondaria, giusto per tenerlo impegnato, mentre i fratelli si occupavano delle faccende serie di famiglia, dell’azienda di elettrodomestici che manteneva un po’ tutto il parentado.
Roberto tornò verso casa sua, un appartamento in una palazzina di tre piani, affittato assieme ad un amico, Sergio, un tipo tranquillo, impiegato in comune, che veniva da Torino. Sistemò la bicicletta nello stanzino adiacente alle cantine, salì le scale e aprì la porta d’ingresso. L’odore di casa, di panni lavati, di cera. Sergio era seduto sul divano, stava consultando una specie di registro su cui Roberto supponeva dovesse tenere i conti; Sergio era un ragioniere, di professione e di vocazione, si occupava del piccolo bilancio di casa, come fossero stati due sposini.
“Ah ciao Bob, sei già tornato?” scostò per un momento la testa dai fogli, puntando gli occhi scuri e celati dietro spesse lenti verso le ginocchia di Roberto; teneva il registro sulle cosce unite, in una posizione piuttosto scomoda e ridicola.
“Non avevo più niente da fare.” Fu laconico. Non aveva molta voglia di mettersi a raccontare la propria giornata. Si versò un bicchiere d’acqua in cucina, ne ingollò un sorso. La casa era in ordine, Sergio era preciso in queste cose, non lasciava che i giornali si accumulassero sulle mensole, non lasciava che i piatti si accumulassero nel lavello.
“Ma sbaglio o sei sull’incazzato?” Era Sergio che urlava dalla sala.
“Forse un poco. Ma a me le giornate così trasmettono nervosismo. Che è? È vietato?” Non era veramente risentito, piuttosto provava un fastidio esteso più o meno a tutto. Come quando delle mosche tormentano il viso, ci si adira, non si è più disposti a sopportare niente. O almeno per Roberto funzionava così. “No, no, figurati, so che sei un artista. Cose che non posso capire. Di che avete parlato?” Sergio faceva la spola con gli occhi tra il registro e le ginocchia del coinquilino, si aggiustava gli occhiali ad ogni movimento del capo, si lisciò i baffetti sottili un paio di volte.
“Di diverse cose. Ad esempio Hemingway.” Detto questo Roberto si lasciò andare sul divanetto della sala, ancora vestito, con l’impermeabile e tutto quanto. “Ah, bello, pensa che lo conosco anch’io Hemingway, almeno di nome… eh sì, famoso lui, finito male se non sbaglio…”
“Hemingway in effetti è assai citato, ma penso anche che sia poco letto… insomma, almeno ultimamente.” Lasciò scorrere la schiena sulla pelle del divano, fino a lambire lo schienale con la testa.
Sergio intanto chiuse lo schedario e si piegò in avanti, appoggiando gli avambracci sulle ginocchia: “Mah, può essere, in fondo ognuno fa il suo tempo. Ti ricordi Christian Jacq? Quello che scriveva le storie sull’antico Egitto? Beh, dove pensi che sia finito? Nel dimenticatoio, certo…” Sembrava soddisfatto, vagamente fiero per essersi rivelato all’altezza dell’argomento. Roberto annuì: “Già, è così… mi chiedo ora quale editore sia disposto a riproporre la collana sull’Egitto.” “Vero, io mi accorgo di queste cose; mi ricordo in ufficio: se non leggevi di faraoni e mummie eri un pirla, e ora non se ne ricorda nessuno. Mica è passato un secolo no?” Sergio allargò le braccia, come per enfatizzare l’incontrovertibilità della propria affermazione.
“Hai ragione. Ma Hemingway è un classico, è uno dei più grandi scrittori mai esistiti. Non so, penso sia diverso…” Roberto si passò una mano tra i capelli e poi sulla faccia, poi si risolse a togliersi il soprabito. “C’è la roba da stendere, l’ho ammucchiata nel mastello lì, nella vaschetta, è pulita, poi la stiro io.” Sergio era in piedi sulla scala, stava sistemando il suo registro ad anelli blu sopra uno scaffale. Roberto notò quanto fosse magro, pallido. Sembrava un uomo malato, o per lo meno sofferente. “Ci penso io. Del resto a stirare sei molto meglio tu di me…” A Sergio scappò un sorriso compiaciuto, poi con sommo sforzo infilò il falcone tra altri due quaderni e con non poco sforzo scese dai pioli. Sul balcone Roberto stendeva. Intorno a lui case, altri balconi, ringhiere, massaie intente a torcere i panni prima di disporli sullo stendibiancheria; il benzinaio dall’altra parte della strada stava insaponando l’auto di un cliente, l’altro stava preparando la canna dell’acqua per il risciacquo. Sembrava tutto immobile, silenzioso, discreto. La penombra del viale alberato quasi non si percepiva tanto le nuvole avevano fatto cappa. Roberto pensava non fosse poi un male la sua situazione, sì, perlomeno c’erano delle sicurezze, c’era una tranquillità vellutata e soporifera a cui abbandonarsi, e poi la scappatoia dei libri, la possibilità di essere qualcun altro in qualunque momento; poteva leggere quanto voleva, Valenti non poneva alcun controllo, i clienti c’erano ma non erano poi molto numerosi, si poteva vivere insomma. Si poteva portare a casa i libri che più piacevano, e poi, vabbé, se ci si dimenticava di restituirli non era poi la fine del mondo, erano cose che potevano capitare una volta ogni tanto, ad ogni modo Valenti non avrebbe detto nulla, a lui bastava l’onesto decoro della propria attività. Del resto nemmeno lui ci si impegnava anima e corpo, e aveva se non altro il buon gusto di non richiedere ai suoi sottoposti ciò che nemmeno lui si sarebbe mai sognato di fare.
