racconti » Racconti d'avventura » Capodanno a Cuba (finale)
Capodanno a Cuba (finale)
La sera raggiungemmo nella piazza centrale, il giovane che ci accompagnò al paladar per la cena. Era puntualissimo.
Il pasto non fu dei migliori ma al confronto della moglie di Piloto anche Mc Donald’s avrebbe fatto la figura di un Vissani.
Restammo per il resto della sera a parlare con il nostro giovane amico che ci parlò della sua vita senza sbocchi a Remedios e del suo desiderio si salire su un pneumatico e sfidare l’oceano per raggiungere la Florida che dista da lì solo cinquanta miglia (solo, si fa per dire, su un pneumatico).
Ci accorgemmo in quel momento che Remedios era vera terra di frontiera, per la sua vicinanza agli Stati Uniti. Era la zona da cui i “balceiros” (credo si scriva così) i fuggitivi, prendevano il mare verso la Florida con i mezzi più disparati.
La mattina dopo venimmo a sapere dal nostro affittacamere che Piloto aveva fatto arrestare il giovane colpevole di averci indicato un paladar dove mangiare e di essersi quindi intromesso nei suoi affari. Ufficialmente era accusato di essersi intrattenuto con dei turisti senza autorizzazione. Piloto stava tirando fuori tutta la sua natura di essere disgustoso.
Inutilmente andammo da lui a protestare, a dirgli che il giovane era stato contattato da noi, ci rispose che era un teppista che teneva d’occhio già da tempo.
Andammo quindi a trovare la madre, che avevamo intravisto la sera prima accompagnando a casa il giovane e lei ci mostrò un documento: Piloto aveva fatto comminare al figlio, dai suoi ex colleghi di polizia, una multa di cinquanta dollari (dollari?) per quella gente è una cifra enorme, ma lei ci disse che non l’avrebbe pagata.
Il nostro affittacamere ci sconsigliò di andare troppo dentro questa storia e di goderci la vacanza, le cose si sarebbero messe a posto da sole.
Infatti il giorno successivo il ragazzo venne rilasciato. Si trattava solo un avvertimento.
Remedios cominciò a non piacerci.
Decidemmo quindi di rinunciare all’autista di Piloto per il tour al cayo e di noleggiare uno scooter all’albergo del centro. L’unico che noleggiava scooter.
Non aspettatevi che anche il noleggio dello scooter fosse una cosa semplice a Remedios.
Lo scooter di fabbricazione giapponese era nuovo fiammante, con qualche graffio. L’assicurazione sui danni non era compresa nel costo del noleggio, cosa significa? Che il nostro noleggiatore mentre ci mostrava lo scooter prendeva nota su uno schemino disegnato, dei segni e dei graffi già esistenti, tutti quelli in più ce li avrebbe addebitati… a Remedios funzionava così!
Verrebbe da gridare vero?
Una forza misteriosa ci sostenne e affrontammo, in due sullo scooter, con due tanichette di benzina di scorta legate sul davanti, la strada per i cayos della Herradura.
Oltre cinquanta chilometri di percorso in terra battuta e ghiaia piena di buche lasciate dai camion che portavano gli operai diretti tutti i giorni sui cayos a costruire alberghi e infrastrutture per i futuri turisti... che dire? Eravamo folli!
Forse.
Ma di certo non sopportavamo l’idea di essere vittime passive degli eventi.
Eravamo coscienti che si deve fare quello che si può, ma bisogna provare fino a dove si può, e se questo impone prendere qualche rischio, quando c’è di mezzo la libertà non esistono rischi troppo grandi, e lo sanno anche i cubani. Quindi ci sentimmo un po’ rivoluzionari nella patria de la revolucion.
Ci spingemmo con lo scooter fino all’ultimo cayo dell’arcipelago. Settanta chilometri di strada sterrata. Gli unici che incontravamo erano i camion carichi di operai diretti ai cantieri in mezzo alla una natura selvaggia.
Ci salutavano molto calorosamente, quasi a sostenere la nostra impresa.
Il viaggio fu avventurosamente bello e più di una volta rischiammo di cadere e procurare graffi allo scooter e a noi stessi, ma andò tutto bene.
Mi riuscì persino di fare un bel bagno con un gruppo di pellicani che mi svolazzano attorno a pochi metri mentre la mia compagna prendeva il sole tutta sola su di una selvaggia spiaggia di dune, fra le quali avevamo nascosto il nostro scooter.
Verso sera riportammo lo scooter al noleggiatore, che dopo aver girato attorno al mezzo con scrupolo, quasi deluso di non aver trovato nuovi graffi da addebitarci, ci restituì la caparra.
Venne il giorno del ritorno all’Avana.
Gli accordi presi con Piloto il primo giorno prevedevano che il suo autista ci avrebbe accompagnati alla capitale, ma la sera prima della partenza questo si presenta allo “cialét” con la notizia che anche Piloto avrebbe fatto parte della compagnia.
Sentimmo suonare nella testa un campanello d’allarme.
La mia compagna ed io ci consultammo velocemente e rispondemmo all’autista che il viaggio lo pagavamo noi e che volevamo andare soli.
Va detto che a Cuba, vista la scarsa possibilità di movimento su lunghe tratte, dovuta ai costi della benzina, era consuetudine per chi poteva programmare uno spostamento, accettare di offrire passaggi a chiunque ne avesse il bisogno, così come era regola non scritta ma quasi obbligatoria, caricare gli autostoppisti per strada, che da quelle parti non erano giovani hyppies in cerca di avventura, ma piuttosto donne, operai, anziani o chiunque avesse un motivo per spostarsi. Pur consapevoli di ciò, rifiutammo il passaggio a Piloto, perché era forte in noi il sospetto che lui volesse tentare una qualche forma di ritorsione nei nostri confronti e di certo non mi sentivo in grado di contrastare fisicamente l’energumeno autista e il cinico Piloto. Perciò trasgredimmo le regole cubane.