“Bob, è il tuo girono libero oggi allora?” Due anni di convivenza e ancora Sergio aveva difficoltà a capire che il lunedì la libreria era chiusa.
“Certo, è lunedì, il lunedì è sempre chiusa, apposta si chiama giorno di chiusura.” C’era un insieme di ilarità e sarcasmo nelle sue parole, che però Sergio non colse, non coglieva mai quasi niente in verità.
“Ah, bene, allora io torno al lavoro, ci vediamo stasera.” Sereno, quieto, se ne uscì dalla porta, diretto al comune, ufficio anagrafe. Roberto finì di stendere, poi scese, si infilò nel bar dell’Ambrogina per prendere un cappuccino, non beveva caffè. L’ambiente era perennemente immerso nella semioscurità, qualche tavolo, le sedie, un frigo per i gelati spento da dieci anni che fungeva da deposito per scatole da imballaggio, il pavimento di marmo consumato, qualche vecchio che giocava a carte. Per Roberto valeva più che altro la comodità di avercelo sotto casa.
“Oh Roberto, che piacere, come va?”, la solita Ambrogina, cordiale, familiare; vestita da casalinga, uno scialle consunto sulle spalle, gli occhialetti tondi.
“Buongiorno, tutto bene, grazie, lei?”
“Oh, non mi lamento, le solite cose, cosa le do?”
“Mi fa un cappuccino grazie…” si appoggiò coi gomiti sul bancone mentre la barista compiva gesti rapidi e leggeri per preparare il caffè.
“Era un po’ di tempo che non ci si vedeva, sempre preso col lavoro eh?”
“Sì, cosa vuole… cose così, i soliti impegni…” Risposta di circostanza. Si sforzava di dire qualcosa di diverso, ma alla fine in occasioni simili si sentiva proferire sempre le stesse formule collaudate in anni. Poi gli balenò un modo per cavarsi d’impaccio e non sembrare il solito tizio strano e poco amabile: “I suoi nipotini, stanno bene?” Gli porse il cappuccino, con le mani libere poté finalmente sbracciarsi come era solita fare: “Non mi dica… stanno bene eh, stanno bene… sono una disperazione, il secondo è bravo eh, bravo, va bene a scuola e tutto, è sempre preciso, segna tutto; ma il maggiore, oh signore, il maggiore…” Lo fissò con occhi sgranati e la mano destra che si agitava a mo’ di affettatrice: “Non segna niente sul diario, non ascolta la maestra, poi mia figlia gli chiede hai segnato tutto? C’è qualche riunione? Possibile che non hai mai compiti? E vede, tutte le sere sono lì a telefonare ad un compagno per farsi dire le cose, mi dica lei…”
Roberto si limitò a mantenere un sorriso contenuto, di quelli che ispirano un senso di comprensione in chi li riceve, anche se la maggior parte delle volte sono fatti solo per coprire un silenzio imbarazzato, poi si risolse a parlare: “Non è niente di male, sono cose comuni ai bambini, cose che capitano…”
“Lei dice? Bè speriamo, io vedo mia figlia. Oh è sempre presa: uno fa nuoto, l’altro va a giocare al pallone, poi c’è da portarli a dottrina…” Ambrogina era una cara donna. Una donna semplice e diretta, sinceramente preoccupata per i figli, i nipoti. Il marito era morto in un incidente anni prima. Cose che si sanno, ma sono tasti che è meglio non toccare. La morte è un tabù, qualsiasi tipo di morte, meglio non parlarne. Roberto lo sapeva benissimo.
Salutò Ambrogina, non aveva più niente da fare, non erano nemmeno le due e mezza del pomeriggio. Pensò di recarsi alla libreria, così, magari per dare un’occhiata alle nuove uscite, per far finta di occuparsi anche oltre l’orario. Se qualcuno l’avesse visto avrebbe sempre potuto dire che era lì per finire un inventario o qualcosa del genere. Riprese nuovamente la bicicletta, si mosse lungo la strada che lo separava dalla libreria, il traffico era moderato, a quell’ora non c’era in giro troppa gente, non c’erano ingorghi, il che era anche piuttosto inusuale vista la giornata che prometteva pioggia. Roberto pensò per un momento che sarebbe stato tempo anche per lui di prendere un’auto, un’utilitaria, niente di più, quel tanto che serviva per spostarsi, per andare al lavoro senza prendere freddo tutte le mattine; perché non sembra ma già a fine settembre possono capitare mattinate pungenti, di quelle in cui serve la pancera di lana, le pancere da pensionato, che pizzicano e danno un fastidio boia. Roberto non aveva avuto più un’auto da quando se ne era andato di casa, ma erano cose passate oramai. E ad ogni modo era l’auto che usava sua madre. No, arrivò alla conclusione che per il momento non se ne sarebbe fatto nulla di un’auto, certo, sarebbe stata una comodità, ma niente di più, senza contare che con buona probabilità sarebbe stata una spesa quasi proibitiva per le sue esigue finanze.
La libreria era in centro, in Piazza Vittorio Veneto, al pianoterra di un antico palazzo signorile, da poco restaurato. Portò la bici nel portone di fianco all’ingresso, la legò ad una ringhiera. Si frugò in tasca: chiavi di casa, qualche spicciolo, cartacce, scontrini, chiavi del negozio. Entrò dall’ingresso posteriore, quello che dava sul cortile, si trovò in magazzino, dove erano accatastati gli scatoloni con i nuovi arrivi, poi i libri scolastici e quelli universitari. Si accorse di non essere solo, filtrava una luce dall’interno del negozio, poi una voce: “Chi c’è? Paolo sei tu?” era Valenti. “No Antonio, sono Roberto.” Uscì dal magazzino, si sporse dal bancone: c’era Valenti immobile al centro della sala, giusto sotto il fascio di luce di uno dei faretti. Sembrava smorto come un cadavere sotto quella luce diafana, si muoveva lentamente, aveva una sigaretta spenta tra le dita della mano sinistra e l’altra in tasca. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, iniettati di sangue, spettinato, la barba di due giorni almeno.
“Ah, Bobby, vieni, vieni, è tutto a posto…” Aveva la voce metallica, bassa e rauca.
“Ho visto la luce accesa, ho pensato anch’io che fosse Paolo…” Fece con una punta di esitazione.
“Paolo qui il lunedì? Ma quando mai, quello scopa il lunedì, mica come me e te…” Fece per ridere, ma la smorfia gli rimase a metà strada sulla faccia, poi un colpo di tosse. “Ma sei sicuro che va tutto bene? Non hai un gran bell’aspetto…” Non sembrava nemmeno più Antonio Valenti, lo sportivo, quello alla moda, col macchinone per le mani. “Eh, caro mio, sapevo sarebbe successo… eh, sì, prima o poi…” Fece un giro su se stesso, fino a dare le spalle a Roberto, poi estrasse dalla tasca della giacca l’accendino e accese la sigaretta, il tutto in un consumato e morbido movimento, senza far trasparire incertezza né tantomeno crisi. “Successo cosa?” Ora si stava preoccupando, non lo aveva mai visto in quello stato, prese la sedia dietro il registratore di cassa e ci si sedette sopra pesantemente, tutto rapito dalla strana e carismatica plasticità di Antonio. Che riprese: “Mi hanno tagliato i fondi… la libreria non va poi così bene, i miei, i miei fratelli e mio padre cioè, hanno deciso di togliermi il giocattolo, dicono che si sono stancati di turare le falle dei miei passatempi… mi spiace Bob, ci perdi anche tu… lo so eh? Ma che vuoi? Ci abbiamo provato… eh, sì…”
Roberto era impietrito, di più, anestetizzato. Aveva capito subito che non si trattava di uno scherzo, Antonio era serio come mai era stato da quando lo conosceva, aveva perso tutta la verve. È sempre così, sono buoni tutti di fare gli ironici quando le cose vanno bene, bisognerebbe essere signori anche quando buttano male, malissimo, come nella malattia, o appunto nel fallimento. E invece no. Si piange. D’un tratto si perde tutto il buon umore che c’era quando soffiava il vento in poppa.
Roberto fece di tutto per non scomporsi. Salutò Valenti, che nel frattempo si era appoggiato con l’avambraccio alla mensola, ridacchiava tra sé e si passava la svapora tra le dita, senza fumarla. Roberto intanto svicolò di nuovo in cortile, arraffò da uno scaffale un libro, uno a caso, lo considerava un risarcimento, non tanto per il lavoro che andava a puttane, quanto piuttosto per la disgustosa scenetta a cui aveva appena assistito. Una guida di Madrid. Non gliene importava niente. La ributtò sullo scaffale, ma prese male la mira e quella cadde a terra, in mezzo alla polvere.
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