Più tardi l’autista tornò con la risposta di Piloto e confermò ancora di più i nostri sospetti: senza Piloto nemmeno lui era disponibile. Che fare? Dovevamo assolutamente tornare all’Avana. Due giorni dopo avevamo il volo per l’Italia.
Ancora una volta ci venne in aiuto il proprietario dello “cialét”, dopo cena si assentò e prima che si andasse a dormire tornò con buone notizie.
Una sua zia aveva la necessità di recarsi all’Avana e se noi eravamo disposti a pagare il viaggio lei poteva soddisfare la sua necessità e noi la nostra. Affare fatto. Tirammo un sospiro di sollievo, la questione Piloto era definitivamente archiviata. “Ti abbiamo creato un nemico” dissi all’affitta “cialét” riferendomi a Piloto. “non preoccuparti so io come tenerlo a bada” mi rispose lui sereno.
Questa era Remedios.
L’anziana zia aveva una vecchia Buick americana degli anni cinquanta. La guidava il nipote che viveva con lei. Una coppia che sembrava uscita da certa letteratura neo classica americana.
Il nipote aveva i capelli brillantinati pettinati da un lato, con una vistosa riga dalla parte opposta. Occhiali spessi, canotta bianca in trasparenza sotto la camicia a righe azzurrine verticali, pantaloni alti in cintura e corti alla caviglia, scarpe nere di vernice, lucidate per l’occasione.
Lei era molto simpatica e un po’ logorroica, tutta pizzi e merletti indossava un cappello a larghe tese stile inglese fine 800. Sembrava l’avesse vestita la costumista di Via col vento. Una vecchina sul genere della protagonista del film “A spasso con Daisy”. L’auto era ben conservata all’apparenza ma... Il nipote ci spiegò che a causa di un problema all’impianto di raffreddamento era costretto a fare una sosta di dieci minuti ogni quaranta cinquanta chilometri per raffreddare il motore, e che, sempre a causa dello stesso problema, la velocità di crociera non poteva superare i cinquanta chilometri orari.
I duecento chilometri che ci dividevano dall’Avana furono un’odissea, aggravati dal fatto che sui sedili posteriori dove la mia compagna e io sedevamo c’era un’insopportabile odore di benzina. Le soste tecniche, tutto sommato, si rivelarono provvidenziali per riossigenare i nostri provati polmoni.
La strada che portava all’Avana era di fatto un’autostrada a quattro corsie sulla quale circolava di tutto: carri trainati da animali, trattori, biciclette, pedoni, camion stracarichi di operai e autostoppisti di tutti i tipi. Ad ogni modo non vedemmo mai più di sei veicoli in movimento contemporaneamente a perdita d’occhio.
Arrivammo all’Avana dopo parecchie ore (credo sei) in stato di totale ebrezza da benzina.
La città era sottosopra per la questione del “nino”. Ci dissero che Fidel in persona avrebbe parlato alla piazza, per ragioni di sicurezza fummo costretti ad un certo numero di deviazioni per trovare l’abitazione della signora Rosa. Un gran numero di persone si recavano lentamente verso l’appuntamento con il “lider maximo”. Un fiume umano, con le t-shirt con su impressa la faccia del “nino”.
“Un italiano si è presentato stamattina chiedendo di voi” ci disse Rosa dandoci un biglietto con su scritto un numero di telefono. Era Roberto G. voleva invitarci a cena a casa sua per la sera a mangiare l’aragosta cucinata da lui.
La signora Rosa, informata da Manuel, non riusciva a capire cosa fossimo andati a fare a Remedios e ci ricamò su con un po’ di ironia “è proprio un rimedio” disse sorridendo.
Approfittammo per fare un’ultima passeggiata per l’Avana: le sue facce, le sue case scrostate, quel sapore del colonialismo andato che lì era più forte che altrove. I cartelloni della propaganda rivoluzionaria, l’assenza più totale della demenzialità pubblicitaria che nelle nostre città consumiste, soffoca i muri e gli arredi urbani… e poi la musica, tanta musica cubana, dovunque nell’aria. Non c’è angolo dell’Avana vecchia, in cui non risuoni musica e ancora una volta Chan Chan il nuovo inno di Cuba…
La sera a casa di Roberto, fu l’ultima sera a Cuba. Roberto aveva una gran voglia di parlare italiano, non lo faceva da tempo. Fu molto ospitale. Conoscemmo sua moglie cubana, più giovane di lui, che non l’aveva sposato per venire in Italia, come fanno tante sue connazionali anzi, convinse lui a restare a Cuba.
Roberto era deluso perché i suoi vani sforzi per aiutare i cubani a riconvertire le aree coltive in produzioni più redditizie sul piano dei mercati internazionali si scontrava con veri e propri muri burocratici “i cubani sono troppo pigri e poco disposti al nuovo” si lamentava e la moglie con lui. Avrebbe voluto comprare casa a Cuba e avendo sposato una cubana lo poteva fare, però questo valeva solo se stava con lei lì; se avesse lasciato lei o Cuba perdeva automaticamente il diritto alla proprietà. Lui non era sicuro di voler restare nell’isola per il resto dei suoi giorni, nonostante non fosse più tanto giovane e desideroso di piantare radici.
La serata passò gradevolmente, l’aragosta era ottimamente cucinata. Quando scoccò la mezzanotte ci riaccompagnò. Ci lasciammo con un arrivederci che a oggi non si è ancora realizzato.
Il resto fu solo un lento ritorno verso casa.
Era il 18 Gennaio 2000.
Fine
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- questa e cuba, companieros.
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0